Quel che siamo
Rispetto agli alberi
di Mauro Antonio Miglieruolo
Anni fa, esattamente nel 1980, sono andato a abitare in una casa prospiciente il parco della Caffarella,
ettari e ettari di verde che la domenica si riempiono di persone. Si tratta di uno scenario tra i più belli di Roma, tra vecchie fattorie, qualche albero, sentieri sui quali passeggiare, tavoli da merende e angoli riservati ai cani. Un bel vedere che potrebbe diventare ancora più bello se coloro che amministrano la città invece di occuparsi pressoché esclusivamente di come valorizzarsi, pen-sassero seriamente a come valorizzarlo.
Ma non del parco vi voglio parlare e neppure delle mediocrissime autorità cittadine. Quel che mi interessa illustrarvi è il terrazzo di casa mia, dall’alto del quale (ben sette piani) di tanto in tanto quel parco ammiro.
Precisiamo: oggi lo ammiro. Perché ieri ammiravo ben altro. Anzi, perché ieri non ero in grado di ammirare altro che il paesaggio che avevo costruito sul terrazzo a mio uso e consumo! Es-sendo riuscito a occultare il vasto panorama da un tripudio di piante disseminate lungo tutta la rin-ghiera, le quali piante, non bastando i venti metri della stessa, avevano finito con il debordare sulla superficie del terrazzo, occupandolo per un buon sesto. Con risultati con esito a definire, citando Benigni, spettacolari. Ricordo che una mia collega d’ufficio venuta a ammirare la mia piccola opera d’arte ebbe a esclamare sbalordita: madonna, un boschetto!
Di un boschetto effettivamente si trattava. Uno spazio dedicato al verde, trasformato dal verde, caratterizzato dal verde. Tra grandi e piccole credo vi si potessero contare non meno di cin-quecento essenze, distribuite su 385 vasi (contati uno per uno dalla nipotina di mia moglie che ag-giungendo vaso a vaso non finiva mai di stupirsi). La maggior parte delle piante naturalmente era piccola, garofani, gerani, rose, narcisi e roba simile. Ma ce n’erano anche di notevoli, tipo limoni, guaiabi e altri alberelli da frutta nanizzati. Su tutto spiccava una enorme azalea di un metro e mezzo di altezza che in primavera si vestiva tutta di bianco. Sembra una sposa, commentavano le signore romantiche che avevano la ventura di poterla ammirare. Per me era un miracolo di bellezza, un regalo di cui la natura mi gratificava anno dopo anno.
Ci coltivavo persino le patate e i pomodori su quel terrazzo!
Per poter inzeppare sempre nuove piante e quindi sempre più vasi, li moltiplicavo gettando ponti di marmo o vetro tra uno e l’altro, sopra il quale collocavo un terzo contenitore, o anche un quarto, per poter ripetere lo stesso giochino e ottenere lo spazio dove sistemare un quinto. Tre piani di vasi (sono per il verde intensivo, io) necessariamente servito da un impianto di irrigazione auto-matica che avevo installato da solo. Quantunque fossi inetto, come per altro sono, al lavoro manuale, ritengo in quel caso di aver fatto un ottimo lavoro. Per eseguirlo, a parte l’orologio, dovetti ac-quistare una settantina di metri di tubo del 16, qualche centinaio di gocciolatoi “auto compensanti”, decine e decine di metri di microtubo, innumerevoli micro raccordi a innesto, altrettanti micro rac-cordi a “t” e un fascio di “lancette” per mantenere ancorati i tubicini al vaso. Una ricerca faticosa del materiale e una articolazione del lavoro sorprendente che mi valse la mia stessa approvazione; nonché il silenzioso disdegno di chi giudicava tutto quello eccessivo. Le piante però me n’erano grate e dato che erano poste a dimora in terriccio realizzato da me (1/4 letame, 1/4 terra, 1/4 torba, 1/4 sabbia fina di fiume) crescevano con rapidità portentosa.
In breve tempo ne fui avvolto, quasi sovrastato. Mi ero creato, lo capisco solo ora, un rifugio contro la grigia disdetta del cemento. Un filtro formidabile tra me e la realtà.
Cosa è rimasto trenta anni dopo di tutto questo?
Quasi nulla. L’incalzare degli anni che si dice apportino saggezza, che però per lo più portano malattia e senilità, mi ha lentamente costretto a smantellare l’immane costruzione di vasi, vasetti, vasellini. Ma più di tutto hanno potuto le insofferenze dell’inquilino del piano di sotto e la prudenza (o dovrei dire indifferenza?) dell’amministrazione condominiale.
