Quella Supercoppa macchiata di sangue
Arabia Saudita. È sportwashing: grazie a Lega Calcio e squadre, nel 2019 i Saud hanno ospitato due Supercoppe italiane (a gennaio a Gedda, vicino a dove hanno frustato in pubblico il blogger Badawi)
Riad, il capitano laziale Senad Lulic riceve la Supercoppa italiana dalle mani del principe saudita Abdelaziz bin Turki al-Faisal
La Supercoppa che domenica pomeriggio la Lazio ha sollevato nel cielo di Riad (sportivamente meritatissima) è macchiata di sangue. Del sangue di migliaia di uomini, donne, bambini dello Yemen, che la coalizione a guida Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti ha ucciso a partire dal marzo 2015.
Grazie alle bombe statunitensi, francesi, inglesi, tedesche, spagnole e anche italiane che hanno colpito senza pietà scuole, ospedali, abitazioni private, mercati, luoghi di culto e persino banchetti nuziali.
Del sangue degli oltre 100 condannati a morte che sono stati decapitati nella pubblica piazza anche quest’anno.
Del sangue di Jamal Khashoggi, la cui fidanzata Hatice Cengiz aveva invano chiesto che la Supercoppa non venisse giocata in Arabia Saudita.
LO SPORTWASHING è stato più forte. Con l’accondiscendenza della Lega Calcio e delle squadre coinvolte, nel giro di un anno in Arabia Saudita si sono giocate due Supercoppe italiane. L’edizione precedente, a gennaio, si era disputata a Gedda, a poca distanza dalla piazza in cui il blogger Raif Badawi, il 9 gennaio 2015, aveva ricevuto 50 frustate per aver creato un forum online.
Due prestigiosi eventi sportivi hanno così aperto e chiuso 12 mesi in cui nelle monarchie del Golfo si sono anche disputate corse ciclistiche, automobilistiche, motociclistiche, campionati e tornei di discipline varie, esibizioni e finali internazionali di calcio (il giorno prima di Lazio – Juventus, il Liverpool aveva vinto in Qatar la Supercoppa mondiale!).
SI DICE: LO SPORT deve restare fuori dalla politica. Non ci si rende però conto (o forse sì) che, assecondando la strategia di Riad e delle altre capitali del Golfo, si fa esattamente il contrario: lo sport diventa una stampella della politica. Di una politica fatta di rapporti sempre più stretti sul piano militare e commerciale con paesi che presentano una situazione devastante dal punto di vista dei diritti umani.
Lo sportwashing proprio a questo punta: a far dimenticare guerre, decapitazioni, omicidi e incarceramenti intrigando un pubblico, quello degli appassionati e dei tifosi, non necessariamente sensibile e, nella maggior parte dei casi, infastidito dalle “interferenze” nella fruizione di uno spettacolo sportivo.
Si dice poi: bisogna partecipare perché solo in questo modo si potranno assecondare le riforme in atto in quei paesi e non mancherà occasione per parlare proprio dei diritti umani. Un argomento ipocrita. Fosse stato applicato al Sudafrica, oggi ci sarebbe ancora l’apartheid.
SI DICE ANCORA: l’altra volta abbiamo protestato perché le donne erano recintate in un settore e questa volta hanno avuto libero accesso all’interno dello stadio di Riad. Dimenticando che, proprio mentre veniva decisa questa “apertura”, si scatenava una feroce “chiusura”: le leader del movimento per i diritti delle donne, quelle che avevano promosso e vinto le campagne per abolire il divieto di guida e – parzialmente – il sistema per cui il maschio di casa decide su ogni aspetto della vita delle sue familiari, sono finite nel settore loro riservato: la prigione.
E si dice, infine, da ieri: visto che a forza di parlare di Jamal Khashoggi, un tribunale saudita ha emesso il verdetto nei confronti dei suoi assassini? Leggiamolo, allora, questo verdetto: cinque condanne a morte (e già un processo che termina con cinque sentenze del genere pone enormi problemi) e altre tre a pene detentive per un totale di 24 anni di carcere. I due principali imputati, l’alto consigliere reale Saud al-Qahtani e il console generale a Istanbul nel periodo del delitto, Mohammed al-Otaibi, sono stati giudicati non colpevoli.
