Quattro poeti/mondo a Bologna
I testi – e le traduzioni – di Alberto Masala, Gabor Gyukics, Manuel Van Thienen e Lance Henson (*)…
… che erano il 14settembre alla libreria Trame di Bologna per «100,000 poets for change, a reading against tyranny» (**)
BREVI NOTE BIOGRAFICHE di Gabor Gyukics, Lance Henson, Alberto Masala, e Manuel Van Thienen: Ungheria, Stati Uniti, Italia e Francia i loro Paesi di origine.
Gabor Gyukics è autore di 7 antologie poetiche e 11 volumi di traduzioni, incluso il libro “A transparent lion” di Attila Josef in inglese, e un’antologia di poeti indigeni in ungherese. Scrive la propria poesia sia in inglese che in ungherese.
Lance David Henson appartiene al clan Cheyenne dog. Poeta e drammaturgo, ha pubblicato 43 libri tradotti in 23 lingue, è attivista culturale, “sundancer” e membro della Chiesa indigena americana. Dirige il progetto letterario “Words from the edge”, che invita in Europa poeti le cui etnie sono in pericolo. Professore di cinema e letteratura, borsa di studio Ford Foundation e Smithsonian, e professore associato presso Cheyenne Arapaho College, Weatherford, Oklahoma.
Alberto Masala, sardo, vive a Bologna. Poeta, scrittore e traduttore plurilingue. Pubblica in Italia, USA, Francia. È in raccolte e antologie in varie parti del mondo. Ha scritto opere musicali e spesso va in concerto dal vivo.
Manuel Van Thienen è poeta e traduttore dei nativi americani e del popolo Maori, e lavora come incisore. Vive in Francia, in Ardeche.
QUI SOTTO LE POESIE
SONO NELL’ORDINE DI LETTURA A BOLOGNA, PRIMA IL TESTO ORIGINALE E POI LA TRADUZIONE (anche per il sardo ovviamente)
A unu sard’arréssu
Si ti fentómo bombas
sas ki ‘ettan in Quirra
non bortes sa cara a s’ater’ala.
Ite narrer non crobas?
S’argumentu t’iskirria
e non nelzas ki ‘enzo in limba mala.
No istes trattenzendhe
su tempus est benzendhe
e andhat sa Sardigna innoromala.
Non bi movet néune,
paren abbilandrados cun sa fune.
Cun disispéru mannu
grusciad’a matta a terra
su sardu lu muntenen accamadu.
Su cummérciu de occannu
manc’in tempos de gherra,
s’ilvarriada ‘e bombas k’an’ tzoccadu.
Nos pienan de belenu
nos cancaran s’alenu
nos làssana su logu frazigadu.
Militares a fiòttos
paris cun generales caricottos.
In mesu ‘e radiatziones
bi nàskene criaduras
ki tenen’ maladias ken’un’ispèra,
e ite sos anzones
imbaglios de natura
ki ndh’essin’ a duas concas ke kimèra.
Pro duos soddhos cagados
tottos abbelenados
tottos dissantarados a manèra.
Italia malaitta
donzi peraula posta l’as traitta.
E tue? ti ses arressu
e balias unu mundh’a su revessu.
Est a ti ndhe pesare
est a lear’in manos custa sorte.
Ti keren intzegare
pro ki no’ bidas ki ’attini morte
sos dannos, sos abunzos,
sos sardos attragados pro balanzos.
Keren’ frimmados como
innantis ki nos ndh’ettene sa domo.
Como keren’ frimmados
innanti de nos bider cancarados.
Frimmados como keren’
e menzus ki sos sardos si ndhe séren’.
LA TRADUZIONE
Ad un sardo immobile
Se ti parlo di bombe
che stan gettando in Quirra
non voltare la faccia dall’altra parte.
Non sai cosa dire?
Scegliti un argomento
e non dirmi che arrivo con brutti discorsi.
Ma non perdere tempo
sta arrivando il momento
e la Sardegna intanto va in malora.
Nessuno che si muova,
sembrano incaprettati con una fune.
Con gran disperazione
strisciando pancia a terra
i sardi sono oppressi dal capestro.
Il business di quest’anno
più che in tempi di guerra,
per la quantità di bombe che hanno esploso.
Ci riempiono di veleni
Ci inquinano l’aria
riducono la terra ad un disastro.
