Ricordando Enrico (di Andrea Mameli)
Quando l’uomo arrivò alla porta del rifugio era quasi senza respiro. Aveva percorso i 2 km tra il porto di Cagliari dai Giardini Pubblici tutti di corsa. “Anti sciusciau tottu”… Esclamò quando lo fecero entrare nelle antiche grotte scavate nel calcare e subito richiusero la porta: le esplosioni sarebbero durate ancora a lungo. “Hanno distrutto il porto!” gridò ancora poi fu solo silenzio in quella spelonca. Il rumore era solo quello dei motori degli aerei e delle loro bombe.
Era una domenica fredda ma solare, quel 28 febbraio 1943 e quando mancavano dieci minuti all’una apparvero in cielo 46 quadrimotori Boeing B 17 “Flying Fortress”, scortati da 39 caccia Lockheed P-38J “Lightning”. A Cagliari tutti si stavano sedendo a tavola, tranne chi lavorava al porto o in una delle due stazioni ferroviarie e pochi altri, quando si scatenò l’inferno. Gli aerei “alleati” scaricarono 538 bombe sul porto e la stazione della città. I morti quel giorno furono 200. Salvatore lavorava al porto e fu tra i primi a rendersi conto della catastrofe imminente. Saltò giù dalla nave e si mise a correre verso i giardini pubblici.
Tra i superstiti, accalcati in quella caverna, c’era anche Tito, mio babbo.
Babbo mi raccontò che mentre si trovava al sicuro nella grotta dei Giardini Pubblici, piena di gente impaurita, si sentì bussare alla porta. Entrò un uomo, quasi non si reggeva in piedi per lo sforzo: era salito dal porto di corsa. Diceva che avevano distrutto tutto.
D’altronde, se il resoconto della distruzione non fosse sufficiente, i diari dell’epoca registrarono un esito schiacciante. Il tiro contraereo venne definito poco efficace. Solo 15 caccia italiani e 9 tedeschi si levarono in volo, un minuti prima che la squadriglia nemica giungesse sull’obiettivo, riuscendo a colpire 3 fortezze volanti. In compenso due aerei italiani (Macchi MC 202) e due tedeschi (Messerschmitt Me109) finirono nelle acque del Golfo degli Angeli. Desideravo un resoconto da parte di chi era presente quel giorno: avrei voluto chiedere a Salvatore e a Tito. Ma il primo, che nel frattempo è diventato mio suocero, era morto. E babbo si è buscato una malattia che lo ha rapinato dei suoi ricordi.
Ricordo anche che mamma raccontava altri particolari di quel giorno maledetto. Quando lei e alcuni dei suoi riuscirono a partire con un treno pochi minuti prima che la stazione fosse distrutta.
Ma perché mi sono ricordato questo episodio di guerra? Perché oggi passeggiavo col babbo ai Giardini Pubblici per trovare fresco. E il fresco l’abbiamo trovato. Poi ho visto la porta di una di quelle grotte e ho pensato a Enrico Pili. Perché? si chiederà il lettore. Ma perché uno dei suoi autori preferiti era Kurt Vonnegut, uno che di bombardamenti aveva una certa esperienza, essendo stato testimone della distruzione di Dresda. Vonnegut, nato a Indianapolis nel 1922, faceva parte di un contingente “alleato” nelle Ardenne quando fu fatto prigioniero dai tedeschi e condotto a Dresda, nel mattatoio comunale, dove ebbe modo di riflettere sugli orrori della guerra. Nel 1969 scrisse un romanzo veramente fuori dell’ordinario, intitolato “Mattatoio n. 5 o La crociata dei Bambini” (in inglese: “Slaughterhouse-Five; or, The Children’s Crusade: A Duty-Dance With Death”) nel quale compaiono gli alieni di Tralfamadore e i viaggi nel tempo ma è tutt’altro che un romanzo d’evasione. Enrico mi raccontò di aver apprezzato enormemente la capacità di interpretare la realtà attraverso la fantasia espressa da Kurt Vonnegut. E io ringrazio Enrico per avermi trasmesso questa riflessione.
Poi c’è un’altra ragione che lega la passeggiata di questo sabato pomeriggio a Enrico. L’ho capito rileggendo una mia recensione del suo “Hinterland sei“. E pensare che allora non avevo colto il messaggio, pur avendolo riportato nel mio pezzo (pubblicato nella pagina della Cultura del quotidiano L’Unione Sarda il 5 gennaio 2008): “Quando si raggiunge una certa età, dopo l’adolescenza, si comincia a sentire il sovrappeso psicologico e la nostalgia del tempo che fu. La nostalgia dell’immortalità.”
Proprio così: oggi, passeggiando con babbo accanto a quella caverna che lo aveva ospitato 68 anni fa, ho colto il senso della frase di Enrico. Ho capito che se devo scrivere qualcosa mi devo muovere, devo fare presto. E mi sono precipitato a scrivere questa pagina di ricordi. Non si sa mai.