Quel vuoto peperoncino
La questione giovanile ai giorni nostri
di Giovanni Iozzoli (*)
L’arresto dei membri della cosiddetta “gang del peperoncino” (variamente denominata nelle cronache giornalistiche) ha riportato in auge, tra cronaca, editoriali e reportage, la famigerata “questione giovanile” – un topoi eterno e immutabile, che viene istantaneamente tirato fuori ogni volta che un minorenne commette un atto criminale.
Lo schema, in queste settimane, ha trovato conferme e argomenti in altri scellerati fatti di cronaca che hanno avuto per protagonisti dei ragazzi – accoltellatori di carabinieri, lanciatori di cassonetti, un circo di giovane umanità degenerata che ha costretto psicologi ed editorialisti a fare gli straordinari agostani. La “questione giovanile” è infatti un cantiere narrativo perennemente aperto, disponibile ad ogni genere di incursione ideologica: che si parli di droga, violenze negli stadi, sadismi sociali, tutti possono andare ad azzuppare dentro questa vasta insenatura del nostro immaginario. E questo da sempre, nonostante i cambi di stagioni, di contesti e di generazioni.
C’è un concetto, però, che più spesso è rimbalzato in questi giorni dalle pagine dei giornali, imponendosi all’attenzione degli italiani spaparanzati sotto l’ombrellone o sbattuti nei bar di periferia: il Vuoto.
I giovani ne combinano di ogni, perché sono “vuoti” – o, a seconda delle versioni, crescono “nel vuoto”. Qui le variazioni sul tema sono infinite: il vuoto valoriale delle famiglie, il vuoto dei quartieri, il vuoto delle metropoli e quello della provincia, il vuoto della mancanza di luoghi di aggregazione, il vuoto delle discoteche.
Il Buddha sarebbe molto soddisfatto di questa continua evocazione del “vuoto” (anche se lui predicava la vacuità), come vera essenza di tutte le cose – in particolare del nostro sbrindellato tessuto sociale.
Qualche anno fa – ricordo la stagione dei sassi dal cavalcavia – andava di moda il più raffinato “nichilismo”, nel quale imberbi Stavrogin di provincia sguazzavano inconsapevoli, lungo i bordi bui delle autostrade. Era più o meno la stessa solfa semantica del “vuoto” – ma oggi si vede che i direttori dei giornali hanno meno fiducia nelle competenze linguistiche dei loro lettori e lasciano tranquillo Nietzsche.
Insomma, tutte le volte che ci si occupa dei “giovani” (categoria, anche questa, di assai dubbia pregnanza sociologica e statistica) è perché c’è scappato il morto e può partire la tiritera sull’assenza dei valori.
Mi permetto di dire che stavolta, al cospetto di questi rapinatori di collanine, non siamo davanti né a un vuoto valoriale (cioè, un rifiuto o una impermeabilità rispetto alla griglia dei valori condivisi) né ad una violazione deliberata dell’ethos sociale. Anzi, questi ragazzi, più che in una condizione di “vuoto”, sembrano piuttosto belli “pieni”: pieni di valori che non solo hanno ormai acquisito libera circolazione, ma sono diventati il combustibile di ogni ideologia e di ogni immaginario del presente. Qualcuno può definirli dis-valori, certo. Ma dipende dal campo di applicazione.
Dove sarebbe il “vuoto”, scusate? Nel fatto che rubino? Gesù: quali sarebbero i sacri esempi di integerrima onestà che si stagliano nel patrio empireo?
Non c’è un singolo pezzo di ceto politico che non abbia le mani invischiate nella merda dei finanziamenti illeciti, del riciclaggio, della corruzione, della concussione, del concorso esterno, del lobbismo a favore di banche e gruppi.
Le disavventure giudiziarie della Lega – da Siri al Metropol – hanno fatto addirittura impennare il suo consenso nei sondaggi, tanto per capire che aria tira nel paese sul tema legalità. La capitale d’Italia è diventata, a detta di molti osservatori, una narcometropoli, crocevia di ogni traffico internazionale, oltre che grande mercato a cielo aperto dello stupefacente; la polizia sequestra locali a dozzine, intorno alle grandi sedi istituzionali del paese, in pieno centro, perché riconducibili a clan che hanno pienamente assunto un ruolo egemone nell’economia cosiddetta legale. In Lombardia pure peggio: appalti, discariche in fiamme e controllo del territorio messo in atto da due generazioni di ‘ndrangheta. In Emilia, le mani sul mercato del lavoro e l’intermediazione di mano d’opera. E il mezzogiorno – in cui la violazione sistematica della legge diventa imperativo di sopravvivenza per decine di migliaia di persone – corre verso lo sfascio sociale facendo da apripista alla progressiva “mezzogiornizzazione” del paese intero. Sembra che una parte d’Italia si svegli ogni mattina col sangue agli occhi, furiosamente famelica, per derubare, truffare e spremere, l’altra parte che più o meno subisce – per evidente incapacità di fare altrettanto.