Militari in quantità
Insieme a generali dalla faccia di bronzo.
Fra queste radiazioni
nascono bambini
che hanno malattie senza speranza
e che dire di agnelli
errori di natura
che nascono a due teste come mostri.
Per due soldi sporchi
sono tutti avvelenati
tutti completamente rovinati.
Italia maledetta
hai tradito ogni tua parola.
E tu resti bloccato
e tolleri un mondo rovesciato.
Ti devi sollevare
Devi prendere in mano il tuo destino
Vorrebbero accecarti
perché non ti renda conto che portano morte
i danni, le brutture,
e i sardi avvelenati per il business.
Bisogna fermarli ora
prima che ci distruggano completamente.
prima che tutti ci becchiamo un tumore.
Fermarli ora bisogna
ed è vitale che i sardi se ne rendano conto.
A Gaza
Ecco, se mi adattassi a una poesia ragionevole,
se fossi previdente,
se provassi a portare una coscienza
che non comprende o non ricorda niente,
se potessi mentire
prudentemente armato di buonsenso,
rispondere a domande,
se potessi parlare, commentare
con opportuno distacco e leggerezza,
sostenere il discorso,
e un finale accettabile che ignora
quelle angosce oscurate…
Di che vi preoccupate?
Un moderno governo muscoloso
si fa misura di ogni sfondo.
E lo oscura, e il margine dispone,
e lo rinnova, e dopo si riposa
nella nostra ignoranza.
La perdita di un margine
non si distingue nell’oscurità.
Tutti i giorni si perdono parole
per implacata gravità.
Qui è l’occidente
che sta affondando con la mia realtà.
Sto fermo, sono stato fermato,
sto con le spalle al muro
nell’attrito di giorni
che continuo a vedere imprigionati
nelle sconfitte d’innocenza.
Non accettarle e trascinare l’ultima
fino alla prossima illusione
era un vantaggio che ormai mi è stato tolto.
Chiedo soltanto
di avere forze per non arretrare.
Senti? Oggi cosa si celebra?
Morale? Civiltà? Si perdona all’infamia?
Penso che qui convenga non gridare.
Ma non temere
se anche non parlassi
nascerebbe comunque una tempesta.
Perché ancora il cuore si contorce
producendo l’amore
che giorno e notte suggerisce voce.
Perché portiamo una parola intatta
che avvolga dolcemente in un abbraccio
almeno quei bambini.
E tua madre, o soldato,
intanto immagina una festa
fra i ciechi muri in fuga.
Ma se qualcuno un giorno arriverà
gli dirò: – Entra, non nasconderti più…
Non ora, non ancora!
Dimmi tu cosa vedi
guardando nei grandi teleschermi?
Io vedo solo colori della morte, vedo
carneficine, campi di tempeste,
rovine, e una bocca senza voce.
Se c’è l’eco di pietre
vedo anche la mia lingua,
vedo le tracce stanche del ricordo.
Ma scriverle è sospetto.
In segreto la stanza è il mio riposo.
Anch’io ho vissuto replicando
radici leggendarie.
Ne ho avuto tutto e dunque anche il ricordo.
Ma nonostante cambi il panorama
qui non si cambia.
Nasciamo come polvere. In Kossovo…
curdi, bosniaci, baschi,
armeni, sardi… oggi
tutti vestiti da palestinesi
con l’odore del sole
nascosto nelle vesti.
Scrivo. E nel frattempo a Gaza vanno all’appuntamento con la tragedia quotidiana. Nella loro terra sono estranei, separati, senza domani, senza protezioni, esplorano i margini del dolore. Maledetti dall’odio del custode che stamattina si è svegliato più vorace. Serrati dalla sua legge, una macchina che scava, devasta, frantuma, distrugge costruzioni e chiama a una lenta discesa disperata in quella voragine che resta sempre aperta.
Muoiono, sospesi all’ingresso di un cielo stordito, scorticato dal filo spinato che corrode anche la vista negata di bambini invisibili, ma con addosso ancora l’accento della vita, che in loro risale con affanno per venire alla luce illegale che li circonda nel fumo di una civiltà morente.
Quei loro sogni, infranti nello specchio, in me scorrono come nuvole periodiche contaminate da rabbia inefficace. E voleranno eterni in lenti intervalli di memoria che non saranno mai raffigurati perché state abbandonando il libro che si chiude sulle loro vite.
