Quattro volte
Un racconto di Mauro Antonio Miglieruolo
Il gesto di darle! Quante volte mi è capitato di vederlo simulato! È capitato anche a voi, sono certo. Senza rivolgere alcun pensiero alle complicanze che, dandole, si contribuiva a edificare nell’animo del qualsiasi a cui capitava di prenderle. Il gesto era riferito agli atti educatori con le quali si reputava di salvare un bambino, corrompendolo imperdonabilmente e definitivamente. Inducendo paura, assoggettamento, dissimulazione, conformismo e instillando odi. Non parlo a caso. Parlo a ragion veduta. Parlando del prossimo mio come me stesso. Di Pietro, amico mio.
Capitava che quel gesto gli fosse sistematicamente esibito, al Pietro eterno del quale vi voglio narrare. Il Pietro che stava in cielo, poi sceso in terra, per stare in un numero limitato di luoghi. Non è mica Dio lui, ma limitato fratello nostro, che come tutti scomparirà per ricomparire non possiamo sapere in quale altrove. Uno magari vicino. Tipo l’inferno di Venere o Mercurio; oppure le evanescenze ultragravitazionali denominati rispettivamente Giove e Saturno. O ancora più lontano. Nel freddo dantesco che regna su Nettuno o più lontano ancora, aldilà del tempo e dello spazio, tanto lontano che dire Andromeda non serve neanche a fornirne l’idea.
Di che sto parlando? Ma dell’amico di cui all’esordio. Del “Pietro universale” che fornisce identità e sostanza a tutti; del quale tanto volentieri vi dimenticate, dimentichi di voi stessi, figli del Caos, che tanto bene vi farebbe tenerlo come amico. È per questo che scrivo. Per rendervi partecipi e darvi la possibilità di incontrarlo questo straordinario Pietro, emblema di tutti i Pietri, fratello e sposo, nato uomo per essere superuomo, uomo superiore e inabissato dalle circostanze nel banalissimo mare degli uomini qualunque. Nel mucchio dei tanti inviati per offrire loro la possibilità di salvarsi e che invece finivano con il dannarsi. L’aveste conosciuto come l’ho conosciuto io non fareste le facce che fate, esagerate espressioni scettiche, ma correreste a guardare in voi stessi, caso mai ve ne trovaste uno uguale (c’è, c’è, non dubitate. Pietro abita tutti gli uomini. E tutte le donne.)
Questo Pietro, ogni volta che tornava in paese (da un certo anno in poi quasi tutte le estati), chiunque incontrasse quel gesto gli ripeteva. Anzi, gli infliggeva. Quasi una punizione postuma, prolungamento delle tante già patite. Pietro, ti prego, abbi pazienza, è necessario che tu la raccolga, tutta, se vuoi continuare a camminare dritto nel disordine di questo mondo. Altrimenti, non fossi paziente, facile che cada nel disordine del pianto e dello stridor di denti.
Dunque, invece dei saluti o appena dopo i saluti, la rievocazione del peggio che era stato. Pietro ascoltando impassibile. Ma Pietro a me sempre, nei nostri discorsi, manifestava insofferenza. A che pro rievocare quante ne avesse prese? Era vivo, no? Questo solo contava. Ma gli altri, per dirla tutta, per dirla in piena sincerità, proprio quello intendevano verificare. Se fosse sopravvissuto o meno. Se continuava a dare segni di vita, oppure chiuso nelle tenebre del vittimismo continuasse a respirare per quieto vivere, perché non gli venisse posto a carico anche la morte prematura. Insomma, ne aveva fin sopra i capelli della rievocazione perpetua delle scene rappresentate, vero teatro della crudeltà, nei bei tempi antichi in quel di Via Carducci, Rione Bofia, Comune di Grotteria, provincia di Reggio Calabria. Italia…
Sembrava fosse un vanto per gli anziani invece rievocare, sia pure con cordialità, persino vagamente solidarizzando. Un favore che gli facevano e che si facevano, per non dover altrimenti ricorrere alla buona educazione di dimenticare.
