Rami d’ORA (Orobie Residenze Artistiche) 2024 – Entrare nel bosco
susanna sinigaglia
Rami d’ORA (Orobie Residenze Artistiche) 2024
IV edizione
Entrare nel bosco
La rassegna prevedeva il contributo di diversi comuni – Sondrio, Tirano, Morbegno – oltre a quello di Piateda nella cui frazione di Castellaccio ha la sua sede Rami d’Ora.
La mia partecipazione al festival di arti performative – laboratori ed esperienze varie tra le Orobie valtellinesi – non è iniziata nel migliore dei modi. Disguidi di Trenord all’andata, innanzitutto, mi hanno impedito di arrivare in tempo a Sondrio per vedere la prima performance che avevo scelto, You, elsewhere, progetto di Francesca Siracusa per il collettivo Laagam, che si sarebbe rappresentata proprio a Castellaccio. Inoltre per mia distrazione ho perso anche Atmosferologia. Veduta > Tirano di Mk.
Arrivata un po’ in ritardo all’appuntamento, avevo visto la coda del gruppo sparire nella boscaglia mentre un ragazzo dello staff mi allungava le cuffie per l’ascolto di un testo che avrebbe accompagnato l’esperienza. Mi ero dunque diretta verso quello che mi era sembrato l’unico sentiero possibile ma, dopo aver percorso parecchi metri in salita, ancora non incontravo nessuno. Sempre più incerta sul da farsi, con la voce che dalle cuffie mi sussurrava nelle orecchie parole per me senza senso, sono arrivata a un punto cieco: il sentiero si perdeva informe nel fogliame. Così ho capito che ero andata in una direzione sbagliata e me ne sono tornata alla base con la classica coda fra le gambe. In compenso ho potuto visitare la chiesetta del XII secolo – Santa Perpetua di Tirano – che si trova proprio nel luogo scelto come base per lo svolgimento della performance.
Da lì ho poi raggiunto la piazzetta dove si rappresentava One One One di Ioannis Mandafounis davanti a Palazzo Salis[1].
Finalmente ho assistito a una performance, l’improvvisazione di due danzatori (una ragazza e un ragazzo) che si creava attraverso un gioco di sguardi fra loro e due volontari del pubblico, invitati a sedersi a turno su due sedie poste sul limitare della piazza.
Il gioco di sguardi creava impulsi che si traducevano in altrettanti movimenti di danza.
Se ne sorgeva il desiderio, chi sedeva sulla sedia poteva unirsi al performer di riferimento e danzare insieme in sintonia. A me è capitato di vivere questa esperienza ed è stata divertente e interessante. Ancora una volta, ho potuto riscontrare la differenza fra guardare una scena da spettatrice ed entrarvi da interprete; come spesso accade, il fare conduce nel cuore delle cose che allora assumono un significato più autentico e immediato.
A quel punto, avevo deciso di tornare a Milano malgrado alcuni dello staff mi avessero invitato a restare. Purtroppo non ho potuto accettare per impegni a Milano e il viaggio di ritorno, sempre per disguidi di Trenord, è stato un altro, e peggiore, piccolo incubo. Per tornare a casa da Tirano, ci sono volute quattro ore!!!
Nonostante questa infelice esperienza sono tornata in Valtellina, questa volta fermandomi col treno a Sondrio, per partecipare a un laboratorio di “movimento minimo” della durata di due giorni, condotto da Giovanni Campo, che si sarebbe svolto proprio a Castellaccio nella casa-sede del festival.
Castellaccio è una frazione di Piateda composta da due case circondate da prato e bosco: oltre a quella che funge da sede del festival, e luogo di accoglienza, c’è la casa che ospita gli artisti in occasione del loro passaggio.
Il movimento minimo è una disciplina di recente formazione e in fase evolutiva. È uno sviluppo di dottrine/pratiche orientali – fra cui lo yoga inevitabilmente – e si basa sull’esigenza di scoprire l’essenziale, di togliere rappresentazione, intenzione esibita del gesto per trovarne la forma interiore prima che visibile; sentirne l’impulso necessario.
