Questo sarà il secolo dei profughi ambientali
di Marina Forti (*)
A Beledweyne, in Somalia, dove si sono rifugiate le famiglie fuggite dalle inondazioni causate dallo straripamento del fiume Shabelle, il 22 giugno 2016. (Feisal Omar, Reuters/Contrasto)
I disastri naturali fanno più sfollati delle guerre. Sembra difficile da sostenere, nel mezzo della più grave crisi umanitaria dalla fine della seconda guerra mondiale. La sola guerra in Siria ha fatto più di sei milioni di sfollati all’interno del paese e costretto altri cinque milioni di persone a cercare rifugio nei paesi vicini, oppure a tentare la traversata del Mediterraneo, lasciandosi dietro una devastazione tale che ci vorranno generazioni per ricostruire il paese.
Poi c’è la guerra in Yemen, che fa meno notizia ma ha provocato decine di migliaia di sfollati. E il conflitto cronico in Afghanistan, e la militarizzazione in Eritrea.
Eppure le persone che sono spinte ad abbandonare la loro casa per le calamità ambientali sono perfino di più. Magari si notano meno, perché si tratta quasi sempre di migrazioni interne (profugo è qualcuno che cerca asilo e protezione in un altro stato; sfollato interno è quello che si sposta forzatamente entro i confini del suo paese).
Le persone in fuga all’interno dei loro paesi, soprattutto in Africa, sono più di 40 milioni, il doppio dei 21 milioni di profughi registrati dall’Onu nel 2015 in tutto il mondo, secondo l’ultimo rapporto dell’Internal displacement monitoring centre. I dati fanno impressione: nel 2015, in tutto il mondo, disastri, conflitti e violenze hanno fatto 27,8 milioni di nuovi sfollati interni, e di questi oltre 19 milioni fuggivano da disastri ambientali: più del doppio di quanti fuggono da violenze e conflitti.
Così, sempre più spesso sentiamo parlare di sfollati ambientali. È un’espressione discussa, non ne esiste una definizione riconosciuta e accettata. Il senso però è abbastanza chiaro: sono persone spinte a partire perché non riescono più a sopravvivere nel loro luogo di origine a causa di disastri ambientali, perché non hanno più accesso a terra, acqua e mezzi di sussistenza. “Costrette alla fuga da una massiccia perdita di habitat”, riassume la parlamentare europea Barbara Spinelli, promotrice di un convegno internazionale che si è tenuto il 24 settembre a Milano, proprio per richiamare l’attenzione sul “secolo dei rifugiati ambientali”.
In India quasi mezzo milione di agricoltori e pescatori ha perso la terra e i mezzi di sopravvivenza per una serie di dighe sul fiume Narmada
Con il termine disastro si indicano circostanze diverse: le persone sfollate dopo un terremoto, quelle lasciate senza tetto da un’alluvione o da uno tsunami. Oppure quelle costrette a migrare da disastri più lenti ma pervasivi: la siccità, l’erosione del suolo e delle coste, la salinizzazione dei terreni, la desertificazione. Certo, distinguere tra i disastri naturali e quelli “provocati dagli esseri umani” spesso è difficile. Come per i fenomeni meteorologici: non si può addebitare direttamente al cambiamento del clima ogni singolo ciclone che si abbatte nel golfo del Bengala o sulle Filippine o nei Caraibi.
Ormai molti studi avvertono che uno degli effetti del riscaldamento dell’atmosfera terrestre è proprio l’aumentata probabilità di fenomeni meteorologici estremi. E, secondo un rapporto dell’ufficio dell’Onu per la riduzione del rischio dei disastri, il 90 per cento delle catastrofi registrate nel mondo negli ultimi vent’anni è causato da fenomeni legati al clima: inondazioni, cicloni, ondate di caldo, siccità. Disastri naturali, ma con responsabilità umane.
Sono sfollati ambientali anche le vittime delle espulsioni forzate dalle loro terre, le comunità sfrattate da grandi imprese agroindustriali, o da nuove miniere, o dighe. In Cina più di un milione di persone ha dovuto spostarsi dall’area della diga delle Tre Gole, sul fiume Chang Jiang. In India quasi mezzo milione di agricoltori e pescatori ha perso la terra da coltivare e i mezzi di sopravvivenza a causa di una serie di dighe sul fiume Narmada. In teoria tutte queste persone sono state risistemate altrove, ma nei fatti non è così.
Nella valle di Narmada pochissimi hanno avuto terre in cambio di quelle perse, e comunque spesso non coltivabili o senza fonti d’acqua; altri hanno avuto quattro soldi di risarcimento, la maggioranza non ha avuto un bel nulla e sono finiti in baraccopoli urbane a sopravvivere come lavoratori a giornata. Lo stesso vale per altri casi di dighe, miniere o altre opere di sviluppo degli ultimi vent’anni: secondo uno studio dell’Idmc, gran parte di questi “sfollati dello sviluppo” alla fine vive in condizioni più misere di prima, hanno perso il loro tessuto sociale, hanno meno reddito e meno accesso a servizi sanitari e istruzione.
