Quella “santa” Chiesa di nome Cosa Nostra
Luca Kocci intervista Augusto Cavadi a proposito di «Il Vangelo e la lupara. Documenti e studi su Chiese e mafie»
Nel Giorno della civetta, Leonardo Sciascia inventa un dialogo fra due mafiosi, «il vecchio» e «il giovane», che parlano di Calogero Dibella, confidente dei carabinieri, detto Parrinieddu («il soprannome, che voleva dire piccolo prete, gli veniva dall’eloquio facile e dall’ipocrisia che trasudava», scrive Sciascia). «Io dico – spiega il vecchio –: ti ho lasciato fare la spia perché, lo so, devi tirare a campare; ma devi farlo con giudizio, non è che devi gettarti contro la santa chiesa. E santa chiesa voleva dire di se stesso intoccabile, e del sacro nodo di amicizie che rappresentava e custodiva».
La metafora della «santa chiesa» per alludere a Cosa nostra – ma anche il soprannome di Parrinieddu – richiama l’intreccio di relazioni che, in oltre 150 anni di storia d’Italia, si è sviluppato fra mafie e Chiesa cattolica, fatto di contaminazioni, coabitazioni, distanziamenti e qualche denuncia. All’indagine di questo reticolo è dedicato Il Vangelo e la lupara. Documenti e studi su Chiese e mafie, appena uscito per l’editore trapanese Di Girolamo (pp. 236, euro 20) e curato da Augusto Cavadi, teologo critico e cofondatore della scuola di formazione etico-politica «Giovanni Falcone», che già 25 anni fa curò un analogo libro per le Dehoniane di Bologna, in due tomi mai più ristampati. Il volume è stato presentato per la prima volta il 24 gennaio a Palermo – presso la Casa dell’equità e della bellezza – dall’arcivescovo di Palermo, monsignor Corrado Lorefice, e dall’autore, che il manifesto ha intervistato.
Cavadi, il Vangelo e la lupara dovrebbero essere incompatibili, l’uno la negazione dell’altro. Eppure scrivi che «la stragrande maggioranza dei mafiosi si professa cattolica, tiene molto a sposarsi secondo il rito cattolico, a battezzare e cresimare i figli, a lasciare il mondo con un solenne funerale in chiesa…». Quali sono le ragioni di questo volersi dire, e soprattutto volere apparire, cattolici?
La religione, qualsiasi religione, offre molteplici vantaggi. Dal punto di vista soggettivo attenua l’angoscia ancestrale della morte, dal punto di vista sociale conferma l’appartenenza identitaria a una comunità. Nonostante la secolarizzazione galoppante, non è facile per nessuno rinunziare a questi vantaggi psicologici e sociologici.
Alcuni mafiosi non si limitano ad ostentare la loro adesione al cattolicesimo – cosa che potrebbe essere dettata da opportunità o interesse –, ma appaiono cattolici anche nel privato, come dimostrano per esempio le Bibbie trovate nelle loro case o le messe fatte celebrare nei loro “covi”. Si tratta di fede autentica?
La teologia contemporanea ci invita a distinguere la religione, come struttura storico-culturale, dalla fede, come apertura del soggetto al mistero della vita, all’alterità, alla novità. Gesù di Nazareth è stato assai poco ossequioso della religione, ma ha testimoniato la sua fede sino alla croce. Come molti cattolici praticanti, ma l’osservazione vale per tutte le altre confessioni, anche i mafiosi scambiano l’esercizio manifesto della religione con l’autenticità interiore della fede
Forse allora c’è un problema ecclesiologico: il Vangelo è radicalmente antitetico alla mafia, ma l’istituzione ecclesiastica, o i singoli pastori, lo hanno reso compatibile, realizzando un po’ quello che scriveva don Lorenzo Milani: «Il galateo, legge mondana, è stato eretto a legge morale nella Chiesa di Cristo». Insomma si presta attenzione alla forma, al ritualismo, al devozionismo, e non alla sostanza…
Esattamente. In questi anni stiamo assistendo al dramma di un papa che vorrebbe disseppellire i semi della fede dai sepolcri della religione e, dunque, si scontra con frange consistenti e autorevoli della sua Chiesa. I molti cattolici che, secondo le indagini sociologiche più recenti, votano Lega o Fratelli d’Italia, e prima per Berlusconi, aborriscono dal cristianesimo come messaggio impegnativo e destabilizzante e si abbarbicano al cristianesimo come fattore di identità nazionalistica, al massimo occidentale, e di salvaguardia dei privilegi secolari conquistati in secoli di colonialismo sanguinario.
