Ricordando Dario Paccino – 1
di Giorgio Ferrari (*)
Le mille e una cosa
Avevamo appena licenziato le bozze del suo ultimo libro – «I senzapatria» – quando Dario si ammalò. All’inizio non sembrava una cosa grave, ma in breve tempo le cose volsero al peggio e Dario morì il 4 giugno 2005.
Pochi giorni prima – il 25 maggio – mi scrisse questa mail. Fu l’ultimo contatto che ebbi con lui.
«Un gradito regalo, caro Giorgio, i testi sull’America Latina che mi hai inviato, testi che ho subito ritrasmesso a Lisa, che a sua volta chissà che non li faccia pervenire ai suoi amici argentini.
Conto pure di trasmetterli a Sirio, a Gianmarco, ad Alex, ai ragazzi di Lucca. Testi che ritengo di grande utilità, e che tanto più potrebbero risultar tali se organicamente raccolti e diffusi.
Ad esempio tramite una sede giornalisticamente funzionante on line con ragione sociale Bim, Asa, Rossovivo. Da parlarne, naturalmente. Una delle mille e una cosa di cui parlare. “Propedeutica” per la mia attuale contingenza biologica: una “scappata” a Milano, che penso di poter fare la settimana prossima. Donde poi la fase terapeutica, che mi lascerà il tempo per discorrere fra noi. E sulle prospettive di questo mondo ormai perduto, anche se non dovessi lasciarci la pelle. E per un programma volto a portare avanti il libro e il video in cantiere. E decidere circa la ricerca dell’editore che fa per noi.
Intanto sto raccogliendo – fra mie vecchie carte e libri del mio tempo che potrebbero servir alla bisogna – materiale per te e Sirio.
A presto dunque e intanto un caro abbraccio da me e Lia.
Dario».
Se non fosse per quell’accenno alla possibilità di lasciarci la pelle (che sul momento interpretai come una scaramanzia) Dario appariva più che mai pronto a impegnarsi in una nuova impresa al punto che da un semplice scambio di notizie fra me e lui, ne faceva scaturire un contesto di complicità e di propositi per l’avvenire di cui non potevi non sentirti coinvolto. Del resto Dario era fatto così: che fosse un libro, una rivista o un’agenzia giornalistica riusciva a trasmetterti un entusiasmo vero per le sue idee tanto più perché, nel farne cenno, le rendeva corali chiamando all’appello amici e compagni a cui restituiva quel senso di appartenenza, magari smarrito nelle vicissitudini della vita quotidiana.
“Le mille e una cosa di cui parlare”! E si può star certi che era proprio così, che il discorrere con lui sarebbe stato largo e avvolgente, spaziando dalla letteratura, alla musica, alla filosofia o alle scienze naturali ma sempre per riproporti, in definitiva, il tema centrale di questa sua/nostra esistenza: cosa ci aspetta e cosa noi possiamo fare in proposito?
Interrogativi “cosmici” che, se posti da un altro, sarebbero potuti apparire come un’espressione di quella cultura generalista che va per la maggiore e che Dario aborriva profondamente, pur essendo stato un intellettuale eclettico con un trascorso giornalistico tutto da riscoprire (si occupò anche di teatro, di arte, di sport). Mai però, in ogni ambito della sua attività, fu conciliante avendo ben chiaro l’insegnamento marxiano della storia che procede per salti e per successive rotture dell’ordine sociale, dove la libertà per l’uomo è ricerca incessante, lotta e conquista, dall’esito sempre incompiuto.
Se dunque, ancora a pochi giorni dalla sua morte, Dario sentiva il bisogno di parlare delle “prospettive di questo mondo ormai perduto” è perché avvertiva che l’essere umano non è morto, che – pur oppresso dallo sfruttamento, minacciato dalle guerre e dilaniato dalle sue stesse contraddizioni – può stravolgere il corso delle cose purché, come scrive nel suo ultimo libro: «ci sia disponibilità a calarsi nella materialità storica: pure denominazioni ideologiche cristianesimo, illuminismo, liberalismo, democrazia, socialdemocrazia, fascismo, postmodernità. Tutte bandiere che un significato ce l’hanno solo se l’universo della proprietà intende giovarsene. Non con questo che tutte le bandiere della proprietà s’assomiglino. Così come non s’ assomigliano le varie proprietà. Lo stesso assolutismo però per tutte: l’assolutismo del profitto. Con inevitabile perseguimento – di conseguenza – di lavoro tendenzialmente a costo zero. Che spiega perché unico, reale antagonista del capitalismo, sia il comunismo di ispirazione marxiana».
Possono sembrare affermazioni apodittiche, ma non per Dario che del comunismo realizzato aveva verificato i limiti e gli errori visitando la Cina, Cuba e il Nicaragua sandinista, senza per questo sentirsi deluso o tradito nella sua veste di intellettuale di sinistra. Semmai quelle esperienze rafforzavano in lui la convinzione che il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà non si esaurisce con la rivoluzione né può avere come riferimento l’ideologia che anzi va marxianamente combattuta.
A questo insegnamento Dario ha improntato la sua vita e le sue opere, da quelle famose a quelle meno note, pagando anche un isolamento da parte dell’establishment culturale/editoriale che però non gli impedì, dopo i fatti di Genova 2001, di vivere un periodo di rinnovata vitalità caratterizzato dal rapporto fecondo instaurato con giovani compagni e compagne reduci dall’esperienza traumatica del G8. Da lì nacque l’idea di un laboratorio storiografico, un’esperienza unica, preziosa come tutto ciò che nasce dalla partecipazione collettiva; un’esperienza profondamente umana in cui la memoria e il sapere di Dario moltiplicarono l’interesse e l’impegno di questi giovani al punto da produrre insieme un libro – «I senzapatria, resistenza ieri e oggi» – e un video, sugli stessi temi, che ha per fulcro una toccante visita al sacrario di S. Anna di Stazzema.
E’ l’ultima testimonianza che Dario ci ha lasciato insieme alle mille e una cosa di cui parlare.
(*) Nella rubrica «scor-date» ieri Giorgio Nebbia ha scritto di Dario Paccino. Domani e dopodomani in “bottega” altri due ricordi…