Lo dimostrava il fatto che non andassero oltre la simulazione del gesto e la frase, con la quale l’accompagnavano. Ah, sì, vostra madre ve le dava! Eccome se ve le dava! Dava, dava. Dava pena anche a loro…
Pietro si era ben presto abituato, quasi abituato. Un fondo di fastidio permaneva. Badava, dava retta, ma moderatamente. Annuendo. Sì, me le dava. Segretamente indignato. Ma come? dopo forse trenta, forse quaranta anni, solo quello ricordavano di lui? Dove era andate a finire la memoria delle sue “imprese”, tipo la straordinaria capacità di fabbricare “piroci”, picchi credo li chiamino a Roma, perfette equilibratissime trottole, capaci di ruotare come ruotavano i mondi: interminabilmente, senza stancare e senza dare segni di cedimento.
“E degli inauditi aquiloni che lanciavo nella stratosfera,” chiedeva a me per chiedere a tutti loro. “Degli aquiloni si era persa la memoria?”
Sembrava che quegli aquiloni volassero tanto in alto da perdersi nel cielo… il filo che li tratteneva in terra, fatto di numerosi altri fili annodati insieme (metafora della vita? Interrogava), si spezzava ed erano perduti per sempre. Tra espressioni di rammarico e volti delusi.
“Pietro, non esagerare,” lo redarguivo.
“Non esagero. È per farti capire…”
Ci teneva l’intellettuale alla palese ormai pregressa capacità di lavorare con le mani, facoltà smarritasi crescendo. Insieme a tante altre che non aveva coltivato. La velocità nella corsa, la precisione nel lancio delle pietre. L’abilità nel catturare lucertole, scombinare nidi e inseguire farfalle. Rifiutava di ammettere che quelle varie attitudini, le differenti imprese, non erano in grado di sedurre gli animi quanto le iperboliche vicende delle busse. Veri e propri eventi omerici. In confronto dei quali la predisposizione a mettere a soqquadro la “ruga”, costruendo archi e frecce micidiali (vecchi ombrelli adattati), contava ben poco. Provocò sì una guerra delle madri spaventate, che appena percepito il pericolo avevano provveduto a sequestrare tutto, ma della durata breve, qualche minuto di strilli e di rimproveri. Gli autodafé invece erano spettacoli di più lunga durata, che per di più si ripetevano nel tempo. Tra le vicende del sequestro dell’arma bianca, che avevano visto Pietro silenzioso, non erano certo paragonabili con gli strilli e le proteste di Pietro sotto la tirannia del bastone.
Povero amico mio, mi viene da considerare. A cosa ti sono servite tutte le abilità vantate. Le fughe estive da esploratore solitario sui monti e campagne circostanti. In territori che già iniziavano a spopolare. E che pure producevano incontri occasionali con gli adulti che gli adulti avevano cancellato. Eppure capitava di incontrarli, di vederli e essere notato… capitava che lo interpellassero per chiedergli, tua madre lo sa che sei qui? Un qui sempre diverso. Secondo Randone, Castania, Cridoni, la distesa sabbiosa del torrente, Santa Femia, persino Cambruso… la sua libertà, quella che si prendeva, nessuno avendogliela concessa, quella non la rievocavano! Nemmeno i pericoli che gli avevano rappresentato, pericoli eventuali che non teneva in nessun conto. Non lo poteva certo spaventare la possibilità, più volte evocata, di rompersi una gamba e restare isolato per giorni, preda dei lupi denominati fame, sete e disperazione. Oppure di precipitare in una delle tante timpe diffuse nel territorio e chiudere prematuramente i conti col destino. Cos’erano rispetto all’improvviso erompe delle Erinni?