La periodizzazione classica dei rapporti fra Chiesa e mafie distingue una prima fase di «compromissione» (dalle origini alla seconda guerra mondiale), una seconda di «coabitazione» (dal secondo dopoguerra al crollo della Prima Repubblica) e una terza (quella attuale) di «presa di distanza». Lei sostiene che questa scansione è più consolatoria che realistica e che invece collusione, convivenza e rottura non si susseguono nel tempo ma si intrecciano continuamente. Questo è vero, ma non le sembra che dal cardinal Ruffini – che negli anni ‘50 e ’60 diceva che la mafia era un’invenzione dei comunisti – a papa Francesco sia cambiato qualcosa a livello strutturale?
I documenti che riporto nel testo in versione integrale confermano questa evoluzione. Ritengo, però, che come nel passato non c’è stata solo complicità fra le «due Cupole», ovvero vertici cattolici e vertici mafiosi, così oggi non c’è solo opposizione. Purtroppo, nonostante i mutamenti, resta un elemento di continuità: l’illusione di troppi, fra preti e fedeli, che si possa mantenere un’equidistanza, una neutralità, fra mafia e lotta alla mafia. È sempre la stessa storia: cristiani che si illudono di non essere né con Hitler né con gli ebrei, né con i razzisti del Ku Klux Klan né con i neri mobilitati da Martin Luther King e Malcom X. Giovanni Falcone non si stancava di ripeterlo: scendete dagli spalti dove assistete alla corrida tifando ora per il toro ora per il torero. I cattolici non sono né migliori né peggiori della media statistica della popolazione: solo che Gesù ha testimoniato che il regno di Dio entra nella storia solo nella misura in cui tra prevaricatori e vittime, tra ricchi e impoveriti, si prende posizione netta. Senza odio né violenza superflua, ma con determinazione. Trasformare l’adesione al cristianesimo in opzione per il moderatismo, per il tradizionalismo conservatore è un’operazione perversa e tecnicamente diabolica.
La «scomunica» ai mafiosi di papa Francesco è stato un atto importante?
Una cosa è condannare i mafiosi in generale, un’altra cosa per il parroco di provincia negare al boss del quartiere il diritto di fare da padrino alla cresima di un nipote. Le scomuniche mi lasciano tiepido. Se apro un bar, e lo vedo frequentato da brutta gente, prima di preoccuparmi su come estrometterla farei bene a chiedermi che cosa la attrae. Per esempio potrei scoprire che è meglio togliere le slot machine o che il mio cassiere vende droga sottobanco. Fuor di metafora, le comunità cristiane farebbero bene a chiedersi che cosa in esse attira tanto i mafiosi: potrebbero scoprire che sono ancora centri di potere, di scambi di favore, di clientele elettorali, di occasioni di profitto.
Diventare «Chiesa povera e dei poveri», come sognava Giovanni XXIII?
Sì. La Chiesa per liberarsi definitivamente dall’abbraccio con i mafiosi dovrebbe essere «povera e dei poveri», senza potere e con il minimo di denaro necessario a sopravvivere. La mafia chiede alle Chiese soprattutto coperture simbolico-ideologiche e legittimazione sociale: solo tornando alla radicalità rivoluzionaria del Vangelo esse potranno negargliele.
BIBLIOGRAFIA
La bibliografia sul tema Chiese e mafie è ampia. Fra i titoli più recenti, di taglio storico: Isaia Sales, I preti e i mafiosi. Storia dei rapporti tra mafie e Chiesa cattolica (Baldini Castoldi Dalai, 2010) e Vincenzo Ceruso, Le sagrestie di Cosa nostra. Inchiesta su preti e mafiosi (Newton Compton, 2007). Di taglio storico-sociologico: Alessandra Dino, La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra (Laterza, 2008) e L’immaginario devoto tra mafie e antimafia. Riti, culti e santi, a cura di Tommaso Caliò e Lucia Ceci (Viella, 2017). Sul versante teologico ed ecclesiologico: Augusto Cavadi, Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2009) e Rosario Giuè, Vescovi e potere mafioso (Cittadella, 2015)