Regalo di anti-Natale: racconti controcorrente/2

dicono in giro che sia Natale ma in “bottega” noi amiamo poco le religioni organizzate e il consumismo perciò preferiamo festeggiare il solstizio d’inverno. Eccovi due racconti di Riana Rocchetta e di Mark Adin (cioè Marco Peressi che è “volato” via troppo presto), la segnalazione di un libro di Michael Curtin e un racconto di Paul Auster, in un film per fumatori, con musica di Tom Waits. Ma se fra voi qualcuna/o vuole linkarci altre storie… perchè no?

L’immagine è ispirata a un certo (vecchio) film di un certo “cattivo” regista. Chi è troppo giovane per sapere… chieda in giro. Noi, per dispetto, non vi diremo neppure che SK erano le iniziali di quel tal geniaccio.

?

 

Santa & C – Riana Rocchetta

«Plin», disse il telefono.

Martina girò un poco la testa, senza staccare la fronte dal vetro freddo della finestra. Sul tavolo alle sue spalle il cellulare brillò di luce azzurra.

Sospirò appannando il vetro e tornò a guardare fuori.

Il pioppeto le era sempre piaciuto. In estate soprattutto. La geometria dei tronchi a interrompere l’orizzonte piatto, i rami pieni di verde, il cinguettio degli uccelli nell’aria limpida offrivano ai suoi sensi una idea di tregua e di riposo.

Ora, a dicembre, la vista era spettrale. Tutte quelle ombre nere, alte e diritte come lance venivano inghiottite poco a poco da una coltre di ovatta giallastra, che lasciava appena intuire un pallido sole invernale.

Erano le due del pomeriggio e la nebbia stava scendendo dalle cime degli alberi. Il paesaggio alieno sembrava galleggiare in un fumo acido, freddo e opaco. In altri momenti Martina ne avrebbe colto un certo fascino decadente ma era distratta, con la mente troppo impegnata in calcoli e progetti per farsi acchiappare da pensieri romantici.

«Plin!» disse di nuovo il telefono e a quel punto Martina staccò la fronte dal vetro con un altro sospiro.

Entro un paio di ore, forse anche meno, con quel nebbione che stava calando, sarebbe partita per andare al lavoro.

A lato della porta finestra lampeggiavano intermittenti le lucine colorate dell’albero di Natale che lei e sua madre avevano addobbato alcuni giorni prima. Appeso al muro, metà nascosto da una palla di plastica rossa stava incorniciato, da più di un anno, il suo diploma di laurea in filosofia. Mamma ne andava orgogliosa.

«Bell’affare», disse a voce alta sfiorandolo con lo sguardo.

Per fortuna c’era altro.

Ancora un paio di settimane e sarebbe tornata a Berlino.

Era partita con Angela all’inizio dell’estate. Senza crederci del tutto, dopo mesi passati a parlarne erano andate per davvero e avevano scoperto che bastava poco per ricominciamo daccapo.

In questo posto non si ferma nessun treno. Si sale e si scende in corsa, mi piace, aveva concluso dopo un paio di settimane, con un lavoro da cameriera, un corso di design di moda appena iniziato e la prospettiva di una nuova lingua, di nuovi amici.

Tutto andava a gonfie vele quando le era arrivata la notizia della morte di suo padre. Non tanto inaspettata. Era ammalato da tempo e non ne rimase sorpresa. Non se la sentiva di lasciare sola la mamma ed era ritornata a casa, per starle vicino in quel momento così grave. Adesso erano passati tre mesi, sua madre stava meglio e dopo tanti anni di dolore e di fatica il suo viso si era quasi rasserenato. Ricominciava a uscire, ritrovava vecchie amicizie e quella sera era invitata a casa di sua sorella per il cenone della vigilia.

Martina pensò con sgomento alle cene fra parenti e alle feste in famiglia, tutte cose che in quel momento le stavano strette. Quasi era contenta di dover lavorare la notte di Natale.

Contenta si fa per dire. Cento euro più le mance, se ce ne fossero state. Un compenso miserabile per preparare la sala e servire ai tavoli del ristorante “Gianò”, specialità anguilla, tutta la notte, per un numero di ore ancora da definire.

Ma era al verde. Anche quei pochi soldi le sarebbero serviti per partire di nuovo.

Prese in mano il cellulare, aprì la casella di posta e cancellò un messaggio pubblicitario. C’era anche una mail appena arrivata da una certa “International Agency Recruitement”. Il nome non le diceva niente.

La aprì.

Lesse veloce le poche righe: “Una importante compagnia si è rivelata interessata al suo profilo professionale. Le alleghiamo i termini del contratto che potrà discutere direttamente con il referente aziendale.”

Aprì l’allegato. Anche lì non c’era scritto molto ma il contenuto era parecchio strano: “Lei è stata selezionata fra molti candidati in quanto esperta nella gestione di eventi. Le offriamo un lavoro a contratto per la notte del ventiquattro dicembre. Compenso netto forfettario cinquemila euro.”

«Cazzo!» Martina scoppiò a ridere e si chiese quale dei suoi amici drogati di computer poteva aver ideato e messo in opera lo scherzo.

La mail comunque continuava: “Se accetta l’incarico c’è un’auto che l’aspetta in strada. I suoi bagagli sono già in macchina.”

Ah! Il gioco si va complicando, pensò. Vediamo chi tenta l’approccio.

Sempre ridendo, si spostò verso la cucina, dalla parte opposta della casa, dove la finestra dava sulla strada. Scostò la tendina.

In effetti, parcheggiata in strada, fuori dal cancelletto condominiale c’era un’auto. Ma non un’auto di quelle che guidavano i suoi amici, quasi tutte di piccola o media cilindrata e spesso di seconda mano.

Nera, un po’ annebbiata ma inconfondibile, parcheggiata accanto al marciapiede, proprio sotto casa di sua madre c’era una Limousine. Guardò il telefono, che teneva ancora in mano e, confusa, rilesse la mail.

Il mittente le ricordava qualcosa. Le si illuminò la memoria. Ecco: una sera a Berlino, ubriaca di chiacchiere, di risate e di birra si era divertita con Angela a spedire in giro per il mondo curriculum falsi e improbabili.

Avevano compilato test attitudinali in grande allegria raccontando balle a non finire e, fra le altre cose, si era spacciata per esperta organizzatrice di eventi.

«E cosa ci vuole?» aveva esclamato.

Non aveva forse gestito la tombola di capodanno della sua famiglia dai dieci ai diciotto anni? Poteva essere una di quelle agenzie a scriverle? Perché no? In ogni caso la proposta allegata era priva di senso. Decisa comunque a scoprire l’autore del costoso gioco infilò il piumino e scese a piedi le due rampe di scale, usci dalla porta e sgusciò attraverso il cancelletto semichiuso.

L’autista scese dal posto di guida fece il giro dell’auto e le porse la mano con un sorriso.

La divisa dell’uomo era impeccabile.

«Buongiorno Martina, io sono Gabriel, il tuo autista. Sono incaricato di portarti a Milano, all’aeroporto, ma abbiamo pochissimo tempo, il tuo volo per Helsinky parte alle diciotto e dieci. Dobbiamo fare in fretta. I tuoi bagagli sono già in macchina.»

Per prima cosa Martina fu colpita dalla bellezza dell’uomo. Trent’anni o giù di lì, ma un’aria ancora da ragazzino discolo. Alto, disinvolto, capelli dorati, folti e mossi, un po’ lunghi per un autista. E gli occhi? Due zaffiri luminosi come un cielo sereno che la squadravano con maliziosa curiosità.

In un’altra situazione se ne sarebbe innamorata subito. Forse si innamorò lo stesso.