Ma anche all’erompere in lui della furia. Della pazzia. Pazzo come la madre. Anche lui un Erinni. Scatenato. Bestemmiando. Con l’intenzione di pronunciarne una e poi vomitandone cento. Al centro di una torma esterrefatta di Pietri, Antoni, Pasquali ed Enzi suoi pari, aveva tirato giù l’intero Paradiso. Sfidato l’Inferno. Su, venite, picchiatemi. Credete abbia paura. Supponete piegherò il capo? Io impotente e silenzioso? V’illudete. Io crescerò storto più di un ulivo, albero abbattuto le mille volte, fuoco, fiamme e malattie non avranno ragione di me. Io vi scuoterò tanto con il mio digrignar di denti che vi pentirete di non avermi ammazzato subito, appena uscito dalla pancia di mia madre.
“Dio mio, Pietro. Ma tu odi! Tu sei pieno di rancore!”
“Lo sono? Sì, potrebbe essere che io lo sia…”
Parlava in questo modo Pietro, a volte. Quando parlava.
“Ma,” continuando, “se odio, odio me stesso, nemico mio, per aver dissipato le mie occasioni…”
Io tacevo, annichilito. Obbligato a tacere da quel che vedevo. Dall’irrigidirsi del corpo tutto, i pugni stretti, la tensione interna che lo immobilizzava, trasformandola in statua di sale. Guardava lontano in quei casi Pietro. Si sarebbe detto che guardasse oltre l’orizzonte. In realtà consumava istanti di vita sospesa, nel quale non era più nulla, annegando in quel nulla nel quale aspirava sprofondare.
Si scuoteva solo quando, stanco di vederlo in quella postura da imbalsamato, sussurravo il suo nome. Pietro, Pietro mio… Pietro guardami, per pietà. Accorgiti di me che esisto, non farmi annegare nel tuo stesso mare di nulla… allora si scuoteva, magari dopo alcuni richiami, e riprendeva il racconto dei suoi malumori. Soffermandosi su quello strano giorno in cui aveva inaugurato una carriera brillante di grande bestemmiatore, ma alla quale aveva rinunciato subito. Subito dopo che, avendo esaurito il rosario delle imprecazioni, gli sembrava soddisfacessero l’esigenza sua di inventarne abbastanza da offendere Inferno, Paradiso e Purgatorio nello stesso tempo. Tra lo stupore degli astanti che finiva con l’essere il suo stesso stupore. Da dove veniva tutta quella rabbia? Tutta quella voglia di tirare giù il cielo? Di aprire la terra e lasciare che nelle più aspre profondità quel cielo scomparisse? E allora, dopo una domanda che non trovava brisposte, ieri come oggi, riassumeva la solita postura di tranquillità e pacatezza che, diciamola tutta, caratterizzava più che l’uomo, l’ipocrita.
Immaginiamo insieme la scena del giorno delle bestemmie. Sarà educativo farlo. Immaginiamo il principiare sommesso, quasi discreto e poi, mentre gli uditori facevano tanto d’occhi, l’alzarsi della voce, quasi l’urlo (bisognava che tutti sentissero, che la sua colpa avesse, uguale alle pene preventiva che subiva, ampio uditorio. Bisognava che tutto il paese sapesse della sua ribellione.) E urlando, ma anche sputazzando, sputazzando odio, l’odio della disperazione, il rancore degli impotenti; vomitando, rancore, astio, si dichiarava: che tutto quello proprio non lo poteva mandare giù. Tutti i santi e le Madonne possibili, dunque, chiamati a testimoniare la costernazione che l’affliggeva. Finché giunsero i dieci anni, lo deportarono a Roma e ogni lamentela divenne impossibile.
“Pietro, ma insomma…”
Non m’udiva. Neanche voleva parlassi. Sia fosse per giustificare, sia per redarguire.
