Rafia Zakaria, Caroline Laurent, Hannah Arendt con…
Marco Aime e Davide Papotti, Marco Malvaldi e Samantha Bruzzone, Antonio Zamberletti
sei recensioni di Valerio Calzolaio
Notte senza fine – Antonio Zamberletti
Todaro Lugano 2023
Pag. 276 euro 16
Tre Case e Milano. Di recente. Nel novembre 1980 il piccolo Vincenzo Torres conosce Elena Pagani a Tre Case, un paese sperduto tra le montagne della Liguria, piazzato nel mezzo di una vallata. I suoi genitori vivono a Milano e tornano lì per l’agosto e qualche altra vacanza. Durante il ponte dei Santi per caso incontra lei con la famiglia, alta ed esile, capelli castani e occhi azzurri, un paio d’anni di meno, il padre idraulico del paese ormai trasferitosi a Genova. Non la dimentica più. Capita che si reincontrino ogni tanto, in gioventù si erano anche amati per un breve periodo. Quasi quarant’anni dopo lui ha aperto (dall’inizio del nuovo millennio) una piccola agenzia investigativa privata milanese, dopo più di quindici anni di polizia; lei è una brava avvocata nel capoluogo ligure con intense frequentazioni professionali lombarde. Elena lo va a trovare, ha preso la difesa del coetaneo questurino Vittorio Scafati, accusato di maltrattamenti e sospeso dal servizio; chiede aiuto a Vincenzo che lo conosce perché aveva lavorato con l’esperto padre (di origini siciliane) già nel 1985, proprio all’inizio del lavoro di pattuglia. In parallelo, il quasi 60enne Ivano Falco sta tornando in missione in patria, dopo un’adolescenza travagliata, la leva militare da paracadutista in Libano, un periodo da operaio in un’officina e poi decenni da ben pagato mercenario negli inferni delle guerre del mondo; in gioventù aveva incrociato Torres, erano divenuti fratelli di sangue dopo il periodo nel 1982, Pisa, Folgore. Si ritrovano ora dentro lo stesso pericoloso caso hard-boiled, tra amori e tradimenti, nuovi killer e vecchi banditi, ‘ndrangheta e contractor, commerci di droga e armi, corruzione e doppi giochi. Vincenzo dovrà ricominciare a sparare, Falco si accompagnerà a un guercio e una fascinosa, entrambi letali.
L’ex agente di un reparto operativo della Polizia di Stato e attuale sceneggiatore di fumetti, televisione e teatro Antonio Zamberletti (Varese, 1963) da circa venti anni scrive anche bei romanzi. Qui narra ancora in prima persona, al passato, alternando i due protagonisti Torres e Falco, prima a distanza, poi solo nella turbolenta Lombardia. Si era già fatto notare nei precedenti romanzi di genere (il primo per Dozio e Todaro nel 2004, in seguito altri due): descrizioni d’atmosfera, trame competenti, personaggi non stereotipati. La narrazione è pastosa e girovaga, il presente continuamente inframezzato dai percorsi biografici dei due maschi e dalla forza permanente dei ricordi che legano Vincenzo a Tre Case e a Elena. Il titolo è vita e metafora, quelle notti senza fine prima della caccia, che diventano inevitabilmente violenza interminabile, come quelle altre che abbiamo dentro, nel cuore, nell’anima. Forse non esistono davvero, prima o poi tutte le notti finiscono, prima o poi il sole torna a sorgere. Segnalo Ciudad Juarez, che gli americani dell’antidroga (dall’altra parte del confine) chiamano la Bestia. Gusti musicali variegati lungo quarant’anni, comunque Giornale di bordo dei Dick Dick, prima del prologo. In visita dentro un camper, Torres mangia spaghetti alla carbonara e beve un buon bicchiere di Barbera con un ex spacciatore di coca, ora predicatore: niente male anche se lui preferisce la birra.
