Reggio Calabria e il Coniglio Mannaro: perché l’aeroporto non deve essere intitolato ad un fascista
di Gianni Giovannelli (*)
É noto che gli uomini che agiscono in seguito a comandi sono capaci delle azioni più orribili. Elias Canetti (“Massa e potere”, 1981, pag 401).
L’aeroporto militare di Reggio Calabria fu costruito nel 1939 e affidato nel 1942 al comando congiunto italo-tedesco dell’Asse, per le operazioni belliche durante la seconda guerra mondiale. I bombardamenti di Malta furono pianificati e organizzati in questo insediamento, poi raso al suolo dagli Alleati con l’attacco del giorno 11 luglio 1943. Fu ricostruito nel 1947, sempre a bordo mare, nel quartiere Ravagnese; il primo volo civile risale al 10 aprile di quell’anno e solo dal 1976 sono venute meno le funzioni anche militari.
Poco prima, il 10 dicembre 1975, l’aeroporto fu intitolato al sottotenente Tito Minniti (1909-1935), medaglia d’oro al valor militare, con provvedimento del Ministero della Difesa e dello Stato Maggiore dell’aviazione.
Reggeva il dicastero Arnaldo Forlani (1925, vivente), membro del quarto governo Moro e al tempo stesso strenuo oppositore della politica di solidarietà nazionale; dopo una condanna definitiva a due anni e quattro mesi di carcere ha lasciato la politica attiva. Il famoso giornalista Gianfranco Piazzesi gli affibbiò un nomignolo, Coniglio mannaro, ripreso dal romanzo di Bacchelli (Il mulino del Po) che lo aveva creato per il suo Giuseppe Scacerni. La satira ebbe successo e Forlani non riuscì più a scrollarsi di dosso l’immagine di pavido prepotente legato solo al denaro.
Capo di Stato Maggiore dell’aeronautica era il generale Dino Ciarlo (1917-2012), che in carcere passò invece un solo giorno, nel novembre 1988, per la vicenda di Argo 16 , un velivolo utilizzato con questo codice segreto sia dall’organizzazione clandestina Gladio sia dai servizi di sicurezza per operazioni sotto copertura, precipitato al suolo in circostanze rimaste misteriose. Venne opposto il segreto di stato nel corso dell’istruttoria; successivamente, fra molte polemiche, il caso di Argo 16 fu qualificato come un semplice incidente. Forlani e Ciarlo erano personaggi davvero rappresentativi del potere negli anni settanta, in pieno scontro sociale, protagonisti di un uso strategico della tensione e del terrore.
Ma chi era il sottotenente Tito Minniti? Aviatore, calabrese di Placanica, si arruolò volontario nella guerra d’Etiopia, considerata illegittima dalla Società delle Nazioni che aveva stabilito sanzioni a carico dell’Italia. Minniti era utilizzato nei voli di ricognizione sul fronte sud, al comando del generale Rodolfo Graziani che già si era guadagnato in Libia il soprannome di macellaio del Fezzan . Pilotava un biplano chiamato RO.1, costruito dall’ing. Romeo (quello dell’Alfa) e molto simile all’olandese Fokker; a bordo saliva con lui anche un altro volontario, il sergente fotografo faentino Livio Zannoni. La popolazione aggredita resisteva all’invasione italiana, difendendo il territorio con molta energia. Il 15 dicembre 1935 Graziani comunicò allora al ministro Alessandro Lessona che riteneva necessario impiegare il gas contro le orde barbariche; il 16 dicembre Mussolini diede l’assenso; il 20 dicembre Badoglio emanò le disposizioni connesse. Lo storico Angelo Del Boca (Il fascismo e la presa d’Etiopia, Editori Riuniti, p. 86) ha raccolto il vivo ricordo diretto di Ras Inmirù, con la descrizione del bombardamento avvenuto il 23 dicembre 1935, sul fiume Tacazzè, con gas mostarda (tioetere del cloroetano o iprite). Venivano chiamate in codice azioni di sbarramento.
I ricognitori raccoglievano le informazioni fotografiche necessarie e successivamente l’aviazione italiana sganciava terribili ordigni con iprite e fosgene; il generale Domenico Corcione, ministro della difesa, ha ammesso nel febbraio 1996 che l’aviazione italiana colpì la popolazione etiope con ben 85 tonnellate di iprite. Torniamo a Tito Minniti e Livio Zannoni.
