Questione abitativa: opporsi al deserto

Illustrazione di Samuele Canestrari

Alessandro Coppola intervista Giorgio De Ambrogio (ripreso da gliasinirivista)

Nei grandi centri urbani, la finanziarizzazione dell’immobiliare e la turistificazione hanno separato la disponibilità di alloggi dalla domanda reale di chi vorrebbe abitarci. Non si parla più di situazioni di fragilità estrema: sempre più persone non trovano case dignitose a meno che non vi consacrino una componente insostenibile del loro reddito. Eppure, in Italia si parla solo di superbonus, il dibattito sulla casa si esaurisce nei confini della proprietà privata e di casa pubblica e sociale non parla (quasi) più nessuno.

In una recente indagine della Banca d’Italia si legge che le agevolazioni per la casa (ovvero l’universo dei bonus), hanno rappresentato nel 2022 circa 36 miliardi di euro, più del quadruplo di quanto speso nello stesso periodo per le politiche sociali e familiari (8 mld). Tuttavia, l’Italia è tra i paesi europei dove la spesa per la casa pubblica e sociale è più bassa (6€ pro capite contro una media UE di 146€), le case pubbliche sono il 4% del totale (contro una media UE del 20%) e riescono a intercettare solo il 5% delle domande in graduatoria, lasciando fuori circa 1,4 milioni di persone. Mentre le politiche abitative sono in caduta libera, la situazione italiana è drammatica – se paragonata agli altri paesi europei – sotto tutti gli aspetti del bisogno abitativo.

Con un discorso pubblico desertificato e delle politiche ridotte ai minimi termini, c’è un bisogno di azione collettiva in grado di costruire rivendicazioni, fornire risposte di mutuo aiuto, ripoliticizzare un tema di welfare che rischia di scomparire dall’orizzonte delle politiche sociali.

Alessandro Coppola, professore associato al Politecnico di Milano, ci racconta le sue prospettive sulla questione abitativa in Italia.

In che modo oggi si manifesta la precarietà abitativa che interessa sempre più persone?

Quando parliamo di precarietà o vulnerabilità abitativa facciamo riferimento al rischio di non avere accesso a un’abitazione dignitosa o di non potersela più permettere a un certo punto della vita. Per spiegare come questa si presenta oggi nei nostri territori bisogna combinare prevalentemente due livelli, uno socio-demografico e uno spaziale.

Da un lato, la precarietà abitativa è prodotta da una dinamica strutturale che ha a che fare con il cambiamento della relazione tra corsi di vita e lavoro. Per tanti decenni la precarietà abitativa si concentrava in una classe di soggetti abbastanza omogenea da un punto di vista socioeconomico. Oggi è un problema che riguarda sempre più persone, in fasi diverse della loro vita e con necessità diverse. Pensiamo a una donna anziana che si ritrova vedova con una pensione modesta e deve affrontare da sola il costo dell’affitto, a una persona single con un contratto di lavoro precario, a una madre o a un padre single con figli a carico. Questi soggetti non vivono situazioni che si direbbero di grande marginalità, le considereremmo parte del ceto medio se non fosse che la mancanza di una casa accessibile le conduce – di fatto – in una situazione di povertà e di insicurezza esistenziale. A queste si deve aggiungere una categoria di persone escluse dal mercato formale. Si tratta soprattutto dei migranti, che si ritrovano spesso a vivere in condizioni di sfruttamento, precarietà e marginalità estrema e che non hanno i titoli formali e i risparmi necessari a entrare nel mercato legale. Ovviamente questo discorso è estendibile a gruppi sociali nativi, specie nel Mezzogiorno.

Dall’altro lato, è importante sottolineare che queste dinamiche si presentano in una specifica classe di territori ossia le grandi aree urbane del paese. Qui, negli ultimi quindici anni, il peso della componente immobiliare nei processi di accumulazione urbana è molto aumentato. Rispondendo sempre di più ad una logica di finanziarizzazione, la casa ha smesso di intercettare la domanda reale di uso degli abitanti e il risultato è evidente a chiunque viva in queste città: le case sono troppo care non solo per i ceti popolari, ma anche per i ceti medi che magari si illudono di poter guadagnare da questi stessi processi di finanziarizzazione ma che sempre più spesso ne rimangono delusi.

In questi territori ci sono figure – come le persone straniere– che faticano a trovare un alloggio anche quando hanno la capacità di pagare l’affitto, perché il proprietario non li vuole. Questi casi interrogano sulla capacità di governare la piccola proprietà. Se chi governa i territori è sostenuto da un elettorato di piccoli proprietari, è difficile costruire una politica pubblica che cerchi di mitigarne le disfunzioni.