“Ascolta fratello…” replicava. E io ascoltavo. Non avendo per altro nulla da dire, ascoltavo. Ascoltai, fino in fondo anche quella volta che se ne uscì con un irripetibile sermone. Sorta di irridente barzelletta. Delirando.
“Sai cosa vorrei dire in faccia a tutti, ne trovassi il coraggio? Che se pure presento reclamo e sono in diritto di farlo, non è contro qualcuno, ma contro me stesso che pèarlo. Sì, ora in questo estremo, nell’ora della mia probabile morte… morte e resurrezione… che tale in terra così sarà in cielo… Pietro… affermo sulla tua pietra non hai costruito nulla, a parte questo deserto di pravi ricordi… ve le dava vostra madre, eh!”
Facendo oscillare anche lui il palmo della mano a destra e sinistra. E continuando:
“Sai bene, sapete tutti bene, sapete quel che intendo…”
“Pietro…” redarguivo. Di nuovo.
Al che Pietro, mutava subito il gesto della mano, come a cancellare la mia stessa possibilità di dire. Per poter riprendere il racconto. Su come dall’episodio delle bestemmie in poi, tutto fosse cambiato. Metamorfizzando dalla sera al mattino. La sera ancora un bravo ragazzo, al mattino con abbastanza rabbia da ammalare il mondo, Rabbia rabbiosa arrabbiante. Rabbia di cane. Urlo soffocato, spento nell’interiore delle interiora, infelicità e pentimento tutt’uno, un reprobo somaro testa quadra al quale era impossibile far entrare un qualsiasi concetto in testa, anche il più semplice. Stupido proprio. Fin lì il primo della classe. No della scuola. Da lì un semideficiente al quale era impossibile far entrare in testa qualcosa.
“Dunque, capisci? Ho deciso io, ho voluto io. Non l’io cosciente, si capisce, ma l’io impotente che urlava dentro e non aveva altra strada che quello: negarsi al mondo.”
“Pietro!” esclamavo ancora. Stupidamente e vanamente.
“Sai perché non parlassero d’altro, dopo appena un buongiorno buonasera affrettato, ma solo delle busse? Perché interessati alle scene (si svolgevano pubblicamente) delle punizioni che mi venivano inflitte. Per le non ragioni che mi vanivano inflitte. A meno di non considerare ragioni, il fatto che somigliassi a mio padre, parlasse quasi con la sua stessa voce ed era probabile che da grande provocassi i medesimi danni. Tipo abbandonare la moglie, una moglie fedele, onorata e rispettata persino dai peggiori delinquenti del paese. Che si toglievano la scoppola al suo passaggio. Salutando rispettosamente. Chiaro, non si trattava di una donna qualsiasi…”
Chiaro che con uno come Pietro, storto per definizione, anche il suono del nome sgraziato, occorresse mettere in campo azioni straordinarie di rettifica. Occorreva fornire all’albero del tutore adatto a assicurargli un futuro migliore. Un futuro molto differente da quello che poteva determinare il fedifrago, puttaniere, egoista (e chissà quant’altro) Signor Padre (che è in terra); il quale, ormai lontano, se ne infischiava dei suoi doveri di coniuge, obblighi di padre, vincoli chiesastici ed altro che eventualmente si fosse accollato. Ma che forse di tante circostanze, lo ammetteva, aveva potuto appurarlo, non era al corrente. Anzi nemmeno avuto il sospetto. E chi poteva nutrirne, sospetti, se persino i grotteresi, che non potevano essere accusati di sostenere le parti dei medici pietosi, non le nutrivano? Ai figli occorreva dare quello che meritavano, né più né meno: pane se ce n’era, punizioni se non rigavano dritti. Anche se davano ampia risonanza a certi avvenimenti, i clamori che sempre meritano le esagerazioni, tanto esagerate da indurli a ricordare anche decenni più tardi, nel fondo, accettavano: sia pure con rammarico. Sia pure lacrimando. Qualche rammarico anche il padre. Molti anni dopo, quando dei fatti ebbe contezza.