E ne ho sentito esplodere i drammi sovrumani. Stanno tra gli obiettivi delle bombe.
manuel van thienen
Lancelot est venu des plaines d’Oklahoma
à Alain Jégou
Le sondeur de l’Ikaria ausculte le granit et la vase du port tracé plat des galaxies défilent sur l’écran en fausses couleurs pulsations cardiaques synchrones racage des aussières internes
de quart en poésie dans la timonerie compacte à l’affût des blessures et des îles noyées dans les brumes dans les regards le monde est à quai pour quelques heures les mots font escale dans les sourires croisés
sur le pont les écailles des poissons dans les caisses de plastique les mains des disparus clapotent sur le bordé silence rire contenu odeur de gazole qui monte de la machine le souffle de la mémoire écoute d’autres mouillages
un goéland sur le radar crie vers l’ouest la gorge ouverte il déploie ses ailes dans la rafale et glisse dans le vent à travers le crachin il est faucon dans la lumière qui hurle
tu parles de ton métier et je devine les fonds gorgés de mots vivants les filets déchirent leurs mailles les mains crochées au bastingage accompagnent les coups de hanche de la mer la bouche est pleine d’embruns et les narines frémissent sous les bouffées d’iode traînées de rouille sur le pont grincement du treuil lames qui glissent odeur de viscères
dans l’anse du Pouldu le vent est une femme qu’il faut baiser debout tu es resté dans le camion ton regard franchit le mascaret des essuie-glaces j’ai couru dans l’écume fumante j’impose mes mains sur le sable et la vague Lancelot est debout dans le rugissement une épée de lumière barre son ombre le Graal a des senteurs de cèdre rouge
à Doëlan le temps est aboli dans un verre de chouchen les regards croisés se posent en douceur le grain finira par se taire les mains que nous serrons ont la tendresse des beaux jours
sur le pont de Beg Nenez l’habitacle s’emplit de la Danse du Soleil le cœur de la terre bat sous le tambour le vent siffle dans l’os fendu de l’aigle le ciel est un miroir dans le velours des talus
le grésil nous courbera dans les rues de Lorient nos silhouettes comme autant de signes concrets de la marche nécessaire
désormais dans l’ombre de l’Ikaria les poissons dansent les haubans respirent le vent le pouls tranquille du Baudouin bat contre les membrures la pêche est bonne
tant de frères vivants et morts en partage.
Mémoire et silence
“Des nuits entières, durant un mois, j’ai entendu hurler des hommes que l’on torturait et leurs cris résonnent pour toujours dans ma mémoire.”
Henri Alleg. La question.
“Et il connut ainsi que la guerre n’est pas bonne, puisque vaincre un homme est aussi amer que d’en être vaincu.”
Albert Camus. Le premier homme.
à Roger R.
La nuit sa mémoire pleure souvent sur la blessure et des larmes mouillent le silence
dans l’étable une vache meugle à la pâle lueur d’une ampoule poussiéreuse odeurs de sang et de liquide amniotique un veau pointe ses sabots blancs à travers la vulve dilatée dans le froid du petit matin le poste de la clôture électrique claque régulièrement tac…tac…tac…tac…
la mer pour la première fois après le train et la caserne le barda sur l’épaule comme une botte de paille les rides déjà sur les visages fermés le mal de mer accroché au bastingage le bateau laboure les algues sous les vagues grasses odeur d’huile et de corps secoués par la houle dans un ciel où le soleil tue les couleurs
au bout de la nuit rugissant dans la lumière la ville blanche apparaît aux jeunes paysans arrachés à leur enfance aux champs et aux troupeaux affectés au ravitaillement les hommes entassés sur les quais chargés de caisses et de tonneaux boivent du mauvais vin
ils sourient fatigués au terme de leur premier voyage comme des touristes éblouis par les burnous les chèches et les babouches des paysans d’ici
ces paysans d’ailleurs
le camion monte vers les hauteurs par les boulevards et les ruelles ravitailler la villa des Oliviers à El-Biar où des cris hantent les soupiraux et les étages d’immeubles inachevés
Henri Maurice Djamila Cherif Elyette Mohamed Nassima Boualem Melika Lucie Colette n’existent pas pour eux arrachés à leurs montagnes leurs bêtes et leurs champs ils ne savent qu’une chose qu’ils découvrent seuls étendus sur le lit moite dans la touffeur de la nuit
“C’est une guerre de traître qu’on nous fait faire on est venu tuer des paysans.“
ce jour-là il fait froid et il neige devant le troupeau d’aubrac il marche un seau à la main courbé en deux par la burle derrière dans la benne du pick-up le rouleau de barbelés oscille entre un veau trop faible pour marcher et des cordes couvertes de sang la route s’étire au pas lent du troupeau il faudra presque deux heures pour rejoindre la ferme
les bêtes au chaud dans l’étable nous entrons dans la maison la neige peut tomber autour du litre de rouge on se réchauffe avant de se séparer
sur le pas de la porte il m’étreint les épaules me regarde dans les yeux « On s’est foutu de nous, on nous a pris pour des cons.» ses lèvres frémissent et un sourire naissant s’éteint
«Qu’est-ce qu’on est allé faire là-bas ?»