I due volontari decollarono da Gorrahei per un volo di ricognizione il 26 dicembre 1935; dovevano preparare l’attacco alla fortezza di Dagabur e facilitare l’occupazione della città. Il RO.1 di Tito Minniti fu colpito dal fuoco della contraerea etiope e costretto ad atterrare in una radura, come ebbe a riferire il pilota di un altro apparecchio, rientrato senza danni. Che cosa sia accaduto davvero è impossibile saperlo; certamente entrambi gli aviatori furono uccisi. Per rappresaglia il 30 dicembre 1935 l’aviazione italiana bombardò l’ospedale da campo svedese in Etiopia provocando una reazione internazionale; e a seguire ci fu massiccio uso di gas in Ogaden e Giuba. I caduti furono decorati con medaglia d’oro al valor militare alla memoria dallo stato fascista.
La motivazione dell’onorificenza presenta qualche contraddizione. In quella di Tito Minniti i due sarebbero rimasti insieme: anziché sottomettersi ad una massa imbaldanzita accorsa per catturarlo preferiva lottare e, soverchiato dal numero, perdeva la vita. In quella di Livio Zannoni si afferma invece che il fotografo era rimasto isolato dal suo ufficiale continuando (sembrerebbe lui solo) a sparare fino all’ultimo con la mitragliatrice. Sono versioni non compatibili. Per giunta, e in contrasto con i motivi della decorazione che non ne accennano minimamente, una diversa ricostruzione racconta la cattura di Minniti vivo e di orrende torture inflitte. L’unica fonte non pare peraltro particolarmente attendibile: un aiuto farmacista egiziano, tale Abdel Mohsein El Uisci, residente al Cairo, circa due mesi dopo, si era presentato negli uffici del Giornale d’Oriente , il quotidiano in lingua italiana di Alessandria d’Egitto, per rilasciare spontaneamente una dichiarazione giurata a suo dire confermata dagli altri due membri della missione sanitaria egiziana in Abissinia. Il martirio fu comunque utilizzato dalla propaganda di regime.
Nel dopoguerra i due aviatori sono andati incontro a un trattamento diverso della loro memoria. A Livio Zannoni (fratello di un noto squadrista, Mario) era stato dedicato, nel 1937, un volume, Ala infranta, a cura della 228 Legione Avanguardisti e a firma di Enrico Parrini. La strada principale del suo quartiere, a Faenza, fu a lui intitolata nel 1940. Ma dopo la liberazione si ritenne opportuno cancellare dalla toponomastica il nome di una medaglia d’oro fascista e dal 1951 Corso Livio Zannoni si chiama Corso Europa. Venne rimossa anche la lapide dai muri della sua casa natale. Il nome di Tito Minniti lo ritroviamo invece in molte vie e in più di una città, oltre che in numerosi istituti pubblici d’istruzione. L’albero genealogico della famiglia di Minniti comprende un cospicuo elenco di militari d’alto rango, e fra questi non mancano gli aviatori; ciò spiega forse la sorprendente decisione di dare il suo nome all’aeroporto calabro, presa nel 1975 dal Coniglio Mannaro.
Tito Minniti era lo zio di Domenico Luca Minniti detto Marco; ma il ministro aveva all’epoca solo 19 anni e dunque non porta alcuna responsabilità. Il provvedimento rimane imbarazzante. Come si può dedicare un aeroporto a un partecipante volontario alla guerra coloniale fascista, a un pilota di ricognitore che preparava con i suoi voli il bombardamento a gas della popolazione aggredita?
Certamente il regime era stato capace di affascinare molti giovani e questa è un’attenuante. La sua tragica fine è un motivo ulteriore per la pietà e per il perdono. Ma indicarlo quale esempio sembra davvero eccessivo ed è tempo di porre rimedio a questa scelta inopportuna, rimuovendo il provvedimento del Coniglio Mannaro.
Abbiamo un alternativa da proporre: si dedichi l’aeroporto di Reggio Calabria a Rocco Pugliese (1903-1930; si veda Lorenzo Pugliese, Rocco Pugliese. Un comunista in Calabria, Annales, 2015), strangolato nel penitenziario di Santo Stefano dalle guardie fasciste, durante la detenzione dopo una condanna ingiusta e la farsa di un processo di regime. Anche lui era giovane, ma seppe opporsi agli squadristi di Palmi, pagando prima con la prigione, poi con la vita.
(*) ripreso da «Osservatorio repressione»