ricordo di Remo Bodei
con interventi di Marcello Barison, Francesca Rigotti e un video con Remo Bodei
Remo Bodei era una specie in via d’estinzione. Altro che i tecnocrati di oggi – Marcello Barison
Per la mia generazione i nomi della filosofia italiana – quelli che, per intenderci, a vent’anni si “andava a sentire” – non sono poi moltissimi (e non me ne voglia chi tralascerò): Emanuele Severino, Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, Vincenzo Vitiello, Carlo Sini, Giulio Giorello, Umberto Curi, Roberto Esposito e, certamente, Remo Bodei. Non c’era festival o convegno dove qualcuno di loro non comparisse: un fenomeno molto italiano, indulgente a un presenzialismo dall’esito talora un po’ parodico, ma comunque significativo per inquadrare il rapporto tra filosofia e divulgazione in un mondo, quello dopo la caduta del Muro, in cui gli “intellettuali”, per illudersi di giocare ancora un ruolo, hanno dovuto aggiornare il loro profilo da engagé a pop o simil-pop.
Così, raggiuntami la notizia della morte di Bodei, mi ha colto una strana malinconia, legata non tanto al suo lascito “speculativo”, ma al prendere coscienza che una figura che in qualche modo ha accompagnato anche il mio percorso di studio e di ricerca è venuta meno. Era abituale che ci fosse, che, con certa frequenza, uscisse un suo libro, o che, di tanto in tanto (magari a distanza di qualche anno), capitasse una conversazione o un incontro, da una parte o dall’altra del globo.
Sulla biografia filosofica di Remo Bodei molto in questi giorni è stato scritto. Anziché sondare da diversa prospettiva i territori, vari e amplissimi, delle sapienti divagazioni di cui era maestro, preferirei allora tentare, in poche battute, un ritratto qualitativo – dunque né dossografico né bibliografico – del suo tipo intellettuale: la figura di un laico chierico globale, enciclopedico ma con disinvolta sobrietà, dotato di conoscenze accuratissime quanto straordinariamente estese, e di una memoria prodigiosa, la cui monumentale erudizione era soggetta a un ridimensionamento continuo operato dall’immancabile ironia che, anch’essa spesso su base aneddotica, fungeva da corrosivo delle proprie stesse affermazioni. Come a smitizzarle per far intendere che, nella matassa dei nessi, c’erano sempre altre strade da percorrere, altre suggestioni da seguire, affini ma anche dissimili da quelle già evocate.
Per tutte queste caratteristiche, il nome di Bodei è sinonimo di instancabile curiosità e di quella che un tempo si sarebbe detta cultura. Parola oggi quasi impronunciabile poiché da un lato disprezzata con orgoglio da tutti quelli che non ce l’hanno e dall’altra espunta da una classe universitaria di tecnocrati variamente digiuni di nozioni elementari, i quali, presi come sono a affastellare paper e pubblicazioni di nessun interesse, hanno orgogliosamente abolito la figura dell’intellettuale novecentesco, rimpiazzandola con quella di impiegati del sapere che farebbero fatica a fare una lezione su un tema anche poco distante da quello del loro Ph.D.
Mentre invece personalità come Bodei erano in grado di confrontarsi con gli specialisti di qualsiasi argomento (nell’ambito delle “scienze dello spirito“, beninteso) dimostrando in ogni campo di avere idee più precise e penetranti dei presunti “esperti”. Perché il suo habitus mentale, che a un’assidua disciplina nello studio affiancava la passione per l’intelligenza in tutte le sue epifanie, si basava sull’assunto – oggi incomprensibile ai più – che conoscere a memoria la Divina Commedia incrementa in modo fondamentale la nostra capacità di capire l’epistemologia di Paul Dirac, le tre critiche kantiane, i Moralia di Plutarco o i romanzi di Henry James.
O che la conoscenza delle lingue classiche è un prerequisito essenziale per poter anche solo pensare di dire qualcosa di sensato in filosofia (anche se si sta scrivendo un libro sul design o sulla teoria contemporanea dell’informazione). Affermazioni, queste, che basterebbero oggi per far licenziare in tronco interi Dipartimenti per manifesta incompetenza.
L’intellettuale onnivoro, che ha passato decenni sui libri, frequentando indifferentemente musei, cinema o sale da concerto, o magari esplorando città e che non ha mai saputo perdere davvero tempo – perché tutto, nella sua vita, è stato un “enorme esperimento volto alla conoscenza”, dunque all’assimilazione e all’espressione -, questo peculiare tipo d’uomo la cui vita ha anzitutto – ma con la debita mitezza – la forma del sapere, è del tutto in via d’estinzione.