«Après ce que j’ai vu et fait, comment être raciste?»
la voix hésite
«Tu te rends compte, quand on est rentré chez nous, on pleurait parce qu’on partait et qu’on quittait les copains avec qui on partageait le peu qu’on avait ou les colis qu’on recevait.»
il rit puis son visage se ferme
«Si tu savais ce que j’ai vu…»
la nuit il pleure souvent sur les blessures de la mémoire silencieuse le jour il paille l’étable caresse les pis des vaches surveille la boursouflure des vulves guette les naissances.
Lancillotto è venuto dalle lande dell’Oklahoma
a Alan Jégou
Lo scandagliatore dell’Icaria ausculta il granito e il limo del porto tracciato piatto delle galassie scorrono sullo schermo in falsi colori pulsazioni cardiache sincrone trozza delle cime d’ormeggio interne
da quarto in poesia nella timoniera compatta all’affusto delle ferite e delle isole annegate nelle brume negli sguardi il mondo è all’ormeggio per qualche ora le parole fanno scalo nei sorrisi che s’incrociano
sul ponte le squame dei pesci nelle casse di plastica le mani degli scomparsi sciabordano sul fasciame silenzio riso contenuto odore di gasolio che sale dalla macchina il soffio della memoria ascolta altri ancoraggi
un gabbiano sul radar stride verso ovest la gola aperta spiega le ali nella raffica e scivola nel vento attraverso la pioggia fine lui è falco nella luce che urla
tu parli del tuo mestiere e io immagino i fondali zuppi di parole vive le reti stracciano le loro maglie le mani agganciate al bastingaggio accompagnano i colpi d’anca del mare la bocca è piena di spruzzi e le narici fremono sotto le zaffate di iodio a traino della ruggine sul ponte cigolio dell’argano lame che scivolano odore di viscere
nell’ansa del Pouldou il vento è una donna che bisogna baciare in piedi tu sei rimasto nel camion il tuo sguardo supera il riflusso dei tergicristalli io ho corso nella schiuma fumante impongo le mie mani sulla sabbia e sull’onda Lancillotto è in piedi nel ruggito una spada di luce taglia la sua ombra il Graal ha dei sentori di cedro rosso
a Doëlan il tempo è abolito in un bicchiere di chouchen gli sguardi incrociati si posano in dolcezza l’acquazzone finirà per zittirsi le mani che stringiamo hanno la tenerezza dei bei giorni
sul ponte di Beg Nenez la chiesuola si riempie della Danza del Sole il cuore della terra batte con il tamburo il vento fischia nell’osso spaccato dell’aquila il cielo è uno specchio nel velluto delle scarpate
il nevischio ci curverà nelle strade di Lorient le nostre sagome come segni concreti del cammino necessario
ormai nell’ombra dell’Icaria i pesci danzano le sartie respirano il vento il pulsare tranquillo del motore Baudouin batte contro il fasciame la pesca è buona
tanto di fratelli vivi e morti ripartiti
Memoria e silenzio
„Intere notti, per un mese, ho sentito urlare degli uomini che venivano torturati e le loro urla risuonano per sempre nella mia memoria”
Henri Alleg. La question.
„E così si rese conto che la guerra non è bella perché vincere un uomo è amaro tanto quanto essere da lui vinto”
Albert Camus. Le premier homme.
