R.U.R. o l’eterno ritorno del robot

di Daniele Barbieri (*)

Prima che la fantascienza acquisisse questo nome (o meglio, prima che avesse il nome inglese di science fiction, ufficialmente 1926) era già nata la parola robot. Era apparsa in una pièce teatrale del 1920, scritta da Karel Čapek (1890-1938) dove indicava automi in carne e ossa, quelli che noi oggi chiameremmo androidi, o replicanti. La pièce ebbe molto successo, anche internazionale, negli anni Venti, prima di finire nel dimenticatoio della storia. Le sarebbe sopravvissuta la parola chiave robot, dal ceco robota, ovvero lavoro duro, forzato, che però ben presto, nella vulgata angloamericana, avrebbe finito per fare riferimento a creature meccaniche, non biologiche.

«Rossumovi univerzální roboti» – o R.U.R. cioè «I robot universali di Rossum» – in un prologo e tre atti raccontava la diffusione di queste creature artificiali destinate al lavoro duro e le conseguenze sociali della trasformazione che ne consegue, prima fra tutte la loro presa di coscienza con la drammatica ribellione ai padroni umani. Da allora, la figura del robot ha dominato la fantascienza e l’immaginario del futuro, soprattutto (ma non solo) nella sua versione meccanica. Prima che Asimov lo addomesticasse – per mezzo delle “tre leggi della robotica” – il robot era frequentemente un pericolo, una sorta di alieno. Le copertine delle riviste americane di science fiction ne sono rigurgitanti nei Venti e nei Trenta, sempre come nemici, sempre come pericolo.

Benché poi scomparso dalle scene, il dramma di Čapek ha evidentemente lasciato il segno. Il robot è diventato meccanico (con molte varianti) ma non ha smesso di costituire una minaccia, l’avvertimento nei confronti della hybris umana di controllo del mondo – anche quando la problematica sociale, così importante in Čapek, sarà poi assente nella fantascienza americana, almeno sino agli anni Quaranta.

Per celebrare il centenario, Kateřina Čupová ha trasformato «R.U.R.» in una graphic novel – ora tradotta da Alessandro Catalano per Miraggi – con l’aggiunta di una sua utilissima postfazione sull’immagine del robot da Čapek in poi. Čupová ha oggi la stessa età che aveva Čapek quando scriveva «R.U.R.». Un secolo intero li separa. Il futuro di Čapek è diverso dal nostro, senza computer né telefoni cellulari; ma i problemi di fondo si assomigliano. Rendere a fumetti quello che non è mai riuscito a diventare un film (per motivi, a quanto pare, varie volte contingenti) sembra il modo migliore per riportare a galla quelle angosce. Il fumetto può essere certamente inteso come una sorta di teatro disegnato: naturalmente non si riduce a questo ma la versione a fumetti sufficientemente fedele di una pièce teatrale assomiglia alla sua messa in scena più di quanto non le assomigli il semplice copione scritto. Come in un film, si può essere maggiormente versatili con le scenografie e con le inquadrature, mantenendo lo spirito del testo originale.

Quel che riesce a trasmettere Čupová, con un tratto semplice ed efficace, che ci invita naturalmente a concentrarci sulle azioni e soprattutto sui dialoghi. «R.U.R.» ritorna viva anche per i lettori non cechi. Se ne può ricavare la consapevolezza di quanto gli sia debitrice tutta la fantascienza distopica degli ultimi cento anni, da «Metropolis» a «Blade Runner» e oltre.

(*) si tratta di dbx, docente bolognese, non di dby che sarebbe il “titolare” di codesto blog; una buffa facenda spiegata anni fa in Omonimie: Daniele Barbieri (x e y)… ma c’è chi, per fretta o per scetticismo, ancora confonde i due. E’ divertente.

 

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