Questo primo pensiero lasciò il posto a un ricordo, meglio a un rigurgito della sua infanzia che le paralizzò le gambe e la lingua. La dottrina, la Madonna, i santi apostoli, gli angeli e gli arcangeli…

E saltò alla inevitabile conclusione.

Sono morta. Mi è venuto a prendere l’arcangelo Gabriele in persona. Allora c’è vita dopo la morte. Non l’avrei mai detto. Ma perché tutta questa messa in scena? Faranno così con tutti quelli che muoiono? Ma quanti arcangeli Gabriele ci sono? Sono tutti così belli? Questo indora la pillola e poi chissà cosa succede. Ma tanto, se sono già morta, che mi frega?

«Martina», l’arcangelo Gabriele la destò dalla paralisi, «devi decidere in fretta.»

Più confusa che mai Martina si guardò intorno in cerca di conferme a quanto le stava accadendo. Ma la strada era deserta.

«E se non volessi venire?» la voce le uscì impastata.

«Liberissima di decidere come meglio credi. Se è un sì, però, hai solo venti minuti. Anzi», scostò un polsino della giacca lasciando intravedere il Rolex d’oro, «ne restano diciannove.»

Martina ebbe un brivido.

Sento freddo perché ho il piumino slacciato, pensò e cominciò a giocherellare con la chiusura senza capire come funzionava. Si guardò i piedi: era scesa talmente in fretta che indossava ancora un paio di pantofole con la faccia da panda, rimaste in casa di sua madre dal tempo dei tempi. Si vide in divisa da cameriera. D’altro canto lei stava andando a lavorare: gonna nera, camicetta bianca, le mancavano solo il grembiulino e la crestina. Strinse a se il piumino slacciato e guardò di nuovo l’autista.

Era tutto impossibile. Ma stava accadendo.

«Abbiamo solamente tre ore di tempo… allora, cosa fai?» Gabriel sorrise con centomila denti bianchi e un lampo negli occhi.

Calmati calmati calmati, pensava Martina con il cuore a mille.

Aveva ancora il cellulare in mano e senti l’assoluta necessità di parlare con Angela. La sua amica, che in quel momento era a Berlino e non aspettava i treni ma li prendeva in corsa.

Sì, Angela le avrebbe suggerito cosa fare.

Rispondi, ti prego rispondi…

Alla fine si presentò la segreteria. Parlò dopo il bip, un piede che rimbalzava nervoso per terra e un occhio a quel fico con la divisa impeccabile da autista.

«Angela, sono morta.» esordì. «C’è qui l’arcangelo Gabriele che mi è venuto a prendere. No, scusa, credo di essere morta ma non so come fare a controllare. Cazzo, non so quello che dico. Non so cosa sta succedendo. Cinquemila euro per organizzare un evento. Una notte di lavoro. Oddio come suona male. Ma scusa, chi vuoi che paghi cinquemila euro magari per ammazzarmi o per violentarmi? Il mondo è pieno di gente da ammazzare o peggio… No, peggio no, comunque c’è tanta gente da ammazzare gratis. Senti, io prendo un treno, l’autista è un fico della Madonna… magari conoscerò anche lei, la Madonna intendo. Sto farneticando, mi rendo conto. Ti lascio questo numero di targa nel caso sparissi.»

Mise una mano davanti alla bocca, come fanno i politici per non farsi leggere le labbra e aveva giusto detto le prime due cifre che la segreteria si interruppe.

Cosa le avrebbe suggerito Angela?

«Vai. Si vive…» e si muore, aggiunse lei, «una volta sola.»

Hai visto mai cinquemila euro tutti in una volta? Per una sera, poi? Poteva mai essere peggio che da Gianò? Difficile.

Questa ultima considerazione le diede la spinta definitiva a partecipare al gioco, qualunque esso fosse.

«Cosa devo portare?» Si schiarì la voce mentre cercava di ricomporsi. Le venne in mente sua madre. Povera donna. Due lutti in così poco tempo.

«A quanto pare hai deciso. Bene.» Gabriel le rivolse l’ennesimo sorrisetto malizioso. «Ti basta il passaporto, sbrigati o perderai l’aereo. Quello che ti servirà è già in auto.» Aprì lo sportello posteriore, per mostrarle due grosse valige, di un marchio famoso, che Martina non avrebbe potuto permettersi nemmeno con un mutuo.

«Credimi, sarà più che sufficiente, per un giorno solo.»

Ah, ricominciamo con la storia del lavoro. Tutte queste lusinghe. E se fosse il diavolo travestito da arcangelo?

Risalì i gradini a due a due.

Magari mi cambio anche le scarpe.

Poi approfittò per mettersi un paio di jeans e un maglione al posto della divisa, e fece anche una capatina in bagno per sistemarsi i capelli.

Martina non si era mai vista bella, si considerava una ragazza qualunque. Troppo piccola, troppo magra: un topolino. I capelli: una matassa rosso fuoco sulla testa erano il suo punto forte. L’avrebbero accolta in paradiso, con quei capelli? Le sue qualità, come la velocità di pensiero, la simpatia, la forza d’animo erano cose che non si vedevano alla prima occhiata. Sapeva che, in certe situazioni, lei era bella. Di certo non in quel momento. Le orecchie si erano arrese a un afflusso di sangue supplementare e facevano paio con il rosso dei capelli, lasciati in disordine in attesa della cuffietta da cameriera.

«Per essere morta» constatò, «ho un aspetto piuttosto sano. Rubizzo, addirittura.»

Decise, all’ultimo momento, di tenere le pantofole con la faccia di panda.

Ecco Cenerentola che se ne va col principe.

Chiuse la porta alle sue spalle, col passaporto stretto in mano insieme alla borsa e al telefono, il piumino ancora slacciato e le pantofole ai piedi.

Gabriel le teneva aperta la portiera e lei si sedette, con il cuore in tumulto, accanto al set di valigie nuove mentre la macchina partiva silenziosa e il paese si dissolveva nella nebbia alle sue spalle.

Vide sfilare le ultime case, poi grigio e ancora grigio, poi vide le luci sfocate del ristorante Gianò, specialità anguille, dove l’avrebbero attesa inutilmente.

«Fanculo» gli augurò mentre passavano oltre.

Trascorse quasi un’ora con le mani irrigidite nelle tasche, lo sguardo fisso e un principio di paranoia.

Ma poi, dato che era nella sua natura adattarsi alle situazioni impreviste pian piano cominciò a rilassarsi, tanto da dedicare un’occhiata al contenuto di quelli che Gabriel aveva dichiarato essere i suoi bagagli.

«Posso aprire le valigie?»

«Certo, sono tue.»

Fece scattare una chiusura. Nella penombra della macchina la morbidezza del cachemire le si avvolse alle mani. Estrasse un maglione, non si distingueva bene il colore, era chiaro, di un lusso discreto. E poi, un altro maglione e pantaloni di lana finissima e alcuni completi di intimo da far arrossire il suo reggiseno. Nell’altra valigia trovò un piumino. Il suo, al confronto, sembrava di cartone. C’erano anche un paio di stivali di camoscio foderati di pelliccia. Tutto perfetto per le sue misure. Ma come diavolo avevano fatto?

Si va in paradiso coi vestiti nuovi, pensò.

Il paradiso lo aveva sempre immaginato come un posto freddo. Se glielo avessero domandato un’ora prima avrebbe detto che preferiva il caldo dell’inferno, ma ora, con quel corredo e quella compagnia, non ne era più certa.

Si stava abituando a tutte quelle assurdità. Le rapide occhiate che Gabriel le lanciava dallo specchietto retrovisore le facevano quasi dimenticare che da qualche parte doveva esserci, per forza, la fregatura.