Di notte la sua memoria piange spesso sulla ferita e lacrime bagnano il silenzio
nella stalla una mucca muggisce al pallido lucore di una lampadina polverosa odori di sangue e liquido amniotico un vitello spinge con i suoi zoccoli bianchi attraverso la vulva dilatata nel freddo dell’alba la chiusura elettrica scatta a intervalli regolari tac…tac…tac…tac…
il mare per la prima volta dopo il treno e la caserma l’equipaggiamento sulla spalla come un fascio di paglia le rughe già sui volti chiusi il mal di mare aggrappato al bastingaggio il battello ara le alghe sotto le onde viscide odore d’olio e di corpi sballottati dall’ondata in un cielo dove il sole uccide i colori
al termine della notte ruggente nella luce la città bianca appare ai giovani contadini strappati alla loro infanzia ai campi e agli armenti assegnati al vettovagliamento gli uomini ammucchiati sui moli onusti di casse e di botti bevono vino cattivo
loro sorridono stanchi al termine del loro primo viaggio come turisti affascinati dai burnus, dalle sciarpe e dalle babbucce dei contadini locali
questi contadini di un altro luogo
il camion sale verso le alture attraverso i viali e i vicoli rifornire la villa degli Ulivi a El-Biar dove delle grida infestano le bocche di lupo e i piani di stabili incompiuti
Henri Maurice Djamila Cherif Elyette Mohamed Nassima Boualem Melika Lucie Colette non esistono per loro strappati alle loro montagne alle loro bestie e ai loro campi loro sanno soltanto una cosa che scoprono da soli distesi sul letto madido nell’afa notturna
„È una guerra di tradimento che ci fanno fare siamo venuti ad ammazzare dei contadini”
quel giorno fa freddo e nevica davanti alla mandria di aubrac lui cammina con un secchio in mano piegato in due dalla bora dietro dentro il cassone del pick-up il rotolo di filo spinato oscilla tra un vitello troppo debole per camminare e delle corde coperte di sangue la strada si distende al passo lento della mandria ci vorranno circa due ore per arrivare alla masseria
le bestie al caldo nella stalla noi entriamo in casa la neve può continuare a cadere attorno a un litro di rosso ci si riscalda prima di separarci
sulla soglia della porta mi stringe le spalle mi guarda negli occhi „Si sono fregati di noi, ci hanno preso per dei coglioni” le sue labbra tremano e un sorriso nascente si spegne
„Cosa si è andati a fare laggiù?”
„Dopo quello che ho visto e fatto, come si fa a essere razzisti?”
la voce esita
„Tu ti rendi conto che quando si è rientrati alla base, si piangeva perché dovevamo partire e lasciare i compagni con i quali si divideva quel poco che si aveva, oppure i pacchi che ricevevamo”
si mette a ridere poi il suo volto si chiude
„Se tu sapessi quello che ho visto io…”
di notte spesso lui piange sulle ferite della memoria silente di giorno rifa le lettiere in stalla, accarezza le mammelle delle vacche sorveglia il rigonfiamento delle vulve prepara i parti.
GABOR GYUKICS
without heroes
a ripe pear finds its way through the branches
reaches the ground and explodes in my intrusive palms
I wash the goo off with fresh rainwater
collected in the well ring next to the draw well
the rain finds every gap
falling from zero point to zero
breaks through every heavy duty terrain
and calms down when it evolves
to become a stream that makes
the frogs quiet their croaking
the crickets their chirping
I place my palm on the ground
I feel the heartbeat of my mother
I hang the piking basket
to dry
on the hook of the counter brace
in the shed
in vain
with my left hand on probation
I’m looking for my father
and my mother
in my pocket
I drag them out
and put them into
my other pocket
yet they climb back
they don’t like the climate
impossibilism
while running
the whirring of the sole of your feet
is the silent sound of a cave
the sky is angry
’cause it can’t catch up with you
with its tricks practiced
for hundreds of millennia
only those
can see you
who are about to die
you
down here
with straight up spine
cajole the unexplainable
and when the lightnings
are asleep
your silence is hiding
in the sound of thousands
of thunderings
nothing indicates
when it
appears again
guardian angels?