Il laboratorio si svolgeva al primo piano della casa-sede del festival, all’interno di un locale tutto in legno adibito a palestra. Seduti a terra in cerchio, i partecipanti sono stati invitati a presentarsi. Poi Giovanni ci ha assegnato il primo esercizio: trovare il modo, da distesi sul pavimento, di raggiungere la posizione seduta senza rispondere come di solito al comando mentale: tempo assegnato, venti minuti.
Il secondo esercizio consisteva nel “sentirsi appassire”; ovvero, non imitare la pianta o il fiore che appassisce, ma sentir appassire il proprio io, per esempio, col ritrarsi progressivo in se stessi quasi per autoannullarsi: tempo assegnato, quindici minuti. Da notare che eravamo divisi in due gruppi e che, mentre un gruppo eseguiva l’esercizio, i partecipanti dell’altro restavano in disparte a osservare, o anche a distrarsi se avessero voluto. Durante queste due posture diverse, ho notato in particolare come si modificasse la mia percezione del tempo, il cui intervallo di venti o quindici minuti era contrassegnato all’inizio e alla fine dal suono prodotto dalla percussione di un martelletto di metallo. Quando era il mio gruppo a svolgere l’esercizio, il tempo mi sembrava troppo breve; quando invece toccava all’altro gruppo, mi sembrava troppo lungo.
Così in due mosse, siamo entrati nel cuore del movimento minimo.
Questo succedeva il pomeriggio-sera del primo giorno.
La mattina dopo ci attendeva una splendida giornata di sole. Dopo la colazione, ci siamo ritrovati nel prato circostante su una pedana di legno per qualche esercizio di riscaldamento. Poi ci siamo inoltrati nel bosco. Il primo esercizio consisteva nel trovare un punto fra gli alberi e le foglie del sottobosco facendolo proprio, tendendo l’orecchio e i sensi per cogliere i più piccoli rumori, le sensazioni prodotte dalla luce filtrante sul viso, sulla pelle; suscitate dalla leggera brezza del mattino.
Il secondo esercizio era ancora più specifico: entrare in sintonia con un elemento del bosco quasi avviando un dialogo.
Alla fine dell’esercizio, due persone non avevano colto nel segno e si erano discostate dalle indicazioni di Giovanni. E una ero proprio io. Avevo deciso dall’inizio di andare a sedermi con la schiena appoggiata al tronco di un albero per cercare la comunicazione con la pianta, ma era stata questa ferma intenzione iniziale a indurmi in errore. Perciò, non era successo quasi niente di rilevante. L’errore mi ha insegnato tuttavia, nel terzo esercizio, a svuotare progressivamente la mente e a tendere l’orecchio, guardare semplicemente quanto mi circondava: ne sono stata accolta.
Questa breve esperienza è stata preziosa perché ora riesco più facilmente a pormi in posizione di ascolto nelle situazioni poco gradevoli, a superare la frustrazione e il disappunto cercando più pazientemente le ragioni dell’altro. Non sempre mi è possibile, ma anche quelle poche volte mi aprono una strada che so percorribile, dandomi speranza.
Un parco selvatico è un luogo ideale per dedicarsi allo studio del gesto minimo.
Accostare alle vite di esseri che crepitano, vibrano e stormiscono,
l’interesse per il poco e la scoperta di ciò che si rivela quando tutto nel corpo si ferma e si fa silenzio,
è certamente un’esperienza sorprendente e commovente.
Venite, se cercate una solitudine operosa e lieta.
Venite, se desiderate diminuire, se potete attendere che qualcosa si levi e si compia.
Venite, se desiderate incontrare il selvatico.
Se desiderate incontrare voi stessi.
Giovanni Campo
[1] Per saperne di più sul sito d’interesse storico-architettonico, vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_Salis_(Tirano).