Quattro pezzi brevi
susanna sinigaglia
Fog – rassegna di danza e teatro – Triennale
Teatro dell’arte Milano
Quattro pezzi brevi
Introduzione
Quest’anno la rassegna è particolarmente affollata. Spesso le performance proposte restano soltanto due serate e perciò le recensioni si accumulano le une sulle altre. Ho deciso così di raggrupparle perché sono piuttosto brevi, sia per la loro durata (meno di un’ora) sia per il mio limitato gradimento verso la performance stessa..
Come neve
Antonio Bolognino
È stata una delizia per l’anima questo duetto fra danzatrici che si sono presentate roteando come dervisci o marionette meccaniche d’altri tempi. Indossano abiti variopinti lavorati all’uncinetto completati da una striscia bianca che funge da grembiulino disegnato sulla gonna, sempre a uncinetto, e da cuffiette che riprendono il motivo del loro abito. Mi ricordano i costumi tipici del folclore tirolese, di alcune bamboline con cui giocavo da piccola.
Secondo la leggenda, la tecnica del lavoro a uncinetto fu inventata da una donna che, osservando dalla finestra i fiocchi di neve caduti sul suo davanzale, cercò di riprodurne il disegno con un filo di lana e un ago ricurvo. La performance è anche un omaggio del giovane regista alla nonna, di cui ricorda i lavori frutto di questa tecnica meravigliosa.
Le due ballerine volteggiano sul pavimento dell’atrio del teatro, scelto come spazio per la rappresentazione.
Non è soltanto esibizione di puro virtuosismo. Esprimono stati d’animo dalle più varie sfaccettature: di solidarietà e conflitto, tristezza e abbandono, consolazione e finalmente gioia.
E il pubblico abbarbicato sui gradini che portano al salone d’onore, incantato, le omaggia con un calorosissimo applauso.
Universe, a Dark Crystal Odissey
Company Wayne McGregor
È stata al contrario una delusione il lavoro di Wayne McGregor che aspettavo con curiosità. Mi sono trovata di fronte a una serie di immagini che si affastellavano spaziando dalla preistoria alla conquista dello spazio e ritorno. Purtroppo però erano prive di contenuti, con grande dispendio di effetti speciali.
In genere quando una performance non mi convince o decisamente non mi piace, evito di scriverne ma, in questo caso, ho deciso di fare un’eccezione proprio per restituire una visione dell‘ampia varietà di Fog, che rappresenta comunque un ricchezza.
Si respira nel giardino come in un
bosco
El Conde de Torrefiel
Non ho ancora capito le ragioni di questo titolo, forse semplicemente “suonava bene” per attrarre e incuriosire un pubblico di “cavie volenterose”. Si tratta infatti di un esperimento e, per quanto mi riguarda, ben riuscito. La proposta si svolge al Teatro Filodrammatici, non a quello della Triennale. Penso che la scelta dello spazio non sia casuale, perché le conferisce una certa aura di mistero. Il palco e la platea si trovano infatti in un sotterraneo, cui si accede attraverso una lunga scalinata di marmo a spirale. L’accompagnatore mi conduce dietro le quinte, porgendomi delle cuffie e invitandomi a indossarle: attraverso il dispositivo ascolterò una voce che m’impartirà le istruzioni sul mio compito. Poi se ne va.
La voce arriva; mi spiega che dovrò seguirne le indicazioni alla lettera, m’invita a fare il mio ingresso sul palco cosciente d’avere un pubblico; infatti scorgo in fondo alla platea una ragazza che mi sta osservando. La voce mi sollecita ad avvicinarmi a un contenitore collocato sul lato destro del palco dove troverò dei rotoli di carta argentata. Dovrò srotolarne una striscia più corta e una lunga almeno un metro.