a pistol is held to your forehead
in a bosky alley of the night
you search for the face behind the hand
as you wait for the click of the trigger
instead you see
the hand holding the gun pull back
you take a deep breath
and when your lungs
fill up with the air of hope
a blow hits your temple
a stick-up
the thought enters you
together with the pain
two men stand above you
kick your face
your groin
repeatedly
without rushing
one of them leans above you
„you little piece of crap
be happy
you’re still
alive”
perspiring at you
mirage
leaning away from the lectern
she watches
still she can’t see
what is before her
her mother buried
the navel cord next to
the only tree in the courtyard
to keep her daughter at bay
on her weather and sun beaten skin
the wind takes a break
in the empty
mile wide space
in the raw air
blameless fog-clouds enshroud
her skyscraper solitude
in the cave deep silence
his may-fly long life
disperses in the mist
if she could
she would scatter sand to the
eyes of the thousand tongued wind
she stays alive
as long as she
laughs
amidst the crowd
TRADUZIONI di gabor gyukics
senza eroi
una pera matura si fa strada tra i rami
cade a terra e poi esplode nel palmo delle mie mani invasive
lavo via il viscidume con fresca acqua piovana
che si raccoglie nell’anello attorno alla bocca del pozzo
la pioggia colma ogni interstizio
cadendo dal punto zero a zero
penetra anche nel terreno più duro
e si placa all’evolvere
in ruscello che fa cessare
il gracidare delle rane
il cri-cri dei grilli
appoggio il palmo della mano sulla terra
e sento battere il cuore di mia madre
appendo il cestino della frutta raccolta
ad asciugare
ad un gancio della trave
invano
con la mano sinistra in libertà vigilata
cerco mio padre
e mia madre
in una delle mie tasche
li tiro fuori
e li metto dentro
l’altra tasca
eppure loro salgono per uscire fuori
a loro non piace il clima
impossibilismo
in corsa
il calpestio della pianta dei piedi
è il suono silente di una grotta
il cielo è irato
perchè non ti può raggiungere
con i suoi trucchi praticati
da centinaia di millenni
solo i morituri
potranno vedere te
quaggiù
con la schiena dritta
che con lusinghe persuadi l’inspiegabile
e quando i fulmini
dormono
il tuo silenzio si cela
nel suono di miriadi
di tuoni
nulla ci dice
quando apparirà
di nuovo
angeli custodi?
In un vicolo boscoso della notte
ti puntano una pistola in fronte
tu cerchi di vedere il viso dietro la mano
mentre attendi lo scatto del grilletto
e
invece vedi che
la mano che impugna la pistola si tira indietro
fai un respiro profondo
e mentre i polmoni
si riempiono dell’aria della speranza
un pugno si abbatte sulla tua tempia
una rapina
il pensiero ti assale
insieme con il dolore
due uomini ti sovrastano
ti prendono a calci in faccia
nell’inguine
ripetutamente
senza fretta
uno di loro si china su di te e
„tu, insignificante pezzo di merda,
stai contento
che sei ancora vivo”
ti sussurra
miraggio
sporgendosi dal leggio
lei guarda
ancora ciò che lui non può vedere
davanti a lei
sua madre ha sepolto
il cordone ombelicale sotto
l’unico albero del cortile
per tenere a bada la figlia
sulla sua pelle battuta dal sole e dalle intemperie
il vento si prende una pausa
nel vuoto
spazio largo un miglio
nell’aria cruda
innocenti banchi di nebbia avvolgono
la sua solitudine di grattacielo
nel silenzio profondo della caverna
la sua lunga vita di effimera
si disperde nella foschia
se potesse
lei getterebbe sabbia
negli occhi del vento dalle mille lingue
lei vivrà
finché
riderà
in mezzo alla folla
LANCE HENSON
all the names for rain have changed
we say the same words
their meaning burns in another place
and the lightning crosses over
in its mirrors of wind
while the trees are burning outside
trees made of hands reaching toward you
trees made of songs of rivers of animal of turnings
inside a stone
trees where crows call us in their shimmering
voices
trees that watch as smoke rises around them
blinded trees praying for us as we leave them to their
enemies
dying trees that hold the names of the forgotten
in front of our eyes
the hueb, switzerland
22 august 2002
tutti i nomi della pioggia sono mutati
diciamo le stesse parole
il loro senso brucia in un altro luogo
e il lampo ci attraversa
nel suo specchio di vento
mentre gli alberi fuori bruciano
alberi fatti di braccia tese verso di te
alberi fatti di canti di fiumi di animali di spirali
dentro a una pietra
alberi dove le cornacchie ci chiamano con le loro voci
luccicanti
alberi che ci osservano mentre il fumo sale intorno a loro
alberi accecati che pregano per noi mentre li lasciamo
ai loro nemici
alberi morenti che trattengono i nomi dei dimenticati
davanti ai nostri occhi
(the hueb, switzerland, 22 agosto 2002)
From jordan
At the hotel sadeen the heat burns into my skin
Sitting on a small veranda
Facing a busy street
It is morning and on the stifling bedouin wind
The bodies of dead iraqi children sail by
In an array of swirling birds
Their dreams settle around me whispering
The tiniest words
The ones not even the terror of war could tear
From their souls
Down a small road a boy riding a donkey
Dismounts
Searching through the garbage of a dumpster
I close my eyes
Searching for the torn garment of a prayer
I found once in oklahoma among the damp autumn leaves
Along a river….