E viene anzi guardato con diffidenza, e non di rado sufficienza, da più o meno giovani schiere di “studiosi” col curriculum inappuntabile che, a chiederglielo, non saprebbero nemmeno dire la data della presa di Costantinopoli o che cosa sia la Dottrina Monroe. Il miglior modo di rendere onore a figure come quella di Bodei sarebbe lottare perché il tipo di desiderio che ha incarnato continui a vivere e ad avere un suo legittimo posto nel mondo.
Ogni volta che s’incontrava Remo Bodei si aveva la certezza che si sarebbe imparato qualcosa di nuovo. Che ci si sarebbe infilati nella prima libreria a cercare un titolo, o dritti a casa a colmare una lacuna di cui sotto sotto c’era da vergognarsi. Quanti, oggi, nel mondo universitario condividono queste urgenze o almeno capiscono di cosa si stia parlando?
Remo Bodei ha lasciato andare la gomena della vita – Francesca Rigotti
Ogni tanto lo si incontrava a festival e congressi filosofici un po’ ammaccato; una volta zoppicava un po’, un’altra aveva un braccio al collo; ognuno sarebbe rimasto a casa, invece Remo no. Se Remo Bodei aveva preso un impegno, lo rispettava fino in fondo, appena possibile: «Sono coriaceo», diceva di sé, da bravo stoico; coriaceo come la suola di una vecchia scarpa. Ma questa volta non ce l’ha fatta neanche lui e se ne è andato e ci ha lasciato tutti orfani, filosofi e no. Soprattutto i non filosofi, perché più di ogni altro Bodei era riuscito a portare la filosofia nelle strade e nelle piazze, come Socrate. E l’aveva fatto con quell’invenzione geniale che fu, anche nel nome, il Festival della Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, così che dal 2001 strade e piazze e chiese e palazzi di quei luoghi ospitano le migliaia di persone che dedicano anche soltanto un poco del loro tempo alla riflessione filosofica. Viene allora da chiedersi: ma veramente anche tutte quelle persone che sono state sedute su quelle migliaia di sedie di plastica nella piazza Grande di Modena infuocata dal sole, o nella immensa spianata di Carpi in nome di Socrate, Kant e Arendt, opteranno per il verbo pupulista, sovranista, primanostrista, mettendo il loro voto nelle mani dei promotori della chiusura, della discriminazione e dell’odio?
Tra le tante altre aree di interesse, Bodei si è occupato anche delle passioni: passioni calde come l’ira, bollente, furiosa, rossa. E passioni tristi come l’odio, gelido e calcolato, alimentato e accudito costantemente. L’odio fa parte di quelle «passioni tristi» di cui parla Spinoza, il grande filosofo olandese del ‘600, le quali, insieme all’invidia e all’avarizia, deprimono la nostra voglia di vivere. L’odio è una passione individuale pronta a trasformarsi in sentimento collettivo, addirittura in collante sociale nel momento in cui viene a coinvolgere varie persone e gruppi. Si tratta di un fenomeno ben noto e sul quale hanno giocato nei secoli ogni sorta di trascinatori di masse, proprio perché è molto più facile tenere insieme la gente «contro» qualcuno o qualcosa che a suo favore; l’odio rinsalda i sentimenti di solidarietà e appartenenza, trasformando «noi» nei buoni e «loro» nei cattivi. Contro di loro viene sviluppato l’odio nei confronti dell’altro che unisce e motiva, muove e stimola i noi. Non permettiamo che l’odio prevalga, quell’odio che in tanti casi ha portato al dominio cui è dedicato, et pour cause, l’ultimo libro di Bodei.
Dominio
Dominio degli uomini su altri uomini; degli uomini sugli animali; dei maschi sulle femmine; degli uomini sulle macchine e, nel gran finale aperto, di noi sui robot o dei robot su di noi. Il dominio di alcuni e la sottomissione di altri è il filo rosso, il motivo conduttore – ma di motivi ce ne sono tanti altri – del grandioso affresco tracciato da Remo Bodei in questo libro a più piani: Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale, Bologna, il Mulino, 2019, pp. 408, in cui si analizzano il passato e la storia congiungendoli col nostro presente fugace e con il futuro dell’attesa, del timore, dell’imprevedibilità.