Alla fine, dal momento che tutto quel pensare non la portava a niente, si arrese. Tolse le pantofole e le ripose in un angolo della valigia. Un vetro scuro salì a nasconderla agli occhi dell’autista mentre si cambiava. Indossò i calzoni di lana morbida e un maglione che pareva verde chiaro e si intonava al colore dei suoi capelli. Da ultimo infilò gli stivali.

Quando fu pronta batté con le nocche sul vetro divisorio e, quando questo scomparve, chiese a Gabriel dove la stava portando.

L’arcangelo sbuffò un poco.

«Ma non hai letto la mail?»

«Un po’ in fretta.» si giustificò. Ricordava solo i cinquemila euro.

A mente fredda e prendendo la faccenda per buona una cifra del genere, lei, non la valeva. Non la valeva il suo corpo e non la valeva la sua testa. Anche eccedendo in autostima. Ma non era il tipo che si tirava indietro, una volta presa la decisione.

L’unica è stare a vedere come va a finire. Don’t panic.

Accese il telefono e rilesse la mail. Il mittente le era sconosciuto, ovvio. Faceva parte della notte dei curriculum selvaggi. Si dedicò all’allegato. L’intestazione era di una ditta mai sentita: Santa & C. Sede in Svizzera.

«Hai detto che andiamo a Helsinky, qui c’è un indirizzo svizzero.»

«In Svizzera ci stanno i soldi» il tono sufficiente di Gabriel, come se la considerasse tonta, la irritò un poco. «La sede operativa è in Finlandia. E non andiamo insieme. Tu vai. Io ti accompagno fino a Milano. A Helsinky prenderai la coincidenza per Rowaniemi. Ci sarà qualcuno a prenderti quando arrivi.»

Martina distolse gli occhi dallo specchietto, non voleva che lui vi leggesse l’ombra di delusione che li attraversava.

Così tu non vieni. E io vado da sola non so dove come esperta in gestione di eventi. Ma che esperienza ho, al di là di quel cavolo che ho scritto? Vediamo… la tombola di capodanno. Un bel precedente. Ah sì, animazione con i bambini nel campo estivo del paese. Cinque estati. Dio! Mi farò svergognare e mi butteranno fuori… Speriamo che mi lascino i vestiti nuovi.

A parte un lieve mal di testa si sentiva bene.

In aeroporto Gabriel la guidò sicuro prima al check-in e poi al controllo di sicurezza, dove la salutò stringendole la mano. La mano era calda, delicata e forte insieme, le dita affusolate, le unghie perfette. Una gran bella mano. Adeguata.

«Auguri!» le disse.

Martina colse una lieve ironia nel tono, ma gli occhi dell’arcangelo erano luminosi e sembravano sinceri.

«Grazie», rispose in automatico.

«A presto», disse ancora lui.

«Sì, a presto», ripeté Martina, a corto di parole per via del sangue che le era affluito alle guance.

Cristo! Non diventavo rossa dai tempi del liceo.

 

In aereo consultò Google e capì, o credette di capire, dove stava andando. Imparò che a “Rowanemi”, in Lapponia, c’è la residenza ufficiale di Babbo Natale. Ergo era stata assunta dall’Holiday Village Gulo Gulo, che, tradotto, vuol dire “simpatico ghiottone”. Lesse tutto quello che poteva sull’argomento. C’erano centinaia di siti che parlavano della faccenda ma non riuscì a venire a capo di Santa & C. Niente di niente. Sul volo per Rowaniemi le si fiaccò la fantasia a furia di formulare ipotesi.

Saranno molto ricchi se si possono permettere certi stipendi, concluse e si addormentò di colpo.

Sognò Gabriel, vestito da Babbo Natale, che fuggiva con una valigia piena di soldi su una macchina con targa svizzera mentre lei, vestita da cameriera, rimaneva chiusa nel caveau della banca che avevano appena svaligiato. Una ragazza bionda e sorridente infilò la testa dentro il sogno.

«Signorina… Signorina si svegli. Siamo quasi arrivati.»

Recuperò i bagagli, ancora stordita e seguì l’uomo che aveva un cartello con il suo nome attraverso il piccolo aeroporto, verso un’uscita. Un’altra persona l’attendeva.

«Ciao Martina! Io sono Stekkjastaur, ma se ti viene scomodo puoi chiamarmi Uno.»

Fu stupita di sentirsi apostrofare in italiano e dovette abbassare lo sguardo perché l’uomo che aveva parlato era alto meno di un metro. Non era neppure un uomo, era un ragazzino. Travestito da elfo, molto convincente. Aveva anche le orecchie a punta, grandi e lunghe, che spuntavano di sotto un buffo cappello di feltro verde.

Il ragazzino la squadrò per bene.

«Sembri molto più giovane della tua età», le disse.

«Grazie.»

Lui continuò a fissarla.

«Sei anche parecchio più bruttina della foto che hai mandato» concluse ridacchiando. «Ma questo va tutto a tuo vantaggio.»

Piccolo impertinente pensò Martina. La foto l’aveva ritoccata con Photoshop, quindi non disse nulla.

Con forza inaspettata Uno caricò le valigie su un veicolo per i bagagli e guidò fino a un campo innevato e deserto, ai margini dell’aeroporto. Una slitta trainata da quattro coppie di magnifici cani li attendeva. Il ragazzino trasferì le valigie e l’aiutò ad avvolgersi in un mantello di pelliccia.

Poi si sedette a sua volta, prese in mano le redini, fece uno schiocco con la lingua e partirono.

Che organizzazione pensò Martina, scacciando per l’ennesima volta il pensiero di una prossima, quasi certa, brutta fine.

Le sembrò di nuovo di sognare. Stavano volando, a pochi metri da terra. La neve rispecchiava la luce della luna piena nel deserto bianco di uno scenario irreale.

Con la testa immersa dentro una culla di pelo caldo, lasciò solo gli occhi a sfidare il gelo. Le era impossibile perdere anche una sola goccia di quella meraviglia.

«Ehi! Miss…» Il ragazzino infilò la bocca nel cappuccio di Martina e le gridò nell’orecchio per superare il sibilo del vento. «Ci siamo. È laggiù.»

Martina strinse gli occhi. Attraverso il bordo della pelliccia, in effetti, vide una lucina piccola piccola, gialla come un limone venire loro incontro. Ma dov’era Rowaniemi?

Mano a mano che la luce si avvicinava vide comparire una casetta, sola in mezzo al nulla.

Non può essere. Una casa in mezzo al polo nord, io e questo… coso…

Non trovò una parola adatta per definirlo.

Certo che piccolo è piccolo, forse sono più forte io. Ma forse dentro ci sono altri sei nani pronti a squartarmi. Merda.

La casa era proprio piccola, una casina da fiaba, tutta di legno con una porta a vetri e due finestrelle chiuse da persiane. Sul lato destro c’era un recinto da dove la scrutavano, ruminando, un paio di renne, e, parcheggiata lì accanto, a pochi metri, c’era la slitta di Babbo Natale. Come quella dei film: rossa, con le decorazioni d’oro pronta per essere presa d’assalto dai bambini l’indomani.

«Ma dov’è il resto del villaggio?» chiese Martina.

«Quale villaggio?»

«Rowaniemi, il villaggio. L’albergo, il ristorante, i residence e tutto il resto… dove sono?»

«Ah, il villaggio per i turisti. È laggiù.» Uno indicò il nulla.

«Ma allora qui dove siamo?»

«A casa di Babbo Natale. Quello vero.»

Il nanerottolo aprì la porta e la spinse con delicatezza dentro la casetta.