“Eravamo sul marciapiede di Via La spezia, accanto all’edicola dove più tardi acquistai il mio primo fascicolo dei Romanzi di Urania… conosci?”
Conoscevo. Anche io pazzo di quelle pazze storie. Io guardando affascinato le copertine dei tanti fumetti che vi stavano esposti. E suo padre in verità chiese:
“Ti picchiava tua madre? Negai. Negai senza coscientemente mentire. Tutti i ragazzi venivano picchiati, a volte duramente. A me pareva (allora!) di essere stato nell’ordinario di tutti. E continuai a crederlo finché mia madre non mi chiese perdono. Molte volte lo chiese. Credendo fosse in debito di chiederlo. sempre chiese. Finché non fu in punto di morte. Le penultime sue parole. “perdonami pè tanti botti che ti detti”. Solo allora mi convinsi di essere stato per davvero picchiato. Ma a quel tempo mio padre non c’era più a richiedermelo per potergli dire di sì. Comunque era uomo di una certa intelligenza, nonostante la bugia, capì ugualmente, utilizzando una deduzione che illustrò la dovuta prontezza. Alzò una mano come a volersi grattare la testa e contemporaneamente io alzai il braccio per riparare il volto. Vedi, spiegò gentilmente, questo è il gesto tipico di tutti i bambini maltrattati…”
“Intelligente, tuo padre…”
“Più di me è sicuro…”
Subito dopo tornava a lamentare del convenevole con il quale veniva accolto:
“Ve li dava, vostra madre, eh! Non facevano che chiedermi, chiedendo implicitamente conferma. Ignorando di star rivoltando il coltello nella piaga…”
Ma c’era di peggio. Frasi più oltraggiose.
“Focu! quanto vindi dava! Ma criscistuvu bonu, criscistivu.”
Quel che comunque non mi spiego, sono certo non ve lo spiegherete nemmeno voi, era perché nessuno intervenisse. Ma eravamo nei primi anni ’50, nel profondo sud, in prossimità di un medio evo che non si decideva ad andarsene. Solo alcune parole vennero spese. Per raccomandare non picchiasse sulla testa, in testa no, era pericoloso. Sulla schiena, sulle braccia, sul sedere, sulle gambe invece si poteva. Anche se lo smodato di certe situazioni spiaceva a più d’uno, se non picchiava in testa potevano tollerare. Farsi i fatti propri. Salvo l’ignoto che scendendo dal Soccorso (Suncursu) passando davanti casa non se la sentì di tacere e disse:
“Ma voi, quante botte volete dare a questo bambino!”
E chi mai avrebbe potuto dire con pacata sicurezza quante dovessero essere? Un bambino, ma anche un adulto, lo sì può picchiare all’infinito, con le mani, con un legno, un ramo flessibile d’ulivo (appropriatissimo), utilizzando i ferri del mestiere o prendendo a prestito quelli degli altri; si può picchiarlo con i ferri delle calze, con il mestolo, con la cucchiara, con i piedi, oltre che con le mani, con le grida e con gli insulti o qualsiasi cosa d’adatto appaia possibile e adottabile. Sapendo però, consapevolezza che non sempre sussiste, che una volta iniziato è possibile si continui fino allo sfinimento. Continuare e continuare e continuare, finché non sorgano lamenti, invocazioni anche da parte del più ostinato coriaceo eroe. Lamenti e invocazioni di pietà, pietà e misericordia, patri figghiu e spiritu santu, senza più voce e forza per chiederla. Chiederne, darne, concederne, invocarla. Finché il corpo ne sia tutto maciullato e s’abbia forza e volontà di darne… botte.