Anche il land grabbing provoca sfollati: è chiamata così l’acquisizione di terre coltivabili per progetti agroindustriali su larga scala, come avviene in molti paesi africani e asiatici, ignorando la sorte degli agricoltori che sono sfrattati senza vere alternative per vivere.
La Siria tra guerra e siccità
La competizione per le risorse non fa solo sfollati: può diventare causa di conflitto. Secondo il programma dell’Onu per l’ambiente, negli ultimi sessant’anni almeno il 40 per cento di tutti i conflitti interni registrati nel mondo è stato legato allo sfruttamento di risorse naturali, dal legname alle risorse minerarie, incluse la terra e l’acqua. L’Unep ha analizzato i conflitti avvenuti tra il 1990 e il 2009 per concluderne che almeno 18 erano stati innescati o alimentati dallo sfruttamento di risorse naturali (ma non si pensi solo al petrolio: dai diamanti in Angola, al coltan nella Repubblica Democratica del Congo, al legname pregiato in Cambogia, fino ai lapislazzuli in Afghanistan, gli esempi sono infiniti).
O forse si potrebbe guardare alla Siria. Tra il 2007 e il 2010 più di metà del territorio siriano è stato colpito da una grave siccità. In particolare le province nordorientali, tagliate dal fiume Eufrate, con i governatorati di Aleppo e Hassakeh che da soli fanno più di metà della produzione di grano del paese, e quelli di Idlib, Homs, Dara.
Famiglie ricevono cibo e acqua in un campo profughi della regione di Adal, nel Somaliland. Migliaia di persone sono fuggite dalla siccità che ha colpito l’area del Corno d’Africa a causa del fenomeno climatico del Niño. (Feisal Omar, Reuters/Contrasto)
L’effetto è stato devastante, in tre anni i raccolti sono stati dimezzati. Parte del problema è che nei trent’anni precedenti le terre coltivate erano più che raddoppiate, tanto che la Siria esportava grano. Ma i terreni e le falde idriche sono stati usati in modo così intenso che quando è arrivata la siccità gli agricoltori non hanno neppure potuto attingere ai pozzi per irrigare i campi: erano per lo più esauriti.
Metà dei 22 milioni di siriani viveva di agricoltura, ma in tre anni la siccità ha fatto collassare l’economia agricola. È cominciato un esodo di massa. Nel 2010 circa un milione e mezzo di persone erano emigrate verso Damasco, Aleppo, Hama. Le città siriane però erano già sotto stress per il grande afflusso di profughi arrivati dal vicino Iraq dopo l’invasione guidata dagli Stati Uniti nel 2003. Così un numero crescente di persone si è trovato a competere per servizi e infrastrutture già carenti.
Intorno ad Aleppo o alla stessa Damasco sono cresciuti grandi slum, con una popolazione per lo più giovane, senza lavoro, e carica di una grande frustrazione. Oggi possiamo dire che la siccità, e la crisi sociale che ha innescato, è una delle cause soggiacenti alle proteste scoppiate nel 2011 – su cui ovviamente si sono inseriti altri fattori storici, politici, geopolitici che hanno determinato la guerra interna.
L’accoglienza non basta
Quando si dice sfollati ambientali, dunque, si allude a tutto questo: disastri del clima, crisi ambientali, e insieme l’espulsione dalla terra o l’accaparramento di risorse essenziali come l’acqua, con tutti i conflitti che conseguono.
Dunque, è il secolo dei profughi ambientali? Nelle norme internazionali questa definizione non esiste. Per la convenzione di Ginevra del 1951, profugo è chi fugge una persecuzione a causa di razza, religione, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche. Altre norme estendono la protezione umanitaria a chi è in pericolo, quale che sia il motivo.
Esistono convenzioni che proteggono gli sfollati interni. Bisognerà estendere la protezione a tutti coloro che sono costretti a migrare, quali che siano le minacce che subiscono. Il contrario di quello che succede oggi negli hotspot europei, dove i profughi di guerra hanno il diritto di chiedere asilo, mentre tutti gli altri sono respinti.
L’accoglienza però non basta, dice Barbara Spinelli: “Dobbiamo andare alle radici, alle cause che spingono tanti a emigrare: espropriazione delle risorse, land grabbing, accordi di libero scambio squilibrati in favore dei paesi ricchi, i modelli di sviluppo non sostenibili promossi fin dagli anni settanta dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale, che hanno messo in crisi le economie locali”. Altrimenti, dice Spinelli, “saremo come infermieri dei disastri, che intervengono solo quando la crisi precipita”.
(*) Questo articolo è ripreso dal sito di «Internazionale»; Marina Forti ha un suo blog: www.terraterraonline.org/blog/ ovvero «Terra Terra – cronache da un pianeta in bilico». (db)