 

Il cambio si dimensioni fu impressionante. La stanza era enorme.

Martina si sorprese di non essere troppo sorpresa; stava sviluppando una sorta di immunità alle stranezze.

All’interno il caos regnava sovrano.

Riconobbe le immagini del film “Mamma ho perso l’aereo” su uno schermo enorme appeso sulla parete di fronte. Lo stesso film era proiettato su un altro monitor più piccolo, di lato al primo, ma gli audio erano in due lingue diverse e anche le immagini erano fuori sincrono. Da qualche parte arrivava una musichetta a tema natalizio che tentava di sovrapporsi al volume dei televisori. La voce di un coro stonato cantava “Gingle bells” dietro un divano, di fronte a un grande focolare.

Un numero imprecisato di bimbetti vestiti da elfi, stravaccati su poltrone sparse ovunque erano intenti a lanciarsi l’un l’altro palloncini e oggetti vari.

Al suo ingresso tutti alzarono lo sguardo su di lei senza smettere di parlare, ridere e giocare.

«Benvenuta», disse qualcuno.

«Era ora», disse qualcun altro.

«Ma…» Martina si rivolse a elfo Uno, gridando per sovrastare il rumore, «se questa è la casa del vero Babbo Natale, voi siete…»

Lasciò in sospeso.

«Gli elfi, non lo avevi ancora capito?» Uno si gonfiò d’orgoglio e crebbe di un paio di centimetri.

Martina aveva mille domande in gola, ma il caos le impediva di concentrarsi, e fece l’unica cosa che si può fare in presenza di un branco di ragazzini scalmanati.

«Basta!» gridò. «Fate silenzio! Spegnete quei dannati televisori e spiegatemi cosa cavolo ci faccio qui.»

Ogni rumore si placò all’istante.

«Che caratterino», disse una voce.

«Hai visto che era quella giusta?» saltò su un elfo stringendo fra le mani la palla che aveva appena ricevuto.

«Non si tengono gli stivali bagnati in casa.»

Elfo Uno le stava indicando i piedi. Martina, educata, tolse gli stivali ancora innevati e li mise accanto alla porta. Le venne offerto un paio di grossi calzettoni di lana e li indossò. Il pavimento di legno era caldo e confortevole.

Ora gli elfi la stavano osservando in silenzio.

«Uno, per favore, spiegami che cosa ci faccio io qui.»

«Tutto», le rispose l’elfo con semplicità.

«Cosa vuol dire tutto?»

«Tutto quel che c’è da fare.»

Martina capì che in quel modo non sarebbe arrivata da nessuna parte. Si guardò intorno e si avviò verso una panca, a lato di un lungo tavolo, si sedette, e fece sedere Uno di fronte a lei.

«Raccontami questo tutto, per favore. Comincia dall’inizio.»

«Jennifer è andata via, sua figlia ha avuto un parto prematuro e adesso la bambina è dentro a una una…»

«Incubatrice?»

«Si, ecco, e allora Jennifer è andata a Londra per starle vicino e ha chiesto le ferie ma Santa ha detto: “Eh no, non sotto Natale.” e allora lei si è messa in malattia.»

«Chi è Jennifer?» chiese Martina, paziente.

«La segretaria, quella che fa tutto. Che ci dice quali giocattoli dobbiamo preparare, che si occupa del magazzino. Poi legge le letterine dei bambini e fa le etichette con la destinazione dei regali. Poi a mezzanotte viene Santa e parte con la slitta. Ecco.»

Martina trasse di tasca il telefono.

«Immagino che questo tutto sia proprio poco; manca mezz’ora a mezzanotte.»

«Ehm… a dir la verità no», tossicchiò l’elfo. «Jennifer è andata via una settimana fa e tutto è rimasto così. Più che altro il magazzino è un po’ sottosopra.»

«Perché avete chiamato un sostituto solo adesso, così tardi?»

«Jennifer aveva lasciato il nome sulla scrivania ma Rudoph ha mangiato il foglio e allora Omi…»

Un faccino sorridente spuntò di sotto il tavolo.

«Ciao. Io sono Omi, elfo Ventisei.»

«Ciao Omi», salutò Uno e proseguì «…e allora Omi ha dovuto scegliere qualcun altro fra i curriculum dei candidati.»

«E perché ha scelto me?» era arrivata alla domanda delle domande.

«Beh, eri la più vecchia, quindi la più esperta di tutti.»

«E quanti anni dovrei avere, Omi?»

«Duecentoventiquattro. Sta sulla tua scheda.»

Un due ripetuto a consacrarla bicentenaria emerse mezzo affogato in un bicchiere di birra. Si trattenne dal ridere. Solo un gruppo di elfi minorenni ancora ingenui poteva bersi una balla del genere. Ma a quel punto…

«Cosa vi aspettate che faccia?»

«Tu devi decidere. Noi non abbiamo iniziativa, ma possiamo eseguire tutti i tuoi ordini.»

«Ossignore! In mezz’ora non credo nemmeno che riuscirò a guardarmi intorno. È troppo tardi. Non c’è più tempo.» Martina colse lo sguardo deluso di Uno.

«Santa può fermare il tempo. Sai, quando porta tutti i regali. Lo ferma con quell’aggeggio là.» l’elfo indicò una scatola che sembrava una radio, su un tavolino pieno di carabattole. «Ma solo lui lo sa usare.» Uno terminò in un sospiro.

«Anch’io.» disse una vocetta.

Martina guardò la bimba arrampicata su per il battacchio di un pendolo. Era un elfo più piccolo degli altri, dimostrava cinque, sei anni al massimo.

«Tu chi sei?» chiese Martina.

«Imma, il numero non me lo ricordo.»

«Imma non sa contare.» la canzonò un altro elfo.

«Io so contare.» Imma atterrò con un salto e l’espressione offesa «È solo che non me lo ricordo. Ho guardato Santa quando accende quella cosa e questo lo ricordo. È facilissimo.» si dondolò sulle gambette.

«Allora falla funzionare, per favore.» le chiese Martina, cercando di afferrare almeno un capo della situazione. «Quanto tempo dura questo incantesimo?»

«Per il tempo che ci vuole.» rispose la bimba.

Ovvio, che risposta si aspettava?

Imma armeggiò un poco con la manopola dell’apparecchio.

«Ecco fatto.» esclamò soddisfatta.

Martina controllò il telefono: l’orologio sembrava fermo.

«Eppure c’è campo», commentò ad alta voce.

«Sicuro, abbiamo il wifi», elfo Uno le fece l’occhiolino.

Forse ce la poteva fare, in fondo si trattava di semplice organizzazione. Il tempo adesso c’era.

«D’accordo, ci provo», disse decisa. «Fatemi vedere questo magazzino.»

Quella che sembrava una porta per la cantina dava l’accesso a un locale enorme, pieno di macchinari strani, con parti di giocattoli sparse sulle catene di montaggio ferme. E poi file e file di scaffali pieni di pacchi, pacchetti, pacchettini e una varietà infinita di cose ammucchiate, alcune con l’etichetta appiccicata sopra e altre accatastate alla rinfusa sugli scaffali, per terra, ovunque.

«Jennifer se ne è andata di fretta, vedo.»

«Eh sì», mormorò sconsolato elfo Uno, sempre al suo fianco, «manca un sacco di roba.»

«Allora al lavoro. Vediamo cosa sapete fare.» Martina assunse un tono di comando. «Separate i pacchi con le etichette da quelli senza nome, mettete gli uni lì» e indico la parete di scaffali alla sua destra «e gli altri là, sulla parete opposta. Prendete i giocattoli pronti e posateli su quei tavoli al centro. E spazzate via le cose non finite. Poi faremo il punto della situazione.»