“Io mai la chiesi. Pietà. Urlare urlavo. Non sempre. Per lo più. Protestavo contro l’iniquità di quelle punizioni, non per chiedere venia. Sarebbe stato un accettare, rendersi complici…”
Però, la confessione tua, Pietro, chino su te stesso, una lacrima, una sola, che scendeva sulla gota e andava a abbeverare l’arido sentimento della terra, ammette il desiderio di pietà. Tutto è violenza attorno a te. Osservando le striature rossastre, che rapidamente gonfiavano, sulle braccia e sulle gambe, in effetti con quelle lacrime tardive, pietà chiedevi. Pietro, Pietro, su che cosa potrai costruire? Se non comprendi nemmeno quello che dici? continui a ostinarti attorno ai perché per come di quello che accade, di quello che ti accade e nemmeno sai specificarlo. Pietro, domani è un altro giorno, il ramoscello d’ulivo è andato, non tornerà. Non certo quello che ora giace esausto accanto a te, spezzato, l’anima sua infranta, senza più foglie, senza più possibilità. Arreso… non come te, che ti inalberi orgoglioso, ancora ribelle, e però piangi, ti fai vittima. Dopo esserlo stato…
Beh! Povero Pietro. Ma così va il mondo. Nello stesso modo di tutti i Pietri e gli Antoni di questa terra…
Ma torniamo a noi, al passante/alla passante seconda che di seguito al primo, pietosa/pietoso diversamente chiosò:
“Fuvi malu eh? Ma chi boliti, quotrari sunnu (ragazzi sono), quotraru.” In pratica suggerendo indulgenza.
La rabbia non conosce ragioni, argomentava a questo punto del racconto Pietro, scusando; Pietro che odia il ruolo d’accusatore. Non gli si addice. Non costruirà chiese, ma neppure dimenticherà che si è costantemente in debito d’indulgenza. Eravamo al mondo per morire, certezza unica che abitasse tra di noi. Essendo tutte le altre fallaci. Graziosa concessione alla nostra pochezza, porre preventivamente la possibilità della parola fine. Cosicché sapeva che avrebbe goduto anche lui di una conclusione. Già. Pietro era in un vuoto di significato, totale ed esistenziale, che non era certo in grado di riempire. Per questo smetteva presto di rievocare e riesaminare e passava ad altro. Ad esempio alle tante angherie subite a sua volta dalla madre, da piccola e anche da grande; il che però, sempre a suo dire, non spiegava un bel niente, non esistendo al mondo niente altro che questo ossessivo percorso che dalla concezione, una scopata, porta alla dissoluzione, all’ospitalità nei cimiteri.
“Ma esiste modo di spiegare qualcosa?” continuava, atroce, nullista della domenica. Che insomma bisogna piegare la schiena alle dure leggi del bastone e del destino, l’inflessibile che colpisce con una vasta gamma di mezzi. E colpisce alla cieca, ‘ndo cojo cojo, eppure con efficacia chirurgica, rendendo inefficaci non solo le ragioni suggerite dall’intelletto, anche quelle del cuore.
Pietro:
“Mi amava in modo viscerale, esagerato. Avrebbe dato volentieri la vita per me…”
Aggiungendo poi sempre qualcosa. A Pietro piaceva sommare cosa a cosa, circostanza a circostanza, amava densificare il caos, per poterlo infine diradare con una parola, un concetto solo, un concetto tale da abbattere la catasta di osservazioni che aveva faticosamente edificato (anche masochista, questo mio Pietro). Non si potevano certo combattere i nostri mali, si poteva annientare il costruito di una intera notte insonne, diradare il buio con un’alba di battute e irrisioni. Gettandosi tutto alle spalle.
“Chi sono io e chi siete voi?”
Frasi così, con le quali chiudeva spesso i discorsi, il contenzioso tra amico ed amico, tra amante e amata, tra l’uno e l’altro.
“Non ti nascondere,” gli disse una volta una donna tanto lontana nel tempo della quale ho dimenticato persino il, nome. “Tu parli parli, ma di te non dici mai nulla.”