Bodei è autore i cui interessi, partiti da solidi studi sulla filosofia idealistica tedesca, si sono man mano estesi, con studi non meno solidi, verso la filosofia della tarda antichità (Agostino), verso l’estetica, la teoria e storia della scienza e della tecnica, dell’oblio, dell’individualità, della natura delle passioni (l’ira!) e della coscienza, incluso il fenomeno del déjà vu. Senza dimenticare le analisi del mondo delle cose con la sua pluralità di sensi e significati. E man mano che l’orizzonte di Bodei si allargava, crescebat eundo, si offriva agli occhi del lettore la comprensione e interpretazione del mondo a noi contemporaneo in cui è bello inoltrarsi avendo come guida le parole del filosofo. Molte delle opere di Bodei poi, più che procedere inanellandosi, sembrano uscire l’una dall’altra come Eva dalla costola di Adamo, per poi acquistare vita autonoma e indipendente. Spero di non sbagliarmi facendo nascere Dominio soprattutto da Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri (Milano, Feltrinelli, 2013), dove Bodei disegnava la grande mappa dei nostri paesaggi interiori, distendendocela davanti in modo tale da permettere a noi di capire dove siamo e renderci conto dei problemi e delle tematiche dell’oggi osservate da un punto di vista filosofico.
Un Bodei quasi arendtiano
In questo testo sono comunque il concetto e la pratica del dominio a tener campo, senza però che il sistema del dominio, in cui alcuni detentori del potere comandano e altri sono comandati e sottomessi, diventi il modo «naturale» di pensare e agire degli umani che stanno insieme politicamente. Un Bodei quasi arendtiano dunque, se per Hannah Arendt politica è esperienza di un potere diffuso, partecipativo, relazionale, plurale; se essere liberi nella polis è essere liberi dalla diseguaglianza connessa a ogni tipo di dominio; se, per una Arendt quasi anarchica, è esperire la politica come interagire plurale in uno spazio pubblico condiviso. Un Bodei dunque che mi pare non condividere l’idea del vivere insieme come inesorabilmente e necessariamente determinato dal modo in cui si domina, si esercita il potere, si governa. Tant’è che il filosofo mette in dubbio il dogma antropologico dell’impossibilità di uscire dall’aggressività congenita al genere umano, la Menschheit priva di Humanität sostenuta da Sigmund Freud, Elias Canetti e Konrad Lorenz, ma anche da Oriana Fallaci e James Hillman. Quello di Bodei è piuttosto uno sforzo di comprendere come sia (stato) possibile che esseri umani abbiano trasformato altri esseri umani in schiavi costretti a lavorare in condizioni disumane, o a far vivere lavoratori salariati in condizioni di quasi schiavitù. L’analisi della condizione degli indios dell’America spagnola, ridotti sistematicamente e di fatto in schiavitù già poco dopo i viaggi di Colombo, mette di fronte a torture inimmaginabili, a comportamenti crudelissimi spiegabili, se l’orrorismo si può spiegare, con il disprezzo nei confronti di coloro cui veniva negata una umanità pari a quella dei cattolicissimi bianchi spagnoli, i «nostri» che allora si pensava di mettere prima. Che inoltre il malgoverno predatorio istaurato dagli spagnoli nel Nuovo Mondo e diretto a saziare la loro maledetta fame d’oro, alla quale vengono subordinati tutti gli altri valori politici o religiosi ufficialmente professati, sia una specie di apriori – ipotizza Bodei – che continua a perseguitare con la corruzione e il malgoverno endemici il destino degli Stati latino-americani?
Il peso di Aristotele
Tornando alla messa in schiavitù degli indios e dei neri africani trasportati nelle Americhe (si calcola tra i 12 e i 17 milioni di individui), e alle giustificazioni che si davano conquistadores e negrieri, ma anche la brava gente normale, vi intervenne certo il peso determinante della visione aristotelica della schiavitù e della inferiorità naturale, che andò così a influire sulle vicende di molti milioni di uomini e di donne, giacché «è nella natura delle cose che il superiore comandi l’inferiore» (e poi si dice che la filosofia non conta niente). Così come influirono sull’idea che la schiavitù vada accettata le dottrine di illustri pensatori cristiani, da Paolo di Tarso a Agostino a Tommaso d’Aquino.
Fu tuttavia proprio anche il confronto filosofico, teologico e politico del ‘500 spagnolo a riscattare gli indios dalla loro condizione di schiavitù, scrivendo il certificato di nascita delle moderne teorie dei diritti umani – nella lettura di Bodei che leggermente si discosta da chi attribuisce la paternità di tali teorie alla reazione alle guerre di religione seguite in Europa alla Riforma luterana. In ogni caso i diritti umani sono qui presentati non come valori astratti dotati di un fondamento naturalistico ma, in concordanza con la interpretazione di Norberto Bobbio, quali esigenze e rivendicazioni storiche che finiscono alla fine per favorire tutti i membri della società.