Gli elfi si misero subito all’opera. Erano velocissimi, piccole saette verdi che pareva volassero da un punto all’altro dello spazio.

«Bene», disse Martina, ormai padrona della situazione, «fin qui ci siamo, se basta fare così non sarà tanto difficile. Ci sono lettere ancora da leggere?»

Si accorse che Uno era imbarazzatissimo.

La riaccompagnò indietro nel soggiorno, dove faceva più caldo e anche molto più silenzio, ora che gli elfi erano impegnati da un’altra parte.

«Le lettere le ha mangiare Rudoph», sbottò Uno.

L’elfo l’aveva condotta vicino a un divano dall’alto schienale, rivolto anche quello verso il camino e che non aveva, fino a quel momento, rivelato la presenza dell’ospite.

Aveva un paio di magnifiche corna ramificate, gli occhi grandi, umidi e languidi. Era la renna più imponente che Martina avesse mai visto. Anzi, era la prima renna che vedeva in assoluto ma era sicura che stava guardando l’animale più bello e possente della sua specie.

«Ciao Rudolph, ho detto a Martina… a proposito, è la nuova segretaria», la presentò Uno, «le ho detto che hai mangiato le lettere dei bambini.»

«Mica tutte», si schernì Rudolph. «E poi, che ne so io? Me le avete messe fuori, sui licheni.»

«Erano troppe», intervenne Uno a mo’ di scusa e tutto d’un fiato, «il postino le ha scaricate fuori e noi avevamo l’intenzione di prenderle dentro ma dev’essere accaduto qualcosa nel frattempo e ce ne siamo dimenticati.»

Martina cominciava a essere stufa dell’elfo e di tutte le sue giustificazioni.

Rudolph emanava un odore denso e selvatico. Un po’ troppo per il suo naso. Provò il suo nuovo tono di comando anche sull’animale stravaccata sul divano.

«Scusa, ma non dovresti stare fuori con le tue colleghe?»

Non funzionò.

«Ehi, bambina, vacci piano. Io sono il capo delle renne, e sto qui quanto mi pare.»

Martina accettò la cosa senza discutere. Non era a casa sua, in fondo. Se gli altri potevano sopportare la puzza lo avrebbe fatto anche lei. Rudolph chiuse gli occhi e tornò al suo pisolino.

«Andiamo fuori a controllare se è rimasto qualcosa.» concluse Martina con rassegnazione.

Si fece consegnare una pila, tornò a indossare stivali e piumino e fece un mezzo giro della casa, fino al recinto dove le altre otto renne aspettavano placide la mezzanotte.

Una poltiglia di carta impastata di licheni e letame era ammonticchiata in un angolo, inutilizzabile.

«Molto male. Ci sono lettere inviate via mail ancora da guardare?» Chiese Marina rientrando, mentre si toglieva gli stivali.

Omi l’aspettava seduto a un banco di scuola. Un banco antico, piccolo, di legno. Però il laptop era moderno, aperto e acceso.

«Sì, vuoi vederle?»

«No, non importa, stampa tutte le etichette con le richieste e indirizzi e portale in magazzino. Dobbiamo controllare quello che manca. Per i bambini che hanno scritto i loro desideri sulla carta… Fammi riflettere… Hai un elenco con tutti i bambini del mondo?» chiese a Omi.

«No, ma te lo posso fare in un attimo.»

«Allora fallo. Poi vai in magazzino e cancella tutti quelli che hanno il regalo già pronto. Per gli altri fatemi pensare, non sia mai detto che qualche bambino rimanga senza regalo la notte di Natale.»

Era calata a perfezione nel ruolo e cominciava a divertirsi. Si sedette di nuovo sulla panca.

«Vuoi tè prima di cena?»

Sussultò alla voce squillante che le arrivò da dietro. Apparteneva a una donna alta e robusta, dall’età indefinibile. I capelli nerissimi erano annodati in una crocchia in cima alla testa e indossava una gonna dai colori vistosi, larga e lunga fino ai piedi, con sopra un grembiule a fiori legato in vita. Aveva anelli d’oro alle orecchie e bracciali colorati le tintinnavano ai polsi.

«Ciao, nuova segretaria. Io Zenaide, cuoca», si presentò la donna.

Una zingara, Martina la battezzò all’istante, un altro bell’elemento che si aggiungeva al già colorito campionario di quella casa.

«Sei romena?» le chiese riconoscendo l’accento. «Tu non parli bene l’italiano come gli elfi.»

«Loro magici, parla tutte lingue. Io impara. Io prima di qua lavoro in Italia. Badante. Non posso portare miei vestiti e vecchia cattiva mi picchia con bastone. Allora mio bambino scrive “Babbo Natale trova lavoro nuovo per mia mamma” e io vengo qua. Lavoro molto buono e vesto miei vestiti. Vieni in mio regno a prendere tè. Qui sempre troppa puzza di piedi.»

E non solo pensò Martina mentre seguiva Zenaide in cucina, dove un forte tanfo di sigaro si sposava all’odore di minestrone che saliva da un pentolone posto a bollire sopra una stufa.

Un uomo stava in piedi davanti al frigorifero aperto. La manona che teneva aperto lo sportello stringeva un sigaro acceso. Era un tizio alto e molto grosso, quasi un gigante. In canottiera e con un paio di pantaloni rossi sui quali pendevano le bretelle slacciate. L’uomo estrasse dal frigo un paio di bottiglie di birra e si girò. Era anziano, almeno nella barba e nei capelli folti e lunghi, bianchi come la neve. Ma per il resto non sembrava vecchio. Era… possente. Lo stesso aggettivo che aveva usato per definire Rudolph, la renna sul divano. E aveva un’aria familiare. Gli occhi erano chiari e luminosi. Lo sguardo bonario, quasi ridanciano.

«Chi sei?» le chiese chiudendo il frigo con un piede mentre si rimetteva il sigaro in bocca.

«La nuova segretaria.» rispose Martina, con il sospetto di stare vivendo l’incontro più incredibile della sua vita.

«Ah sì», disse l’omone, «quella stronza di Jennifer…»

«Ma è andata ad assistere sua figlia…» Martina, per quanto non la conoscesse, si sentì in dovere di difendere la neo nonna.

«Anche tu… Tutti dalla sua parte. Bella squadra. Torno di là. Chiamatemi quando siete pronti.»

Mentre le passava dietro Martina colse distintamente la mano dell’uomo che le palpava il fondoschiena. Si irrigidì.

«Mangia, ragazzina, o non ti farai buona da niente.»

Aprì la porta e uscì dalla cucina

«Quello…» chiese a Zenaide appena l’uomo fu fuori portata d’orecchi «era…» non osò terminare la frase.

«Quello è Capo.»

«Babbo Natale?» chiese spalancando gli occhi.

«Babbo Natale, Santa, chiama come vuoi.»

«Mi ha toccato il sedere.»

«Normale. Lui piace donne. Donne piace lui.»

«E adesso dove va?»

«Lui festeggia Natale.»

«Ma è domani.»

«Lui festeggia prima e dopo. In camera. Con signorina russa.»

Le sorprese non finivano mai.

«Chiama elfi», la sollecitò Zenaide che aveva preso a rimestare nel pentolone. «Cena pronta.»

 

«Ma è tardi, non possiamo perdere tempo.»

Guardò l’orologio che segnava la stessa ora di quando l’aveva guardato l’ultima volta. A pensarci sentiva un certo languorino. Da quando non mangiava? Da una distanza quantica.

Nella sala grande il lungo tavolo di legno era pronto, con scodelle, cucchiai e tutta la banda degli elfi già seduta ai posti.