Già, mai nulla. Perché tutto quello che racconto, voce relata, mi è stato solo in parte raccontato. In parte è ricostruito. Anche se le linee generali le ha stabilite Pietro medesimo. Essì, in punto di morte. Non appena deciso che era giusto andarsene, non voleva fosse da insalutato ospite, mi aveva convocato dicendo:
“Non parlo mai di me perché non c’è nulla da raccontare…”
Di conseguenza, per primo confessò a un esterrefatto ascoltatore, Io, gli imbarazzi che gli producevano le insistite richieste che riceveva dagli editori di scrivere una biografia, sia pure breve. Ai lettori interessava sapere i fatti privati di coloro i cui libri leggevano.
“Ma poi li apprezzano?”
Ed io: sì. “Sì. Certo che sì. Quei due o tre con i quali ho parlato…”
“Amici miei, conoscenti…”
“Gente che ti rispetta…”
“Ah! Ah! Ah! Due o tre, gente che mi rispetta. Ah! Ah! Ah!” Con un piede nella fossa e aveva ancora voglia di ridere. Di scherzare.
“Ma,” continuando “renditi conto, cosa gli dico a questo?” Alludendo all’editore impiccione di seconda istanza. Impiccione per conto di impiccioni. “Con cosa riempio il foglio? Dannazione! Il mondo non è già pieno a sufficienza di banalità? C’è proprio bisogno di aggiungere le mie? Vogliono una biografia? Guarda, io gliela costruirei pure, ho abbastanza fantasia per farlo. So come menare il can per l’aia per pagine e pagine. Il problema vero è che in effetti mica so cosa sia una biografia…”
“È il riassunto di ciò che è successo a un determinato individuo.”
“Cioè, un nulla di apparenze. Un racconto, quasi…”
Ci pensò su un pochino e continuò: “Allora posso. O meglio potrei. Ma a questo punto non mi va di compilarla. Anche perché già compilata. La mia biografi, o parte della biografia, è già nella raccolta rilegata di fogli che hanno per le mani.”
Naturalmente non si limitò a filosofare. Pietro si annoia presto di sé stesso, annoia il prossimo, vorrebbe allontanarsi a mezzo dei fatti che, imprevedibilmente, ha iniziato a raccontarmi. Si tirava indietro, forse? Lo fermai.
“Vomita, dai,” gli imposi. “Di tutto una volta per tutte e facciamola finita.”
Mi rise in faccia, naturalmente. Ma narrò. Molte cose. La pena inscritta negli occhi, della madre, dopo, che la rabbia le era passata ed era costretta a prendere atto di quel che aveva fatto. Le terribili scene che ne nascevano. Più dolorose della stessa punizione.
La madre che dava con la testa al muro. Quattro o cinque vicine che accorrevano per trattenerla. Le urla. Il dolore scarmigliato che prendeva il sopravvento, scendeva tra gli spettatori per indennizzarli del prezzo del biglietto, scendeva nelle viscere, invadeva le ossa, povera mamma sua alla quale non poteva prestare soccorso.
Giurai, allora, mi decisi, che avrei raccontato come meglio potevo. Non certo come gli riusciva a lui. Una finta biografia.
“No,” corresse. “No, fratello mio. Racconta pure male, se ti risulta meno faticoso. Non c’è altro in fondo alla letteratura che il pianto e lo stridor di denti.”
Chiese allora un favore. Chiese qualcosa che avrei dovuto chiedere ai lettori. Ancestrale premio di consolazione.