Avviene però l’imprevisto. I due rotoli che trovo nel recipiente sono quasi completamene esauriti; dal primo mi è completamente impossibile trarre qualsiasi striscia, mentre dal secondo riesco a fatica a trarne due pezzetti, uno più sottile e corto e l’altro un po’ più largo e lungo. Ma non c’è tempo da perdere, devo agire con quello che ho perché la voce m’impartisce ulteriori istruzioni. Devo andare dietro le quinte e costruirmi una specie di maschera con i due pezzetti di carta argentata; me li sistemo alla meglio sul viso ed esco di nuovo a mostrare la mia “maschera”. Poi ricevo istruzioni di plasmare una specie di fiaccola con uno dei pezzi e correre intorno al palco tenendola in alto come in segno di vittoria; attorciglio il pezzetto più lungo ed eseguo mentre la voce m’incalza ordinandomi di correre più in fretta, più in fretta… Infine, la voce m’invita ad appallottolare l’altro pezzetto di striscia, di farne un pezzo unico con la fiaccola, gettare l’oggetto a terra e calpestarlo… lo spettacolo è finito, m’inchino davanti al pubblico che mi applaude. Prima di uscire, la voce mi prega di buttare “l’oggetto” in una pattumiera, mi dice che “sono andata benissimo” e mi chiede di scendere dal palco e accomodarmi in fondo alla sala e rivestire a mia volta il ruolo di ”pubblico”. Abbastanza fiera di me stessa per come me la sono cavata pur quasi senza il materiale previsto, mi siedo.
Entra la nuova performer. È una giovane che indossa uno strano, ampio abito nero un po’ a palloncino sopra i jeans. Esegue le istruzioni della voce e mi accorgo, con un pizzico di disappunto misto a rammarico, che i “suoi” rotoli sono intonsi e ben “srotolabili”. D’altro canto posso osservare come si sarebbe dovuta svolgere l’azione se avessi avuto anch’io più ampi mezzi… e così mi rilasso e mi godo lo spettacolo, congratularmi ancora con me stessa per aver avuto la presenza di spirito di affrontare l’imprevisto con una certa spigliatezza e senso del gioco.
Deriva traversa
Dewey Dell
Conosco i Dewey Dell per averli già visti in altre rassegne di Fog, e proprio per questo avevo delle aspettative in merito alla loro performance che si è svolta alla Galleria d’arte moderna (Gam). Mi interessano molto gli spettacoli che scelgono di rappresentarsi in spazi diversi da quelli tradizionali, mi piacciono le commistioni di luoghi e linguaggi.
Quando il pubblico entra nello spazio affrescato e con un grande specchio dalla cornice dorata in fondo alla sala (la Sala del Parnaso). Sotto lo specchio è già posizionata la performer a terra, le gambe dietro la testa.
Indossa un top, una culotte color carne e una cuffietta dello stesso colore. Una specie di nenia l’avvolge imprimendole il leggero impulso a un lento spostamento.
Esplora cautamente lo spazio con il corpo, prima il pavimento con le gambe e le braccia, poi srotolandosi verso l’alto, infine allungandosi al suolo e misurandolo con lo sguardo.
La performance si svolge così, nel contrappunto fra esplorazione dello spazio e suoni prodotti da lontani vocalizzi di sottofondo: una perfetta e morbida esecuzione di tecnica di release con un pizzico di yoga e misticismo; ma mi lascia un po’ insoddisfatta.
Perciò, anche se non mi entusiasmano troppo gli incontri del dopo-spettacolo con gli artisti, mi avvio con la gran parte degli spettatori verso il luogo allestito per la conferenza. Lì ci aspetta anche Stefania Tansini, che negli stessi giorni ma in orari diversi ha presentato il suo lavoro nell’adiacente Pac (Padiglione d’arte contemporanea). Ascoltandola, mi rammarico per non averlo visto. Ma torniamo ai Dewey Dell. L’interprete della performance è Teodora Castellucci, assistita dalla sorella Agata e accompagnata dagli arrangiamenti musicali del fratello Demetrio. La compagnia infatti è una creatura di parte della famiglia Castellucci, che ha ereditato dal padre Romeo la vena artistica. Ci spiegano d’aver seguito per mesi, in Sardegna, i pastori che nella loro solitudine si accompagnano con il ““cantu a tenore”[1], una tradizione antichissima che risale all’epoca nuragica. Di aver dunque elaborato quei suoni per creare la “colonna sonora” della performance. Malgrado la spiegazione in merito alla ricerca sottesa alla creazione della performance mi restano, anzi si moltiplicano, le mie perplessità: come sarebbe stato possibile conciliare questo background con il lussuoso spazio tardo settecentesco della Sala del Parnaso?
E infatti è proprio questo dialogo che è venuto a mancare, e forse non poteva che essere così.
[1] Su cantu a tenòre (assai vivo nella Barbagia, nel nuorese e in Baronia) è un canto polivocale, in cui si battono ritmicamente i suoni e si grida per far girare i coreuti. È il canto più antico e armonioso della civiltà sarda. Viene eseguito da quattro uomini (da Wikipedia).