Certo, un’offerta nelle mani di piccoli proprietari conduce a una situazione in cui il controllo delle discriminazioni di fatto sfugge alle possibilità dello Stato e la stessa regolazione degli affitti diventa particolarmente difficile ed onerosa. L’insuccesso delle politiche di calmieramento volontario dell’affitto da parte dei proprietari – come il canone concordato – è sintomo del fatto che il problema è anche politico-culturale: il piccolo proprietario ha l’aspettativa di massimizzare l’estrazione della rendita e la sicurezza della remunerazione a livelli che non sono compatibili con i fini sociali che l’uso della proprietà deve comunque garantire. Questa aspettativa gli viene confermata dall’attore pubblico, che ha integralmente liberalizzato il mercato dell’affitto, seguendo una evoluzione più generale che ha caratterizzato gli ultimi venti/trent’anni. In un contesto di stagnazione e di aspettative sociali declinanti, la classe politica ha sregolato estesamente tutti i settori dai quali era possibile estrarre rendite: dal mercato dell’affitto al commercio urbano, dagli usi del suolo pubblico alla produzione edilizia la spinta è stata quella di illudere vasti gruppi sociali che tutti potessere accedere a una generosa estrazione di rendita.

Se pensiamo a Milano, una parte molto rilevante dell’elettorato ha una casa di proprietà. Ma non solo. Al di là del qualificare chi vota, è importante qualificare chi non ne ha il diritto. Ci sono tutta una serie di soggetti “domiciliati” in città che non votano: immigrati, studenti, giovani lavoratori. Ovviamente si tratta di una popolazione che vive maggiormente in affitto e risulta invisibile nell’arena elettorale. Dal punto di vista del governo della città, non solo la tutela della rendita delle piccole proprietà finisce per essere un principio inscalfibile, ma si pone un problema di rappresentanza che è rilevante se ci chiediamo il perché dell’assenza di politicizzazione della questione abitativa.

Pensi che stiamo andando verso un futuro in cui la casa pubblica e sociale non sarà più considerata una prestazione sociale e uscirà dall’orizzonte del welfare?

Se guardiamo all’Italia rispetto ai paesi europei più avanzati, la casa pubblica è sempre stata una politica residuale. Certo, negli ultimi vent’anni lo è diventata ancora di più. E nella situazione che viviamo oggi ci sono tante cose che autorizzerebbero un forte pessimismo.

La prima è che il ciclo politico sembra andare verso il ripetersi di discorsi sulla casa già visti e sentiti: l’intoccabilità della casa di proprietà, il doverla proteggere dalla fiscalità e da altre politiche pubbliche, specie di regolazione del mercato. Non vedo segnali di un cambio di rotta, perché nessuna voce mette in discussione gli assunti che sostengono questi discorsi.

Il secondo motivo di pessimismo è che – diversamente da altre fasi della nostra storia – oggi le contraddizioni di questo modello arrivano a politicizzarsi in un numero limitato di territori, che essenzialmente sono le grandi regioni urbane del centro-nord. Problemi abitativi riguardano anche le aree urbane in contrazione e aree non urbane, ma i gruppi sociali che ne sono colpiti risentono di una invisibilità ancora maggiore di quelli che ne sono colpiti nelle grandi aree urbane. Siamo in un contesto molto frammentato che rende difficile affermare forme di rivendicazione trasversali, anche se l’acuirsi di queste contraddizioni porta in queste ultimi a forme di azione collettiva rilevanti e anche innovative.

La terza ragione riguarda il fattore sociodemografico. Le giovani generazioni erediteranno un patrimonio immobiliare vasto come mai prima e spesso collocato in territori che si sono svalutati. È molto difficile immaginare dove questa dinamica porterà, ma è interessante rilevarla. Che tipo di contraddizioni aprirà? Come si articoleranno sul territorio? Aprirà qualche contraddizione nel discorso sulla desiderabilità universale della casa in proprietà?

Ci sono delle ragioni per essere ottimisti? Ascoltandoti, il fatto che l’abitare sia sempre più insostenibile può portare a forme nuove di mobilitazione…

Il motivo per cui possiamo essere anche ottimisti è che alcuni processi stanno arrivando a un punto di rottura. In alcune aree metropolitane questi sono visibili nella loro insostenibilità e iniziano a produrre svantaggi per alcuni gruppi sociali che non riescono più a tollerarli. Con intensità diverse, la questione casa è politicizzata ovunque, ma in alcune città lo è in modo nuovo perché la pressione è troppo alta e le contraddizioni sempre più acute.

Ovviamente la situazione è molto diversa da quella degli anni più forti delle mobilitazioni per la casa. Negli anni 60 e 70 dello scorso secolo l’abitare divenne un oggetto di grande mobilitazione e si diffuse fra le classi popolari e in tutto il paese. Il paese e le città crescevano e la casa era una rivendicazione diffusa, ed era una delle contraddizioni più evidenti in un paese che progrediva nella sua struttura produttiva ma che era frenato da un regime retrivo di regolazione dei suoli e della produzione edilizia. Oggi si è persa quell’omogeneità sociale, le mobilitazioni non sono altrettanto ampie. In questa frammentazione è difficile costruire un discorso pubblico alternativo, le rivendicazioni non possono essere le stesse tra una metropoli del nord e una del mezzogiorno e tantomeno fra un’area urbana dinamica ed un’area interna in contrazione.