“Per qualche copia venduta,” pronunciò con amarezza, per doversi piegare alla richiesta. “Per quelle poche copie, mi prostituisco a tutti coloro che collaboreranno…”
Desiderava venisse sciolto il nodo che negli ultimi tempi lo aveva tormentato. Un nodo intrecciato del quale aveva creduto di sapere tutto, e sapeva tutto, non la conclusione. Il finale di una scena tra le tante. La solita sopra le righe. Tipo la visione notturna, al lume d’una candela, d’una intera parete brulicante di scarafaggi; di fiumi improvvisi, dopo tre giorni di pioggia, che scendevano dalla montagna per venire a bussare alla sua porta. Massi enormi. Una sorta di bombardamento notturno che l’aveva estratti a forza dal sonno; o del corvo amico al quale era stato tagliato il becco; e dell’altro ammazzato per mangiarlo, sostenendo ch’era morto di morte naturale. E c’era bisogna, c’era? Affamati a tal punto di sacrificare il mio migliore amico?
Transeat.
Subito il transeat passò all’esposizione della scena cruciale, descritta, quadro dopo quadro, escluso il finale. Scena che aveva preso avvio con il solito di tutte le altre passate di schiaffi. Lei che getta il vestito che sta cucendo. Che si alza di scatto, dichiarando che volente o nolente mi dovevo correggere. E sulla pubblica via m’afferra per un braccio e inizia a darmele. Prudente, come le avevano insegnato a essere le buone vicine. Picchiando sulla schiena, sulle terga, sulle gambe e in ogni altro ovunque le fosse capitato. Salvo che sulla testa. La testa aveva imparato a risparmiarla. Non risparmiare il piccolino, luce dei suoi occhi. Il quale, tenuto per un braccio, non poteva far altro che prenderle. E prenderle. E prenderle. E prenderle. Prenderle e gridare. Non piangere. Piangere non aveva mai pianto. Solo protestare per il torto che subiva. E continuava a subire. Finché il braccio che le dava avvertiva stanchezza, il palmo della mano medesima indolenzito e lei tutta affannata, non convinta purtroppo di doverla finire, e che modi erano! Secondo lei un supplemento di pena si rendeva necessario. In cantina c’erano tanti buoni sottili ramoscelli, adatti a accendere il fuoco, ideali per dare il ritocco finale alla lezione. Andò a reperirne uno, di qualsiasi essenza, la prima che le fosse capitato per le mani.
La buona donna, che io assolvo utilizzando i poteri sacerdotali dei quali ognuno è dotato; e per i quali invito ognuno a fare l’uguale (assolvete e benedite, in nome del Padre, della Madre e dei Fratelli…); la buona donna dunque svoltò l’angolo, divenne momentaneamente invisibile. Il che incoraggiò il pubblico di ragazzini e qualche adulta, ad avvicinarsi e a suggerire:
“Scappa Pietro, scappa. Scappa, sei ancora in tempo. Altrimenti quando torna ti darà il resto.”
Ma Pietro nulla, immobile e tremante, tremito nervoso, non si decideva. Ma come? Scappare dalla madre? Ma come? darle la possibilità di non infierire ulteriormente, di non aumentare le sue colpe. Pietro non si muoveva.
“Pietro, sei ancora in tempo, altrimenti arriva e ti ammazza di botte.”
Pietro incapace di decidersi, stette lì, non so se con l’odio nel cuore, con la paura nell’anima o la rassegnazione sul viso. Pietro non si mosse. Per tutto quello probabilmente.
Finché come prevedibile, la madre riapparve con un bel ramo di non so cosa in mano. L’espressione chiusa, forse anch’essa speranzosa, che il figlio si mettesse a correre e mettesse fine all’increscioso che si approssimava.
E guardate un po’, anni dopo Pietro chiese a me la conclusione del misfatto. A me suo amico e ora anche suo creatore. Chiese raccomandando, non avessi saputo fornire la risposta, di chiederla a voi. E di comunicargliela, se l’avessi ricevuta, nel solito modo o qualsiasi altro insolito mi fosse venuto voglia di adoperare.
Perciò vi chiedo: “È scappato poi Pietro, il nostro Pietro? Secondo me sì, è scappato. E sta ancora scappando.”