Jordan 9.15.05
dalla Giordania
all’hotel sadeen il cuore brucia dentro la mia pelle
seduto su una piccola veranda
di fronte a una strada affollata
e’ mattina in un vento beduino soffocante
anime di bambini iracheni morti volano
nei corpi di uccelli luminosi
i loro sogni si posano intorno a me sussurrando
le piu’ piccole parole
quelle che nemmeno il terrore della guerra potrebbe strappare
dalle loro anime
giu’ per una piccola strada un bambino su un asino smonta
cerca nei rifiuti di una discarica
chiudo gli occhi
in cerca di un lembo lacero di una preghiera
che una volta ho trovato in oklahoma fra le umide foglie autunnali
lungo un fiume…
(giordania, 15 settembre 2005)
song of a master beadworker
for maude wolftongue
i am the green stones over which water has woven
its path of cleansing songs
i am the sunlit blue of falling rain
i am the red ochre light through which
the deer and antelope pass
where the crescent moon sings upon the earth
where the bright flowers rest in the late afternoon wind
where the dreaming self finds its narrow threads of life
gathering in the medicines of dawn
i am there
making these signs upon the earth
you will not harm my people
for i have dreamt for a thousand years
dreams like this…
ponticella, 18 february 2009
sogno di una abile ricamatrice di perline
dedicata a maude wolftongue
io sono le verdi pietre su cui l’acqua ha intessuto
il suo cammino di canti purificatori
io sono il blu acceso dal sole della pioggia che cade
sono la luce rosso ocra attraversata dal
passo di cervo e di antilope
dove la luna crescente canta sulla terra
dove i fiori vivaci riposano nel vento del tardo pomeriggio
dove l’io sognante trova gli stretti fili della vita
raccolti nelle medicine dell’alba
sono li’
a fare questi segni sulla terra
non farai del male alla mia gente
perche’ sogno da mille anni
sogni come questo…
Syria
Here all the gods are dead
Children fold the brightest parts
Of themselves inside….
As is they are still
Alive….
july 30 2016
written this day..as coalition forces, led by the united states
bombed a childrens hospital….
Siria
Qui tutti gli dei sono morti
I bambini ripiegano le parti piu’ luminose di se stessi
dentro di loro
come se fossero ancora
vivi
(Scritta oggi, 30 luglio 2016, che le forze della coalizione guidate dagli Stati Uniti hanno bombardato un ospedale per bambini)
(*) Ricordo che qui, il sabato sera da molto tempo regna “cicala” con un suo spazio di poesie: ma essendo “cicala” è ancora in vacanza e quindi la sostituisco io [db]
(**) cfr Gabor Gyukics, Lance Henson, Alberto Masala e Manuel Van Thienen
RINGRAZIO I TRADUTTORI E LE TRADUTTRICI, SILVANA PER I CONTATTI, MASSIMO PER LA FOTO DI ALBERTO MASALA DURANTE LA SUA LETTURA (le altre foto sono riprese in rete). E RICORDO LA LETTERA DI MASALA – è qui: Anche nelle migliori famiglie… – IN QUALCHE MODO CONNESSA A QUEL POMERIGGIO BOLOGNESE. [db]