AMNESTY INTERNATIONAL e il sindacato dei giornalisti della Rai da oggi chiedono che in Arabia Saudita non si giochi la terza Supercoppa consecutiva. Che non si dia un ulteriore calcio ai diritti umani. Che sia “due senza tre”. E agli ortodossi osservatori del rispetto dei contratti, ricordano che il contratto non verrebbe violato e che resterebbero, in caso, altri due anni per onorarlo.
L’accordo tra l’ente sportivo saudita e la Lega Calcioitaliana di Serie A prevede infatti, in cambio di 21 milioni di euro, lo svolgimento di tre Supercoppe in cinque anni.
Sempre che di fronte a una Supercoppa macchiata di sangue, abbia poi senso appellarsi al rispetto di un contratto che, in realtà, non avrebbe dovuto mai essere firmato.
POST SCRIPTUM. Le formazioni di Juventus e Lazio scese in campo domenica a Riad sono note. Alle lettrici e ai lettori de “il manifesto” propongo la formazione dimenticata. Quella che non è potuta scendere in campo, composta da 11 prigionieri e prigioniere che stanno scontando lunghe condanne o che rischiano di essere messi a morte.
Ali Al-Nimr, arrestato nel 2012 mentre prendeva parte a una protesta pacifica. Condannato a morte da minorenne, è in attesa dell’esecuzione. Nel frattempo, il 21 dicembre ha compiuto 25 anni.
Loujain al-Hathloul, attivista per i diritti delle donne, protagonista delle campagne per il diritto alla guida, per l’abolizione del sistema del tutore maschile e per la giustizia e l’uguaglianza delle donne. Arrestata il 15 maggio 2018, ha subito violenza sessuale in carcere. Resta detenuta in attesa del processo.
Raif Badawi, blogger. Sta scontando una condanna a 10 anni di carcere e a 1000 frustate, emessa nel 2014 perché aveva osato creare un forum online. Cinquanta frustate sono state eseguite il 9 gennaio 2015.
Waleed Abu al-Kheir, avvocato, condannato nel 2014 a 15 anni di carcere per una serie di “reati” tra i quali l’aver rotto il vincolo di obbedienza verso la casa regnante. Prima di essere arrestato, aveva difeso Raif Badawi,
Samar Badawi, sorella di Raif ed ex moglie di al-Kheir, attivista per i diritti delle donne. Più volte arrestata, l’ultima delle quali nell’agosto 2018. Resta in carcere in attesa del processo.
Issa al-Hamid, co-fondatore dell’Associazione saudita per i diritti civili e politici, condannato nel settembre 2017 a nove anni di carcere per il suo impegno in favore dei diritti umani.
Abdulaziz al-Shubaily, collega di al-Hamid, co-fondatore dell’Associazione saudita per i diritti civili e politici, condannato a sua volta a otto anni di carcere nel medesimo processo. Tra i “reati” di cui è stato riconosciuto colpevole, c’è anche quello di aver trasmesso informazioni ad Amnesty International.
Ashraf Fayadh, poeta di origini palestinesi, originariamente condannato a morte per apostasia e blasfemia. In appello, condanna commutata alla pena detentiva di otto anni di carcere.
Nassima al-Sada, scrittrice, attivista dei diritti delle donne, arrestata nel luglio 2018 e tuttora in carcere in attesa del processo.
Murtaja Quereiris, arrestato nel settembre 2014 all’età di 13 anni. Accusato di atti di violenza commessi quando di anni ne aveva appena 10, ha rischiato la pena di morte. Tuttora in prigione, potrebbe essere rilasciato nel 2022.
Israa al-Ghomgham, attivista per i diritti umani arrestata alla fine del 2015 per aver istigato proteste e avervi preso parte. La pubblica accusa ha dichiarato che rinuncerà a chiedere la pena di morte.
(*) Portavoce di Amnesty International Italia.
Questo articolo è stato pubblicato ieei sul quotidiano “il manifesto”