Ah, per fare tutto vi serve un ordine ma a mangiare ci arrivate da soli, piccoli fetenti, pensò Martina sedendosi a capotavola.

Dovette chiedere silenzio almeno tre volte per zittire il chiacchiericcio e le risatine, interrompere i calci sotto la tavola e fermare le palline di pane sparate dalle cannucce.

«Riassumetemi la situazione.»

Ripartirono a parlare tutti insieme.

«Silenzio! Elfo Uno, parla tu.»

«Allora», cominciò elfo Uno che sedeva accanto a lei «quando hai lasciato il magazzino elfo Cinque ha cominciato a spostare i pacchi che stavano nello scaffale centomila e due allo scaffale settantotto barra sessanta…»

«Fermati, fermati.» la parola riassunto era priva di significato per elfo Uno. «Dimmi quanti giocattoli mancano.»

«Quello che ci hai detto di fare è stato fatto e mancano circa due milioni di giocattoli.»

«Pensavo di più» saltò su una vocetta da una zona imprecisata del tavolo.

«Ma li potete costruire, considerando che abbiamo il tempo che ci vuole?» chiese Martina speranzosa.

«No», rispose secco elfo Uno, «mancano le materie prime.»

«Ma non le fate voi?»

«E smettila di interrompermi.» sbuffò l’elfo. «Cosa pensi che creiamo i giochi dal nulla? Sei caduta nella pentola delle leggende da piccola? Non siamo magici fino a questo punto. Forse Jennifer è partita prima di fare l’ultimo ordine. Che ne so? Un disguido postale? Forse aveva comprato della roba in Cina, con i nuovi dazi non si capisce più niente. Fatto sta che non si può fare più niente perché non c’è più niente con cui fare.»

Elfo Uno aveva perso completamente il tono infantile durante la tiritera e Martina lo guardò sorpresa.

«Quindi?»

«Quindi fine, bambina, quest’anno finisce qui. Mancano dei regali ma dobbiamo far ripartire il tempo prima che il Capo se ne accorga o saranno guai per tutti.»

Un altro che la chiamava bambina, un tizio alto un metro, con la faccia da dodicenne, le orecchie lunghe e un ridicolo cappello di feltro verde sulla testa.

«Non chiamarmi bambina!» gli lanciò un’occhiata sbieca.

«Sono avanzare polpette di orso da ieri?» chiese una voce in fondo al tavolo.

«Erano poche», disse Zenaide finendo di scodellare le zuppe «ho dato alle renne.»

«Alle renne?» ruggì Rudolph alzandosi di scatto dal divano per ergersi in tutta la sua possenza nel mezzo della sala. «Le renne non mangiano polpette!» gridò in tono melodrammatico. «Le hai avvelenate!» e si precipitò fuori dalla porta che Zenaide, con una inaspettata prontezza di riflessi aveva aperto con un elegante balzo.

Gli elfi si guardarono l’un l’altro, sgomenti, con la neve che turbinava sulla soglia finché il muso di Rudolph ricomparve.

«Niente morti», annunciò scrollando la neve dalle corna «ma tre ragazzi hanno il mal di pancia e dicono che non potranno partire questa notte. Non so come la prenderà Santa. Trovare dei sostituti, a questo punto, è troppo tardi.»

Di bene in meglio, pensò Martina.

«Un poco di bicarbonato?» suggerì.

«Finito.» Zenaide troncò la discussione mentre posava accanto alla sua ciotola un caffè di cereali dal profumo accettabile. Martina prese la tazza e andò a sedersi su una poltrona di fronte al camino.

«Qualcuno ha una sigaretta?» chiese senza molte speranze.

Una manina pronta le fece comparire sul bracciolo il necessario per fumare. Monelli, ecco cos’erano. Stese le gambe sul pouf. Era così, in completo relax, che riusciva a pensare meglio.

Dunque, mancano due milioni di regali e abbiamo tre renne fuori combattimento. E Babbo Natale in camera con puttana. Che simpatico vecchietto, sogghignò fra sé. Per le renne sono convinta che basterebbe un poco di bicarbonato. I regali potremmo acquistarli su Amazon. Mi sembra che non ci siano problemi di soldi, qui. Anche il bicarbonato… quello che ci manca è il tempo, vediamo, consegna in ventiquattrore e potremmo farcela. Ma che dico? Manca mezz’ora a mezzanotte, è già la notte di Natale là nel mondo. È tutto chiuso ormai, compreso Amazon.

Il suo pensiero prese una deviazione perversa.

Amazon. Tutti quei magazzini pieni di roba e noi qui, con due milioni di regali in meno.

Chissà se gli elfi erano disposti a un’azione illegale? Chissà se consideravano il furto immorale? E soprattutto: chissà se avevano il potere di attuare il progetto che andava prendendo forma nella sua mente? Alzò un braccio dalla poltrona.

«Ragazzi, venite un po’ tutti qui, attorno a me. Forse ho un’idea.»

Se pensava che la sua trovata avrebbe destato qualche perplessità sbagliava. Un coro di entusiasti accolse il suo piano. E sì, potevano prendendo a prestito la slitta del Capo che andava più veloce della luce, passava attraverso i muri e aveva una stiva così megagalattica che poteva contenere i regali per tutti bambini del mondo.

«E se Babbo Natale se ne accorge?» chiese Martina.

«Non si accorge», intervenne Zenaide, che aveva assistito alla riunione «io chiamo lui quando manca cinque minuti a mezzanotte. Ora porto altra birra.»

«Elfo Omi», chiese Martina al bimbo più tecnologico del gruppo, «prepara un elenco dei magazzini Amazon più grandi del mondo. Voi altri preparatevi. Presto che si parte.»

Quando furono tutti pronti Rudolph andò a chiamare le cinque renne senza il mal di pancia che si misero in posizione davanti alla slitta. Martina salì a bordo circondata da tutti gli elfi che, per l’occasione, si erano dipinti una mascherina nera attorno agli occhi.

«Andiamo», disse.

La slitta non si mosse.

«Perché non parte?» si rivolse a Uno, di fatto aiutante in primis.

«E chi guida? Tu?» suggerì l’elfo.

«Ma io non ne ho un’idea.»

«Neppure noi.»

«E allora?»

Zenaide, che li aveva accompagnati in silenzio, avvolta in una enorme pelliccia candida li interruppe.

«Io sa che finiva così. Io telefono al figlio, lui detto spingi tasto start e slitta viene a prendere me.»

«Non ho capito niente», disse Martina desolata

«Ha detto che la slitta la guiderà il figlio», tradusse Uno. «Lo passiamo a prendere. Devi spingere lo start. Lui farà il resto in remoto.»

E per mostrarle cosa doveva fare spinse lui stesso il tasto. La slitta prese a rollare e Zenaide, casa, neve e notte polare scomparvero.

Wow! Stavano volando in una aurora boreale. Martina spalancò gli occhi e si strinse agli elfi.

«Credevo che il figlio di Zenaide fosse un bambino.»

«Non si riferiva a suo figlio.» La voce di elfo Uno le giunse da un luogo remoto, attraverso universi di silenzio. «Parlava di Gabriel, lo hai conosciuto. Ti è venuto a prendere da casa. Lui è il figlio del Capo.»

Il cuore le mancò un battito. Come aveva fatto a non capire? Aveva gli occhi di suo padre e lei lo amava già.

 

Atterrarono nei pressi di un grande edificio. Alcune finestre erano illuminate da tenui luci azzurre.

«Dove siamo?» chiese Martina.

«Siamo a Londra», rispose pronto Omi, che non abbandonava un attimo il GPS e il suo ruolo di esperto in tecnologie informatiche.