Volevamo diventare l’America (nei sogni di Berlusconi) o la Germania (nei sogni di Prodi) ma cominciamo ad assomigliare ad un paese dell’Est Europa: una piccola, insignificante Repubblichetta che si arrangia come può tra grande crimine, piccola illegalità e continua ricerca internazionale del protettore giusto. Questo è il paese reale, oggi. Non altro.
In che cosa i rapinatori di collanine sarebbero “fuori sincrono”? Rispetto a quali “valori” essi farebbero registrare un preoccupante vuoto? Rispetto ai valori borghesi ufficiali, formali – la buona educazione, il rispetto delle leggi? Ma quella è la scorza esteriore delle nostre comunità. Basta grattare un po’ col dito e la patina superficiale di consuetudini civili viene via: basta un pugno di profughi, un furto in casa, o anche solo la macchina rigata, che la brava gente perde la sua maschera di rispettabilità civica e invoca la pena di morte, il supplizio, l’affondamento militare dei barconi, l’ostracismo, i muri non alle frontiere nazionali ma a quelle del quartiere o del condominio.
Perché il rispetto della polis, del vivere civile, del tasso minimo di solidarietà umana che la nostra specie ha faticosamente conquistato in diecimila anni, non possono essere pannelli attaccati con lo scotch: o quelle cose ce le hai dentro per davvero – e fanno parte di un patrimonio valoriale reale (non importa se laico, civile o religioso), cioè di una mobilitazione permanente delle coscienze, di una storia che si tramanda di generazione in generazione – oppure non reggono, come le facciate di scena di Cinecittà: un soffio di vento e crollano.
Dunque, in che cosa i Di Puorto o i Cavallari sarebbero “devianti”, dentro il disastrato quadro antropologico dei nostri tempi? Nessun vuoto. Hanno pienamente assorbito l’imperativo consumista: “spendevano tutto quello che guadagnavano in abiti firmati”, ci informano scandalizzati i cronisti – come se i loro figli non fossero sottoposti alla medesima pressione morbosa. E hanno rapidamente introiettato l’ideologia competitiva che è l’essenza della nostra epoca: competere a scuola, col vicino di banco, con il vicino di casa, con il collega sul posto di lavoro, con i paesi, i popoli, le macroaree geopolitiche. Poi, è chiaro, ognuno la competizione la fa con gli strumenti che si ritrova: il furto con destrezza non deve essere poi sembrato un così grave crimine, nel quadro generale. E se qualcuno ci lascia la pelle, nella calca di un discoteca, che vuoi mai? È solo il risultato della dura legge della sopravvivenza, in cui tutti siamo tenuti a sfidarci, ad alzare la posta, a “sentirci veramente liberi di essere noi stessi”, a “superare i limiti”, a “non rimanere nel branco” (queste, ad esempio, sono solo alcune delle mediocri stronzate che i pubblicitari associano all’acquisto di mediocri vetturette che dovrebbero conferire al mediocrissimo acquirente una identità vincente).
Possono le etiche quietiste, sobrie, rassegnate di impotenza, competere con l’epica gomorroide di prima serata? Possono i richiami al buon senso, avere presa sul fuoco acido degli adolescenti?
E non dimentichiamo che questi meschini delinquentelli di provincia, hanno dalla loro una formidabile attenuante storica: appartengono alla prima generazione repubblicana che non ha mai, proprio mai, sentito parlare, della possibilità di vivere in un altro modo, in un altro mondo, in una società in cui il brand, il mercato, le gerarchie di classe, i destini di casta, non fossero l’unico terreno di gioco. Prima di rubare, quei ragazzotti sono stati derubati: di una narrazione alternativa, di una visione, di una possibilità, anche germinale o utopistica, di immaginare un altro modo di vivere. Una scommessa, una potenzialità, con cui da cento anni a questa parte, i giovani figli delle classi lavoratrici avevano avuto la possibilità comunque di misurarsi. In questo, i ragazzi del peperoncino sono stati allievi diligenti: hanno assimilato subito la lezione del There is no alternative, e si sono dati da fare – un po’ di spirito imprenditoriale ce l’hanno messo anche loro, per Dio – per attrezzarsi ad un degno ingresso in società.