Ancora Aristotele è il punto di partenza per introdurre il tema delle macchine e del loro funzionamento e la relazione con il lavoro umano di tipo schiavistico, spiega Bodei in questo testo che è ricostruzione e narrazione storica così come analisi concettuale, genealogia così come costruzione. Se le macchine funzionassero da sole – scrive Aristotele nella Politica [I, 4, 1253b-1254a] – e gli strumenti si muovessero in maniera automatica, non ci sarebbe bisogno di schiavi perché strumenti e macchine diventerebbero i nostri schiavi. Già Cratete di Atene, comico della generazione precedente a quella di Aristofane, scrisse nelle Bestie, che un giorno gli utensili si avvicineranno a noi al solo chiamarli, e il pane si impasterà da solo, il pesce si autoarrostirà sulla piastra, l’acquedotto porterà l’acqua calda e «il vasetto di sapone verrà da solo all’istante, così come la spugna e i sandali!» (p. 79).
Il dominio delle macchine
Se poi i nuovi strumenti-schiavi si ribelleranno, essendo riusciti a sviluppare oltre all’intelligenza anche la volontà in quel futuro a detta di alcuni imminente in cui si sia raggiunta (sic) la singolarità, è l’utopia/distopia con la quale ci troviamo oggi confrontati. Saranno le macchine, saranno i robot che, avendo assorbito intelligenza e volontà e non più coadiuvando bensì sostituendo l’essere umano, eserciteranno il dominio su di noi e faranno diventare noi i nuovi schiavi controllando il movimento i nostri corpi, in sintonia con la spiegazione di Tommaso d’Aquino, per il quale il corpo dello schiavo viene manovrato dal padrone? Saremo liberi di non obbedire? O le macchine ci renderanno schiavi anche soltanto sottraendoci le attività lavorative per consegnarci ai secoli di noia del tempo liberato dal lavoro e della fine della storia, guidati e accuditi e deresponsabilizzati quali infanti?
Al tempo è dedicata la quinta e ultima parte del libro di Bodei, come una conclusione del lavoro: in particolare alle sue tre classiche e fondamentali dimensioni, presente, passato e futuro, tutte da rispettare e comprendere giacché «la vista acquista maggiore pienezza solo se le tre dimensioni sono – per quanto è possibile – armonicamente intrecciate tra loro» (p. 398).
Intrecciare e srotolare la gomena
Bodei propone di srotolare il passato mantenendone memoria, per ricongiungerlo al presente e proiettarlo sul futuro. Come se il tempo – il paragone è di un antico stoico – fosse una gomena le cui fibre formano una serie di intrecci non lineari che si avviluppano in una «successione relativamente coerente pur nelle sue torsioni» (p. 379). Non può non venire in mente la fune di Wittgenstein – autore oggi ingiustamente poco frequentato – che nelle Ricerche filosofiche [I, 67] descrive il formarsi di una «famiglia» di concetti (es. di numeri) attraverso le sue somiglianze, in virtù dell’intreccio di fibra su fibra: «La robustezza del filo non è data dal fatto che una fibra corre per tutta la sua lunghezza, ma dal sovrapporsi di molte fibre […] Un qualcosa percorre tutto il filo, cioè l’ininterrotto sovrapporsi di queste fibre».
I fili della gomena di Bodei ritornano qui ma per diventare i rapporti con noi stessi e gli altri, che formano la nostra personalità, tanto più robusta «quanti più fili sarà riuscita a intrecciare e quanto meglio sarà stata capace di annodarli» (p. 391). Semplici esercizi di ricomposizione della mente e dell’animo, rivalutazioni del silenzio, del buio e della «vita semplice», di Diogene nella botte e di Greta nella barca. È lo svolgere il filo della continuità della vita di ciascuno, della navigatio vitae, dove è cosa saggia lanciare talvolta la gomena legata all’ancora e far ormeggiare il pensiero e l’attività frenetica per esercitare pause di riflessione, fermandoci ogni tanto a meditare sulla vita. E a pensare a come azzerare le condizioni del dominio che rischia di dimezzare il mondo in ricchi annoiati e poveri disperati e schiavizzati.
dice Remo Bodei:
Ciascuno di noi vive nell’immaginazione altre vite, alimentate dai testi letterari e dai media. Per loro tramite tenta di porre rimedio alla limitatezza della propria esistenza. (citato in Corriere della sera, 16 gennaio 2009, da qui)