«Dev’essere la clinica dove è nata la nipote di Jennifer. Gabriel sarà lì, con loro.» intervenne elfo Uno.

«Jennifer è sua madre?» gli chiese Martina, molto interessata alla situazione familiare del suo futuro boy-friend.

«Sua madre è morta quando era molto piccolo, Jennifer lo ha allevato come un figlio. Lo ha educato lei, per questo è venuto su così bene. Lui dice che non gli importa niente di ereditare l’azienda. Fa il dottore. Per ora.»

Gabriel stava uscendo da una porta a vetri e in poche falcate fu accanto a loro. Lanciò a tutto il mazzo un’occhiata fulminante.

«Dovevo immaginare che c’eravate voi dietro a tutto questo. Mio padre non ha mai fermato il tempo così a lungo. Cosa diavolo è successo?»

«Ci serve un pilota.»

Il tono di Martina era serio e compunto, un poco in contrasto con la maschera nera da “Uomo ombra”. Le era parso logico farsela dipingere, come gli altri, da elfo Venticinque, pittore ufficiale della compagnia. In quel frangente, per fortuna non ci pensò; mancando la consapevolezza mantenne lo sguardo alto e deciso.

«Abbiamo bisogno di un pilota», ripeté.

Gabriel guardò i capelli rossi che uscivano indomabili dal cappuccio di pelliccia bianco. Notò anche che stava proprio bene con quella mascherina. Molto graziosa. Non se ne era accorto al loro primo incontro.

«Per andare dove?» il tono di Gabriel si ammorbidì un poco.

«A rapinare Amazon.» una vocetta tolse Martina dall’imbarazzo.

«Si dice svaligiare.» puntualizzò elfo Uno.

L’arcangelo inarcò le sopracciglia e spalancò gli occhi.

«Cosa?» ruggì. Gli elfi si fecero piccolissimi.

«Ascolta», intervenne Martina senza perdere l’aplomb «mancano parecchi regali per questa notte. Non sto accusando nessuno, solo cerco di far finire bene questa storia. Potremo pagare Amazon dopo le feste. Troveremo il modo di giustificare questa azione ma ora dobbiamo proprio farlo. Ci aiuterai?»

Gabriel guardò quella ragazzina, poco più grande degli elfi che le stavano intorno. Le brillavano gli occhi mentre andava a compiere quella che, con tutta probabilità, sarebbe passata alla storia come “La rapina di Natale”. Alla testa di una banda di monelli travestiti da elfi travestiti da ladri della notte. Coraggiosa, temeraria. Come mai non si era accorto prima che era così graziosa? Con la parte di sé ereditata da suo padre disse:

«D’accordo. Andiamo.» Senza riserve.

Prese i comandi della slitta e partirono lasciandosi dietro una scia di luce talmente grande che i pochi che stavano guardando dalle finestre dell’ospedale credettero per tutta la vita di avere visto una stella cometa volare all’incontrario dalla terra verso il cielo.

«Destinazione: Seattle, il più grande deposito Amazon del mondo», annunciò Omi.

 

«Ma questo magazzino è più grande del nostro!»

Gli elfi si guardavano intorno, sconcertati dalla enormità di quei locali.

«Non perdete la concentrazione, il tempo stringe.» Martina li richiamò all’ordine. «Sbrigatevi. Prendete tutti i giochi che trovate e anche libri e film e quaderni e colori e vestiti per le bambole. Che altro?» si chiese sollevando per la collottola un elfo che passava di corsa.

«Tu vai a cercare del bicarbonato. Fra i prodotti farmaceutici, o casalinghi.»

Lo appoggiò a terra e quello riprese a correre.

«Prendete anche le scatole», gridò «non so se ne abbiamo a sufficienza.»

La sua voce rimbalzò in mille echi da una parete all’altra.

«Togliete tutti i marchi e non prendete etichette. Dopo ci mettiamo le nostre» ci tenne a specificare. Con quei discoli non si poteva mai sapere.

Martina e Gabriel sedettero su due seggiole impacchettate col cellofan e si studiarono l’un l’altro.

«Complimenti», le disse Gabriel con un riccio ribelle che gli cadeva sugli occhi. «quando ti ho incontrato l’altra volta non l’avrei mai detto.»

«Detto cosa?» Martina lo guardò negli occhi. Proprio gli occhi del suo papà.

«Che tu saresti stata capace di… di tutto questo. Sono colpito, ecco, e non è facile colpirmi.»

Martina avrebbe voluto rimanere per sempre lì, seduta sulla plastica a bere tutte le parole e tutti i silenzi della sua visione.

Ma il lavoro era da finire. Guardò l’orologio. Era ancora fermo eppure il tempo stringeva.

«Ci siamo», disse elfo Uno «abbiamo finito. Qui non c’è altro da prendere. Lasciamo anche qualcosina.» E indicò le renne.

In mezzo al magazzino, ai piedi della slitta, da un mucchio di escrementi freschi, cioè ancora caldi si levava in volute fumose un lezzo intossicante.

«Scusate», disse Rudolph «anche a Vixen è venuta la diarrea.»

Nel gruppo delle renne una femmina alzò la testa.

«Le polpette», si giustificò.

«Prendi il bicarbonato.» Martina si versò un po’ di polvere sulla mano e la porse a Vixen perché la leccasse.

«Speriamo che conti», si augurò. «Ma adesso andiamo, non c’è tempo per pulire.

Dovettero svaligiarono altri tre depositi per avere il numero di doni sufficiente. Rapidi come dei fulmini, abili nell’azione non riuscirono però a evitare di lasciare qua e là una cacca di renna, grossa e puzzolente, un poco sciolta, contenente tracce di polpette di orso.

 

Stavano finendo di etichettare i doni. Babbo Natale non si era accorto di nulla. Ce l’avevano fatta.

«E i bambini che riceveranno qualcosa di diverso da quello che hanno chiesto?» la domanda di Gabriel non la colse di sorpresa.

«Più di così non possiamo fare. Che chiamino la polizia.» E si mise a ridere.

Diligente elfo Tre, che si occupava delle etichette seguì il suggerimento e preparò subito una biglietto da inserire in ogni pacco sbagliato.

“Nel caso tu non sia soddisfatto del tuo regalo, puoi chiamare la polizia”, recitava la nota.

Quando tutto fu pronto, la slitta caricata e le renne purgate col bicarbonato Imma si arrampicò sul tavolino dove stava l’apparecchio che aveva fermato il tempo e armeggiò un poco con le manopole.

«Fatto. Oh, non lo avevo proprio fermato, solo tanto rallentato, mancano cinque minuti a mezzanotte.»

Per un pelo, fu quello che pensarono tutti.

Allora Zenaide andò a chiamare Babbo Natale che si prestò vestito come vuole la leggenda, sottobraccio a una magnifica bionda, anche lei vestita di bianco e di rosso, solo molto più civettuola.

«Ma va anche lei?»

Martina sussurrò la domanda all’orecchio di Zenaide.

«Si, lui piace compagnia. Fa vedere lui può tutto. Domani o poi lui fa credere lei che è tutto sogno.»

«Anche io crederò che tutto è stato un sogno?»

Gabriel la guardò negli occhi e le prese una mano fra le sue.

«No, se non lo vorrai. Ma ora, ti consiglio di farti pagare, prima che si ubriachino.»

Martina si avvicinò a elfo Uno, che le consegnò una busta.

«Questa è il tuo compenso, e devo dire che te lo sei proprio meritato.»

Martina, in uno slancio di affetto, si chinò a abbracciare l’elfo.

«Puoi prendere anche un regalo», aggiunse Uno sottovoce, con uno sguardo di complicità.