Nelle giornate di forte vento succedeva che alcune foglie strappate al boschetto finissero sul terrazzo sottostante, provocando le ire inconsulte del proprietario. Con seguito di parolacce, insulti e minacce. Ire tali, tanto esagerate, che una volta provocarono persino l’intervento dei figli. A mia di-fesa, intendo. Anche perché accampava una sorta di diritto inalienabile all’inibizione del verde, no-nostante la presenza di vasi incorporati dal costruttore nella ringhiera. Vasi che, secondo lui, co-munque avrei dovuto tenere vuoti; o al massimo, riempire di piante grasse.
Il condominio pensò bene di intervenire accampando la pericolosità di tutto quel peso sul terrazzo. E dato che avevo fatto ricorso alla perizia di un amico ingegnere che, trattandosi di un ter-razzo a livello, aveva escluso potessero esserci pericoli per la stabilità dell’edificio, l’amministrazione volle avere lo stesso l’ultima parola adducendo i possibili inconvenienti che la profusione dei vasi poteva provocare sulla pavimentazione.
Che dovevo fare?
Viltà o desiderio di mantenere rapporti di buon vicinato mi indussero a smantellare lenta-mente il portentoso edificio vegetale. Un vaso per volta, una pianta per volta, i piani diventarono due, poi uno e poi, con il vicino che continuava a incalzarmi e cercare di togliermi la pace, attuai anche la rarefazione di quel che un tempo era stato il piano terra. Alla fine degli anni ottanta non avanzava che un residuo di peonie, un po’ di gerani, qualche fresia e i sempre generosi e immarce-scibili narcisi.
Il cemento aveva vinto. Ero stato vinto. Da me stesso e dalla mia pigrizia, dalla volontà di tenermi lontano dalle grane, nonché dall’indifferenza sostanziale della nostra civiltà nei confronti della bellezza e della natura. Non però vinto, come in un buon film di fantascienza, da una cosa ve-nuta da un altro mondo, ma dalla cosa di questo mondo. Dall’immondo invasore inorganico che sta lentamente divorando la vita.
Vivo in campagna da quasi sempre(39 anni) Mauro Antonio,ed ho un giardino selvaggio che amo e curo.Un piccolo consiglio valido per noi che appunto ci avviciniamo alla”senilita”(veramente me sento un pischello non solo dentro ma anche fuori,con tutti i naturali acciacchi soprattutto ossei…):utilizziamo i nostri piccoli spazi verdi per coltivare,accompagnare piante che danno benessere.Tra le altre l’Agave(o Aloe americana) che cresce in mezzo alle pietre e se parti quando torni dopo 20 giorni se ne sta tranquilla e “succulenta”:si puo usare in tanti modi:non c’è rimedio migliore alle infezioni,anche della pelle,ma soprattutto da tagli escoriazioni ed incidenti vari del suo succo miscelato alla urina(di chi usa questo impacco) e sale:disinfiammante ad antibiotico(è un’antica ricetta Inca e Maya che ho provato con successo piu volte).Poi il succo estratto a freddo fa ricrescere (come l’Aloe Vera) le cartilagini delle articolazioni. Per le piante da cibo riappropriamoci dei kilometri di giardini abbandonati dai comuni. Un abbraccio. Marco Pacifici
Ti ringrazio Marco. Ritengo che questo tuo commento, appena un po’ aggiustato e ampliato, potrebbe facilmente diventare uno dei post del presente dossier.
Che ne pensate, gente?
Scritto di getto in un minuto… Comunque sono agronomo,faccio l’enologo(invidia eh?…eheheh) e sono erborista raccoglitore coltivatore di erbe medicinali officinali e naturalmente utilizzatore delle stesse. Ma soprattutto sono Fratello e Compagno da sempre di Daniele Barbieri….da quando abbiamo perso la nostra innocenza. Marco.
Tutti noi che crediamo nella nuova alba dell’umanità siamo innocenti. Una innocenza che non si può perdere. Il bambino può pure smettere, ahilui! di credere nella Befana. Noi non aspettiamo che arrivi. Noi determiniamo il suo arrivo. Perciò non ci può deludere. Noi siamo innocenza in espansione che non rinuncia mai a se stessa; e che, nonostante i Mussolini-Andreotti-Berlusconi, appena perduta è riguadagnata.
Noi possiamo soffrire, sì, molto. Non perdere.
Possiamo, uguali agli alberi, essere stanchi del troppo vento, voler smettere di lottare. Il vento della contraddizione non ci darà mai pace. O vinciamo, o vinciamo.