Noi rifugiati – Hannah Arendt
Traduzione, illustrazione e cura di Donatella Di Cesare
Einaudi Torino 2022 (originale gennaio 1943)
Pag. 100 euro 12
Fuori. Da molto, per tanti. Fra loro si chiamavano “nuovi arrivati” o “immigrati”, avrebbero voluto non essere definiti “rifugiati”. Rifugiato poteva essere considerato solo chi era costretto a chiedere asilo o per le azioni compiute o per le proprie opinioni politiche, invece loro non avevano commesso alcun atto reprensibile e la maggior parte non si sognava neppure di avere opinioni radicali. Così, negli anni Quaranta del secolo scorso il termine “rifugiato” si ampliò di significato, riferito a quelli tanto sfortunati da arrivare in un altro Paese privi di mezzi, semplici immigranti di fatto che avevano perso tutto (dimora, lavoro, lingua, parenti), “una nuova specie di umani” ovvero quelli che vengono messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici, chiusi fuori dove abitavano, messi dentro (fuori dal resto) dove sono in qualche modo arrivati, da tutti comunque considerati estranei, scarti, tecnicamente apolidi per quanto sia umanamente inconcepibile sulla Terra. E con una inevitabile pericolosa disposizione alla morte, inclini al suicidio. Hannah Arendt restò apolide per diciotto anni, dopo che lo Stato nazionalsocialista le aveva tolto la cittadinanza e prima di ottenere la cittadinanza americana l’11 dicembre 1951; era fra i primi ebrei non religiosi a essere perseguitati; se qualcuno li salvò non potevano che sentirsi umiliati, se qualcuno li aiutava si sentivano degradati; fuori dalla Germania, dopo essere stati imprigionati perché erano tedeschi, non furono liberati perché erano ebrei. L’essere umano è un animale sociale e la vita non è facile quando vengono recisi i legami sociali: ben pochi individui hanno la forza di conservare la propria integrità, se il loro status sociale, politico e giuridico è del tutto indefinito. L’assimilazione stride e va comunque male: si diventa paria sociali o, all’opposto, si diventa parvenu.
Splendida operazione editoriale promossa e presieduta dalla insigne brava filosofa Donatella Di Cesare (Roma, 1956) per celebrare la straordinaria personalità di Hannah Arendt (1906 – 1975). Il breve testo We Refugees fu pubblicato per la prima volta nella rivista “The Menorah Journal”, numero del gennaio 1943 (pagine 69-77), Arendt lo scrisse in inglese (contiene espressioni in tedesco e francese), probabilmente di getto, passando dal “noi” all’io narrante, ed è stato poco o nulla valutato per decenni. Era fuggita dalla Germania nazista nel 1933 ed era perigliosamente giunta infine a New York nel maggio 1941, ottenendo la cittadinanza americana solo nel 1951, 18 anni di apolidia, dopo essere stata tedesca e continuando a essere da tutti considerata solo ebrea. Di Cesare ha curato la traduzione e le poche chiare relative note esplicative (a fondo pagina), l’efficace complete postilla biografica finale e, nella parte centrale dell’agile volumetto, un lungo intenso colto saggio di commento, Hannah Arendt e i diritti dei rifugiati, ovviamente la parte più corposa e attuale dell’intera pubblicazione. La filosofa italiana è una profonda conoscitrice della “filosofa più significativa del XX secolo” e ne ripercorre il filo del ragionamento autobiografico, riprendendo Kant, aggiornando concezioni e dati, illustrando la vita relazionale e intellettuale dell’autrice (prima della fuga, durante l’angosciante apolidia, nell’autorevole carriera universitaria), valutando il contributo filosofico di Arendt per l’insieme delle opere, giustamente convinta che il testo del 1943 mostri un’acuta capacità descrittiva dei fenomeni storici e contenga spunti di prospettiva di sapiente attualità. “Gli avvenimenti degli ultimi decenni avvalorano la profezia di Hannah Arendt: il numero dei rifugiati nel mondo è andato aumentando in maniera esponenziale. Se si aggiungono gli apolidi, i richiedenti asilo, gli sfollati interni, i migranti, il numero sale vertiginosamente… Il popolo dei rifugiati si muove mettendo inevitabilmente in questione le frontiere dell’ordine mondiale”. Da approfondire e meditare, sia Arendt che Di Cesare. Certo siamo nel campo decisivo della filosofia politica con minore attenzione all’indispensabile filosofia della scienza, qualche osservazione sull’evoluzione e sul migrare appare superficiale, senza inficiare la complessiva articolata disamina di questioni cruciali.