«Abbiamo preso più roba di quel che serviva?» chiese Martina, sussurrando a sua volta.

«Cosa vuoi? Iphone, ipad, ipod, lettore Blu-ray, home theater wireless, laptop?»

«È avanzato tutto questo?»

«E altro ancora.»

Martina era costernata.

«E cosa ne farai? Hai intenzione di rendere le eccedenze?»

«No, penso che mi darò al contrabbando.»

Dio mio. L’ho corrotto, pensò Martina inorridita. Ma accettò l’ultimo modello di iphone. Il suo cellulare era ormai da buttare.

 

 

 

Sempre difficile essere laici in un Paese dalla forte connotazione cattolica. E da certe ricorrenze, pressochè impossibile “restarne fuori”. Siccome non mi risulta che lo Spirito del Natale sia compreso nella Costituzione, credo di poter dire, liberamente, che tale festività mi ha definitivamente rotto, soprattutto per come diventata negli anni, insipida occasione per esercitare, una volta di più, ogni ipocrisia.

Dipendesse da me, sul Natale sarei feroce come Dickens. Rileggendo Christmas Carol, è assai facile sostituire Scrooge con molte facce conosciute, fino a ritrovare persino la mia, perché pochissimi ne restano indenni in un sincero confronto con il vecchio perfido egoista. Sono intimamente convinto che il grande scrittore abbia applicato al racconto un epilogo di redenzione solo per esigenze meramente editoriali, covando in cuor suo di renderlo ben più cattivo, o mi fa bene pensarlo.

Sopporto malvolentieri, dunque, la vera e propria persecuzione che mi ritrova, ogni anno, vittima del giro perverso di cene, pranzi, (dei quali non obietto sulle gastriche soddisfazioni, bensì sulla forzatura della scelta di taluni commensali), e della stanca liturgia dei regali, ricevuti da persone alle quali si è effettivamente legati, ma anche da altre/i che manderei volentieri a stendere, con l’implicito odiosissimo ricatto della restituzione del dono, imposto da un protocollo che diventa persecutorio, anche e soprattutto in chi non lo condivide.

Da animali di società, tocca far buon viso, ma dentro di noi cova un sentimento di vendetta che non getterei alle ortiche, bensì terrei buono; lo porterei a maturazione, lo metterei a frutto. In queste melense e artefatte atmosfere di infiocchettati rituali, falsamente dettati dallo spirito natalizio, si può essere parte attiva e sabotare con gioia certe manifestazioni, elevando il dispetto al rango di lotta di liberazione.

Organizzandoci, possiamo innanzitutto raccogliere quelle cose inutili e brutte che conserviamo nevroticamente per oscuri motivi, e con modica spesa trasformarle in regalini da donare alle persone più detestate del nostro umano entourage. Sicuramente ce ne sono, proviamo a fare una lista e la troveremo più lunga del previsto. Divertiamoci a sorprenderli con una visita per loro inaspettata, esibendo un largo sorriso, fatta all’ultimo momento perché, siccome imprevista, sia difficoltoso per loro ricambiare. La preparazione di un bigliettino contenente fuorvianti formule di buon augurio, può aggiungere il tocco d’artista. Sbizzarriamoci, ad esempio, in auspici di pronta guarigione agli inguaribili.

Per il pranzo, non dimentichiamo di offrire vino imbevibile e di smaltire cioccolatini vecchi e salse esotiche di cui temevamo possibili causticazioni esofagee. Mangiamo con gusto lodando la cucina, ma non dimentichiamo di respingere, con affettata cortesia, la pietanza più elaborata che la padrona di casa porta in tavola con maggiore orgoglio, dicendole sottovoce e con garbo che non potete neppure assaggiarne perché ne avete fatto indigestione, dal momento che ve la propongono tutti i santi giorni, in una versione certo meno ricca della sua, alla triste mensa aziendale. Facciamo bere copiosamente l’invitato che non sopporta il vino, versandogliene nel bicchiere ripetutamente, ma sempre poco alla volta, di modo che abbia l’impressione di fare piccoli sorsi e non si avveda dello sturbo che sta per assalirlo, e inneschiamo i più caciaroni intonando sottovoce canzonacce e tenendo il tempo con ritmiche percussioni di posate sui bicchieri, meglio se di cristallo, del servizio buono.

Possiamo intervenire nei discorsi altrui, dando ragione ai più beceri e umiliando e zittendo i giusti, incarognendo i biliosi e sobillando i perfidi, mostrandoci infine sorpresi per la mise della più in tiro profferendo la temutissima frase: “Ma non ce l’avevi già l’anno scorso, questo bel vestitino?”.

Una attività che può portare molta soddisfazione, non dimentichiamoci, consiste nel fare, non visti, boccacce spaventose e gesti minacciosi ai più piccoli, che in genere o si mettono a frignare – e insisteremo per consolarli proprio noi, rincarando la dose – o si chiudono in un sofferto mutismo – e in questo caso consiglieremo, a fine pasto, una supposta di glicerina – perché “credo siano un tantino imbarazzati: Il pasto, buonissimo, è stato un po’… pesantino.”. Se vogliamo poi rasentare il perfezionismo, tenendo in braccio il piccino e intonando lallazioni e gaie filastrocche, potremo infine rilasciare quel peto silenzioso che abbiamo, da persone previdenti, trattenuto per tutto il tempo del copioso pranzo, allo scopo di confermare la costipazione intestinale del ragazzino, attribuendo a lui la colpa e facendolo notare ai presenti, buttandola in ridere: “Ah… Brighella!… così piccolo e così fetente!”.

Ecco: non vorrei con queste poche righe esaurire l’argomento, o peggio ancora istituire modelli o suggerire pratiche certo da tutti ben conosciute: cerco solo di essere propositivo.

Mi si permetta, da ultimo, di raccomandare uno sguardo di cattiveria per gli inermi e gli anziani non autosufficienti. Cerchiamo di essere sempre, ma soprattutto domani 25 dicembre, forti con i deboli e servili con i forti.

Oggi è la vigilia, restiamo perciò diversamente vigili, alla faccia dell’inculcato spirito natalizio, e pronti a colpire.

All’opera, quindi, e Buon Natale a tutti noi cattivi, nostro malgrado vittime.

 

e se vi è piaciuto il racconto di Mark Adin non privatevi de La lega antiNatale, dello scrittore irlandese Michael Curtin (Marcos y Marcos, 2009)

“Se il Natale fosse una persona, uscirei in una notte di nebbia a tagliargli la gola, poi mi costituirei e passerei felice il resto della mia vita a guardare video dietro le sbarre.”

Sexy, comico e dissacrante: uno dei più originali romanzi umoristici mai scritti sul Natale.

Un irlandese disoccupato rimpiange che non gli abbiano spaccato la testa ventiquattro anni prima, quando giocava a rugby. Un commercialista ama travestirsi da donna ma teme gli venga un colpo e lo ritrovino morto in guêpière in una stanza d’albergo. Un ex dirigente molla tutto per dedicarsi a una missione: diffondere il linoleum nel mondo. La bellissima, agguerritissima boss di «Unipolitan» cerca un vero maschio al solo scopo di fare il contrario di quel che dice lui.

Cos’hanno in comune?

Il profondo desiderio di concedersi una partita a carte, una partita a whist. Tutti i mercoledì sera al King’s Arms Pub, a Londra.

Soprattutto, spinti da un odio profondo e sincero per il Natale, li unisce un piano di sabotaggio per vilipendere e liberarsi una volta per tutte dalla Festa delle Feste…

da qui

 

 

 

Il racconto di Natale di Auggie Wren – Paul Auster

                                  (dal film Smoke, di Wayne Wang)

 

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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