Niente. Ad una attenta analisi non troverete nulla nel comportamento dei ragazzi della “gang” che rappresenti una reale defezione dalle leggi non scritte della moderna polis tardocapitalista.
Il sindaco di uno dei paesi modenesi in cui alcuni ragazzi del gruppo abitavano, ha tenuto a precisare che “si tratta solo di residenti, gente sradicata, estranea alla comunità”. Metà hanno cognomi meridionali (in gergo: marucchein), gli altri genuinamente maghrebini. Quindi le parole del sindaco hanno evocato una qualche differenza etnica: il male viene da fuori, noi lo abbiamo solo incolpevolmente ospitato, come fa un corpo sano con un virus. Non sono figli nostri – voleva dire. E in questo riflesso purista, si nascondeva proprio la terribile consapevolezza che SONO figli nostri, figli legittimi, prodotti di tutte le nostre passive accettazioni dello spirito dei tempi, contro cui è sempre sconveniente porsi, da amministratore, da intellettuale, da persona qualunque. Quella voce perbenista è la stessa di quei sindaci che difendono ad oltranza le aziende del “nuovo triangolo industriale” – che proprio nel modenese ha uno dei suoi vertici –, in cui quegli stessi cognomi marocchini/marucchein, figurano arruolati nella nuova classe operaia 4.0, in condizioni di sfruttamento e precarietà (vedi il comparto carni o la mitica Italpizza) un tempo sconosciuti.
Ecco: probabilmente i Di Puorto, gli Amoruso, i Mormone, gli Haddada, li avrebbero visti bene lì dentro, negli stabilimenti e nei cantieri, che stessero al loro posto naturale, a sei euro lordi l’ora – o a consegnare cibo in bicicletta. Ma ricordiamoci che oggi tutti – industriali e proletari, con la medesima pervasiva intensità – sono accecati dallo stesso peperoncino maligno; e tutti, ognuno con i mezzi che si trova a disposizione, cerca di partecipare alla medesima democraticissima Grande Festa: chi sbocciando champagne nel privèe, chi imbucandosi e strappando collanine.
La musica che ballano è comunque quella.
(*) Fonte: Carmilla
A Corinaldo giovani tra 19 e 22 anni entravano in discoteche prevedibilmente superaffollate e progettavano di scippare catenine e orecchini, anelli e bracciali, ovviamente di oro, agli adolescenti incrociati. Se le cose non funzionavano da come progettato, spruzzavano bombolette urticanti scatenando panico e un fuggi fuggi generale. Di qui la caduta di una fragile transenna, predisposta come regolatrice del traffico e la morte di 5 ragazzi e di una madre. I responsabili sono stati arrestati dopo lunghe indagini, dalle quali è uscito un quadro sconvolgente dell’identità dei rapinatori. Un tempo si sarebbe detto sconfortante, nella fiduciosa consapevolezza che al di là del male esiste comunque una linea di conforto.
Dall’ascolto dei messaggi intercorsi tra i responsabili della strage emerge una serie di frasi e affermazioni dei cui autori stento a individuare l’età. Indifferenza, cinismo, imperturbabilità, freddezza, non ultima una inconsapevolezza del danno arrecato e delle inevitabili conseguenze che potranno loro pervenire. Non pensavo che giovani poco più che adolescenti potessero arrivare a tanto.
Nella scuola che ho diretto per 25 anni ci interrogammo sui pericoli che stavano per precipitare sui giovani di fine millennio e decidemmo di aprire un giornalino scolastico denominato TRAguardi e CONfini tentando di definire fin dalla grafica dadaista le ambizioni del progetto: quali traguardi indicare ai nostri allievi e con quali confini delimitare le loro intraprendenze, nella consapevolezza che ci sarebbero stati a presidiare il loro futuro “guardi” vigili e “fini” cui aspirare.
Forse sbagliammo su quella strada se leggiamo bene ciò che si dicevano nelle chat i bulli