La molla e il cellulare. Che differenza c’è tra una scoperta e un’invenzione – Marco Malvaldi e Samantha Bruzzone
Illustrazioni di Francesca Fortino
RaffaelloCortina Milano – 2022
Pag. 162 euro 19
Noi tutti. In divenire. Una scoperta collega fenomeni apparentemente distanti e descrive in modo nuovo qualcosa che c’è già; una invenzione mette insieme oggetti esistenti per ottenere un oggetto nuovo che prima non esisteva. Sono cose differenti e, per spiegarlo, si potrebbe usare un aggeggio che molto quasi tutti quasi sempre utilizzano, il telefonino cellulare, a partire dal componente che permette di usarlo come volante di un’auto di Formula 1, come conta dei passi fisici fatti, o come racchetta da tennis virtuale: l’accelerometro. Si tratta di un complicato dispositivo elettromeccanico minuscolo (lungo pochi millimetri) per calcolare un’accelerazione, che contiene pure l’essenziale parte di cui ben si conosce il funzionamento: un piccolo peso (non più di un decimo di grammo) attaccato a quella molla che permette proprio la misurazione. La molla si allunga a seconda della forza con cui tiriamo il peso e l’accelerazione che diamo a un oggetto è la forza divisa per il peso, valutata attraverso la distanza tra due sbarrette, inserendo il tutto in un circuito elettrico. Passo passo, smontando e rimontando, rompendo e ricominciando, studiando e capendo (s’incontrano fenomeni che i nostri cinque sensi non sanno spiegare), sperimentando ed errando vedremo che ogni nuova invenzione ha creato possibilità nuove e problemi nuovi, in un gioco che non ha fine, e che anche ogni nuova scoperta porta nuove possibilità: nessuno potrà mai dire di aver risolto tutti i problemi della scienza, alcuni intanto sì. Continuate pure a usare il cellulare quando volete.
La chimica scrittrice Samantha Bruzzone (Genova, 1974) e il chimico scrittore Marco Malvaldi (Pisa, 1974) sono incidentalmente sposati da una ventina d’anni, da sempre appassionati di scienza per formazione professionale (e di gialli per deformazione professionale). Da piccoli, nessuno dei due voleva fare l’inventore, o l’ingegnere, o lo scienziato: lui avrebbe voluto essere un giocatore professionista di ping pong (gioca ancora a ottimo livello e si allena con i grandi), lei guidare i pullman (probabilmente non lo ha mai fatto). Superata la mezza età di loro vita hanno iniziato a scrivere insieme, proseguendo l’abitudine a pubblicare romanzi di genere e saggi di divulgazione intrapresa da lui (una ventina di volumi in meno di 15 anni). Così, nel 2022 sono usciti a quattro mani prima un giallo umoristico Sellerio poi questo testo scientifico Cortina (con tantissime belle illustrazioni e frequenti chiari box, utili anche a ragazzi curiosi). Nove capitoli: quello riassunto è il primo. Seguono: rompere per capire; liquidi bagnati, liquidi elettronici; la forza del fulmine; tanti atomi tutti insieme; tutto si deforma; contare con gli elettroni; un continuo scambio di energie; un gioco che non finisce mai. Scherzano sempre un po’ con noi lettori (prendendoci affettuosamente per mano) e fra di loro (rimarcando le amorevoli differenti identità nel testo o nelle note). I caratteri aiutano le spiegazioni: verdi e rossi a sottolineare le parole e i concetti chiavi, i riquadri con definizioni o personaggi citati separati dal testo, tutto sempre godibile e scorrevole.
Le rive della collera – Caroline Laurent
Traduzione dal francese di Giuseppe Giovanni Allegri
Edizioni e/o – 2023 (orig. 2020)
Pag. 347 euro 20
Arcipelago delle Chagos, una sessantina di atolli corallini e isole, tre abitate. 1967 – 2020. Per cortesia, osservate la mappa a pagina 9. Siamo nell’oceano Indiano, più o meno alla stessa lunga distanza sia da India e Sri Lanka (a nord) che da Madagascar e Mauritius (a sud-ovest). Ci troviamo su uno splendido minuscolo arcipelago di fertili terre insulari ampie 56 km², antropizzato da millenni e da secoli considerato “annesso” alle Mauritius, pure come una colonia inglese (trovandosi comunque a circa 2 mila chilometri da quell’altro grande arcipelago di oltre 2000 km², ovvero più che da Napoli sul mediterraneo Tirreno ad Amburgo sull’atlantico mar del Nord, non via terra poi, ma via mare). Mauritius è oggi una repubblica indipendente, Chagos ancora Regno Unito. Nel 1967 con poche altre migliaia di sapiens perlopiù analfabeti vi vive la carina 21enne Marie-Pierre Ladouceur, nell’agglomerato più grande a Diego Garcia. Lei ama girare arruffata a piedi nudi, pelle nera dai riflessi dorati, ha una figlia Suzanne di quattro anni, risiede nel villaggio con la madre, la sorella Josette 25enne in procinto di sposarsi con Christian accanto ai loro figli, altri parenti e concittadini chagossiani. A marzo fa scalo lì da Port-Louis (Mauritius) la Sir Jules (cinque giorni di traversata), ogni rara volta un intero regno si riversa sulle loro spiagge, cibi oggetti e altri sogni. Scende anche un bel 18enne mauriziano, longilineo ed elegante, duro e raffinato, colto e inesperto, Gabriel Neymorin. Uno sguardo e via. Lui vorrebbe fuggire in Inghilterra ma intanto lo hanno mandato lì ad aiutare l’amministratore coloniale dell’isola, ben presto nascerà un grande fertile complicato amore, proprio quando sta maturando con il referendum l’indipendenza di Mauritius e avviene la crudele scelta inglese di affittare le Chagos alla base navale militare americana (vi partiranno poi i B52 per bombardare Afghanistan e Iraq).
Caroline Laurent (1 gennaio 1988) è un’accorta editrice francese, una stimolante professoressa associata di Letteratura moderna alla Sorbona e una bravissima scrittrice. La mamma e una relativa parte della famiglia sono di origini mauriziane, “culla e rifugio fondanti”, fra gli ultimi ad aver visitato liberamente le Chagos (dove trascorsero pure uno straordinario Natale). Così la vicenda del suo secondo splendido pluripremiato romanzo le fu raccontata proprio dalla madre, “una tragedia insulare”. Il fatto che gli inglesi abbiano martoriato l’arcipelago (deportando gli abitanti e dicendolo disabitato) e venduto in questo modo della povera gente, inoltre, è terribile storia, Laurent l’ha ricostruita con ricerche e testimonianze. La narrazione alterna la voce in prima persona del figlio Joséphin di Marie (e Gabriel), brevi inserti sul suo volo verso Parigi e sul suo arrivo all’Aja per alcune udienze della Corte internazionale di giustizia del 2019 (l’autrice fu associata alla delegazione chagossiana), all’appassionato sguardo in terza persona sui due protagonisti del contrastato amore, Marie e Gabriel, dettagliatamente e liricamente descritti nei loro contesti geograficamente naturali (compreso un ciclone), storicamente culturali (compreso il bel glossario finale), relazionalmente emotivi (compresi tutti noi), con capitoli datati fra il marzo 1967 e l’agosto 1975. La motivata collera li riguarda tutti: risanare, tornare. Toccante l’immagine di copertina. Da leggere e meditare, approfondendo l’insieme dell’opera triste e vitale dell’autrice: “il meticciato è sempre troppo oppure troppo poco. Non c’è equilibrio. Non c’è ricetta, né dosaggio. Qualunque cosa tu faccia, ti considerano per quello che non sei”. Segnalo ovviamente che: non sempre le prigioni sono armate di sbarre; nel 1967 le cinque celle della prigione di Diego Garcia erano vuote; sulle Chagos furono per secoli deportati prigionieri, schiavi dal Madagascar e forse terroristi dopo l’11 settembre. La musica è del mare. Si beve di tutto, importato: rum e birra, vino rosso e whisky.
Contro il femminismo bianco. Appunti per un cambiamento radicale – Rafia Zakaria
Traduzione di Alessandra Castellazzi
Add Torino 2023 (orig. 2021)
Pag. 237 euro 18
Usa, Pakistan e non solo. Storia e cultura, moderne e contemporanee. Una femminista bianca è una persona che rifiuta di riconoscere il ruolo che la bianchezza, con il conseguente privilegio razziale, ha avuto e continua ad avere nell’universalizzare le preoccupazioni, l’agenda, le convinzioni delle femministe bianche, spacciandole per quelle di tutti i femminismi e di tutte le femministe; una persona che accetta di fatto i benefici conferiti dalla supremazia bianca a spese delle persone non bianche. Non bisogna essere bianche per essere femministe bianche ed è pure possibile essere bianche e femministe senza essere femministe bianche. Il termine descrive una serie di presupposti e comportamenti integrati nel femminismo occidentale mainstream, anziché l’identità razziale dei suoi soggetti. Per contrastare il femminismo bianco serve sia esaltare l’intersezionalità, ovvero considerare le disparità strutturali delineate lungo le linee del colore della pelle, del credo religioso, della disabilità e così via (oltre al genere) sia riconoscere spazio alle femministe non bianche (afroamericane di incarnato scuro oppure brown, in linea di massima non di incarnato scuro ovvero perlopiù originarie del subcontinente indiano e del Sudamerica), quasi sempre ignorate, cancellate o escluse dal movimento femminista. Lo scopo non è espellere le donne bianche dal femminismo, ma smantellare o recidere la bianchezza con tutti i suoi presupposti, per promuovere la libertà e l’empowerment di tutte le donne, in modo che qualsiasi donna possa diventare o continuare a definirsi femminista, qualunque siano il colore della sua pelle, la classe, la nazionalità e la religione.
La brava avvocata e giornalista musulmana Rafia Zakaria (Kharaci, Pakistan, 1977) a 17 anni acconsentì in patria a un matrimonio contrattualmente combinato, il marito era maggiore di 13 anni e lavorava come medico negli USA, sicché arrivò come una giovane sposa. Ebbero una figlia, frequentò l’università americana (come da accordo), le fu poi rifiutato di iscriversi alla facoltà di Legge ma, dopo anni di soprusi maschili e liti familiari, fuggì in un rifugio per vittime di violenza domestica e fu capace di costruirsi a fatica una vita da madre single negli anni Duemila, affermata legale a difesa di altre vittime donne e apprezzata autrice di saggi e articoli di filosofia politica. Dopo un paio di volumi di storia e cultura soprattutto sul Pakistan, ha realizzato una disamina colta del femminismo bianco con cui si è confrontata e scontrata nel paese d’adozione. Il suo punto di vista è acido ma indispensabile, prende di petto le origini coloniali e il colonialismo permanente del pensiero bianco, anche quello rivolto alla “liberazione” dal patriarcato e dal maschilismo. In otto densi capitoli, con acume e cognizione di causa riesamina le icone del femminismo mainstream, da Eve Ensler a Melinda Gates, da Simone de Beauvoir a Betty Friedan, da Kate Millett a innumerevoli eroine del cinema, della letteratura, del giornalismo per mostrarne la bianchezza; scandaglia eventi e fenomeni storici (diritto al voto delle donne, delitti d’onore, mutilazioni genitali femminili, lotta al terrorismo islamico) per mostrare la parzialità interessata dei riferimenti culturali bianchi occidentali sia maschili che femminili (per esempio il conservatorismo sessuale); ci consente di conoscere studi e riflessioni poco diffuse di femministe non bianche (come Sarojini Naidu, Kimberlé Crenshaw, Gita Sen, Audre Lorde e tante altre); sottopone a scandaglio polemico i “precetti” capitalistico-consumistici del diffuso femminismo a noi noto negli ultimi cinquant’anni, anche per come sono stati talora assecondati dall’Onu. Ben venga. Si tratta di un colto libro “contro”, vuole motivare la necessità di un “cambiamento radicale”; asprezze ed enfasi eccessive vanno meditate senza fastidio, anche quando si commette l’errore di dare per naturale la “razza” e l’identità razziale. Niente apparati o elenco finali (note a piè di pagina).
Confini – Marco Aime e Davide Papotti
Edizioni Gruppo Abele 2023
Pag. 174 euro 18
Pianeta Terra. Biodiverso da sempre. Nel momento in cui ci troviamo a definire lo spazio (umano) in cui ci troviamo, individuo sapiens e comunità vitale, siamo costretti a ritagliarlo un poco, per dargli un senso occorre chiuderlo e separarlo da qualcosa che diventa altro. Dobbiamo perciò tracciare una linea, reale o immaginaria, lineare o sinuosa, che lo delimiti: ecco il confine. Il termine, nella lingua italiana, deriva infatti dal latino cum finis, il luogo dove qualcosa finisce, che segna comunque quel punto dove le diverse identità (biologiche e geografiche) si incontrano e si riflettono l’una nell’altra. I confini forniscono uno straordinario principio di rafforzamento della realtà: contribuiscono a far sembrare più unitario ciò che circoscrivono e, allo stesso tempo, aiutano a pensare più “diverso” ciò che sta fuori. La frontiera rimanda più a una fascia di territorio non ancora compiutamente definita, in continua evoluzione, più facile alla dimensione anche mitica. Un confine può impedire il passaggio, una frontiera lo regola. Proprio la sperimentazione di Stati rinchiusi in confini chiaramente determinati segna il passaggio dal Medioevo all’età moderna: la nascita dell’idea di confine territoriale, così come la concepiamo oggi, ha così come premessa lo sviluppo della cartografia e può essere fatta risalire al 1648 e alla pace di Vestfalia, ma il concetto ha subito poi mostrato natura versatile e proteiforme, declinandosi in mille forme, assumendo mille sembianze, con un’impronta politica, giuridica, sociale, morale e anche psicologica che ha continuato a mutare nel tempo e nello spazio. Per sviscerarlo occorre muoversi a zigzag sul “confine” tra varie discipline, soprattutto geografia e antropologia culturale, seguendo un criterio (aperto) di commistione e compenetrazione.
L’antropologo Marco Aime (Torino, 1956) e il geografo Davide Papotti insegnano alle università di Genova e di Parma, hanno scritto separatamente molti interessanti testi scientifici e divulgativi, escono ora insieme con un bel saggio sui confini, ricco e documentato. Dopo l’introduzione congiunta, hanno deciso di articolarlo in diciotto capitoli (equamente divisi, più o meno), partendo dalle molteplici forme e funzioni, senza pretesa di esaustività, e proponendo quindi le principali tipologie, da quelle geografiche e territoriali a quelle culturali e politiche, con opportune autorevoli citazioni di bibliografia ed esempi, istruttivi e curiosi. I titoli delle specificazioni del confine sono indicativi: del colore; nella cartografia; culturale; simbolico; a tavola; la relativa archeologia; come meta turistica; tra gli umani; religioso; generazionale; di classe; tra noi e la natura; di genere (e coi generi di confine); linguistico; nella rappresentazione artistica; nel raccontare. La conclusione è interrogativa: assenza di confini? Sicuramente il mondo dell’antica preistoria dell’umanità era un mondo potenzialmente senza confini (perlomeno senza contare gli elementi naturali che, in determinate condizioni fisico-climatiche, potevano divenire ostacoli alla mobilità umana). Man mano che le strutture sociali si sono rese più complesse (proprio a partire da quella soglia di avvio della sedentarietà delle comunità umane, avvenuta in concomitanza con la prima rivoluzione agricola, circa dodicimila anni fa) la proliferazione di confini di diverso tipo e natura ha cominciato a trasformare il pianeta. Sicché una totale assenza di confini creerebbe non pochi problemi: il confine è un’idea così perfetta che tende a costituirsi come tipologia ideale, come archetipo dell’immaginario. E qui si dovrebbe sviluppare la questione implicita, visto che la storia del confine si confonde con la storia del migrare, ovvero di spostarsi oltre quel confine, emigrare e immigrare (con connessi diritto di restare e gradi di libertà di migrare). Ma le migrazioni (non solo umane) e alcuni tipi di nicchie e di confini (pure biologici) esistevano anche prima della lenta contraddittoria conflittuale svolta stanziale agricola: bisognerà approfondire insieme l’evolutiva persistente continuità e contiguità di migrazioni e di confini.