La questione si politicizza là dove il problema si pone anche per una parte di ceti medi urbani, i quali hanno maggiori mezzi per farsi sentire: residenti di quartieri un tempo popolari investiti dalla gentrificazione, studenti e giovani lavoratori fuorisede sono gruppi sociali che subiscono le conseguenze del mercato e in alcuni casi passano all’azione. Potremmo dire che ci sono ragioni per essere pessimisti perché soltanto in una classe specifica di territori ci può essere l’alleanza tra gruppi sociali che è necessaria per porre questo tema, ma un motivo di ottimismo sta nel rilevare che una serie di processi si sono radicalizzati talmente tanto da avvicinarci ad un punto dove è davvero difficile ignorarli.

In alcuni contesti ci sono esperienze di mobilitazione rilevanti. A Venezia, Alta Tensione Abitativa e l’osservatorio OCIO hanno costruito una piattaforma partecipata di rivendicazione, anche capace di maneggiare la dimensione tecnica delle politiche. A Roma, Nonna Roma ha lanciato un’iniziativa per la salvaguardia del Reddito di Cittadinanza che integra l’abitare all’interno di un ventaglio più ampio di rivendicazioni mutualistiche. È interessante vedere come un certo tema che si esprime con livelli di violenza diversi a seconda dei territori (la turistificazione a Venezia, la finanziarizzazione dell’immobiliare a Milano, l’abitare studentesco a Bologna) costruisca esperienze di mobilitazione a cui si può guardare anche altrove, dove quei fenomeni esistono ma sono meno aspri…

Le esperienze che citi sono rilevanti perché affrontano il tema abitativo partendo da una dinamica particolarmente forte in un certo contesto, che pone un tema di vivibilità complessiva della città, e sono delle porte di ingresso per articolare il tema della casa a partire da questa specifica questione e in una forma più ampia. La turistificazione è un esempio lampante in questo senso.

Un’altra domanda riguarda la relazione tra l’azione sociale e gli strumenti che ci sono nelle politiche locali. Oggi esiste un’offerta di servizi abitativi che permette di intervenire a vario titolo sulla precarietà abitativa. Anche se sono strutturalmente insufficienti, questi strumenti esistono, tuttavia sono quasi sconosciuti e completamente assenti dal dibattito. Come relazionarsi a questi strumenti, dal punto di vista dei movimenti?

Oggi c’è un problema di orizzonte. L’Italia – senza eguali in Europa – ha spopolato l’orizzonte delle possibilità per le politiche pubbliche sulla casa in una misura con senza pochi eguali in Europa, desertificando anche l’interesse politico e scientifico per questo tema. Questa questione pone il tema del rapporto tra il sapere esperto e i movimenti sociali. Soprattutto sulla casa, oggi non possiamo immaginare che i movimenti non abbiano una forte dimensione di competenza. È un problema rilevante ma anche relativamente facile da risolvere, come raccontano le esperienze che citavamo prima. Siamo in una fase in cui c’è tanto sapere esperto, che è anche incline a coinvolgersi attivamente in alcuni movimenti e spesso lo sta già facendo. La questione è costruire interlocuzioni con le poche politiche pubbliche esistenti – anche conflittuali – che siano in grado di agire anche su un piano di azione sociale esperta e competente.

Un’ultima domanda riguarda il dibattito pubblico. Abbiamo detto che sempre più persone oggi sono a “rischio di scivolamento” verso situazioni di disagio sociale. Questo non riguarda solo la casa, ma è trasversale a tutti i temi del welfare. Tuttavia, mentre per alcuni temi – penso a povertà e lavoro – esiste un dibattito nazionale ampio, quello sulla casa è molto timido, perché?

Oggi il dibattito sulla casa non c’è. Per esserci dovrebbe coinvolgere alcuni media rilevanti, alcuni esperti che diventino visibili anche al di fuori della cerchia degli esperti. Ad esempio, sul reddito di cittadinanza è successo: si è posto un tema e si sono polarizzate delle posizioni politiche, che opponevano due prospettive culturali e due approcci di policy. Non c’è oggi in campo una voce che dice che si debba invertire la rotta sulla casa.

Il paragone con la lotta alla povertà apre una domanda rilevante. Come è accaduto che la povertà è diventata un oggetto politico nel nostro paese? Perché non è successo sulla casa? Sicuramente interrogarsi su questa vicenda e sulle sue determinanti è centrale se l’orizzonte è quello di ripoliticizzare la questione della casa in Italia.

Rileggendo l’intervista ad Alessandro Coppola mi accorgo che vorrei fargli un’altra domanda, chiedergli come ci si oppone a questo processo di desertificazione. Ripercorro la nostra chiacchierata e mi rendo conto che la risposta si compone pezzo per pezzo: sostenendo i movimenti che nascono nei territori più duramente colpiti dalla crisi abitativa, apprendendo dalla loro capacità di costruire rivendicazioni radicali e capaci di intervenire anche sul piano delle politiche, parlando di diritto alla casa per quello che è: una questione politica che ha bisogno di discorsi politici per non sparire.

da qui

Redazione
La redazione della bottega è composta da Daniele Barbieri e da chi in via del tutto libera, gratuita e volontaria contribuisce con contenuti, informazioni e opinioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *