Salario Jones, i granchioni e il nuraghe giallo-nero

di Massimo Ruggeri

Eravamo da un’ora sott’acqua nei pressi dell’isola di Caprera e ci accingevamo a riemergere, io e il buon Gualtiero, quando fui colpito da uno strano impennaggio che sbucava dal fondale. Avevamo censito per la Regione la presenza in quelle acque del famigerato granchio blu, specie aliena originaria del Nordamerica che ormai da 5 anni bullizzava l’intero ecosistema marino italiano. Controllai l’orologio, l’ossigeno era agli sgoccioli, feci cenno un minuto al mio compare e scesi di qualche metro. Si rivelo’  essere un’antenna e con le mani, poi col pugnale, presi a scavare tutt’attorno, freneticamente, avevo un sospetto che man mano che disseppellivo andava consolidandosi. Si accese la spia sul manometro e dovetti risalire. A bordo dello scalcinato natante Gualtiero si  sporse e afferro’ le mie bombole vuote. Sorrideva e fumava: quando gli dissi che là sotto avevo trovato qualcosa fece un ghigno di scetticismo. Ci rifocillammo con grissini ai cereali, frutta e acqua dolce d’Ogliastra. Col fiammifero antivento accesi anch’io una sigaretta e dissi all’amico che secondo me lì sotto era seppellito un aereo.

«Bum» fece subito: «e che aereo sarebbe?».

«Un caccia, forse un Macchi 200 ‘Freccia’, seconda guerra mondiale» risposi.

«Ho paura di trovare a bordo i resti del pilota» sibilo’ rabbuiato Gualty.

«E allora non venire» feci io.

«No no, andiamo insieme» insistette lui.

Il tettuccio era ritratto e all’interno dell’abitacolo serpeggiava un polipo, le 2 mitraglie infossate nel cofano motore erano incrostate di molluschi ma nel disegno originale erano programmate per sparare attraverso l’elica. Il Saetta era un caccia nato gia’ obsoleto, coi carburatori invece  che l’iniezione diretta, il pilota non poteva fare il volo rovesciato senza correre il rischio dello spegnimento del motore.

Fluttuammo attorno alla fusoliera e notammo lo stemma di squadriglia… Ci guardammo perplessi attraverso le maschere; mai visto, letto nè sentito parlare di quello strano simbolo: un nuraghe stilizzato nero su campo (una volta) giallo. In Sardegna negli anni ’40 operava uno stormo di aviatori italiani equipaggiati con vecchi Stukas dismessi dai tedeschi. “Picchiatelli” erano chiamati e fra le loro file spiccava un asso che aveva messo a punto un audace sistema di bombardamento navale in cui la bomba sganciata dopo la picchiata ad una certa angolazione, rimbalzava sull’ acqua ed esplodeva sullo scafo nemico. Il loro stemma distintivo era chiaramente un picchio. Ma un nuraghe… boh.

Il motore radiale, corroso per meta’, aveva una pala dell’elica mozzata e le altre 2 piegate e divorate dalla ruggine. Il relitto, o quel che ne rimaneva, era adagiato sul fondale  con una certa  compostezza, come se il pilota pur colpito fosse riuscito ad ammarare.

Gualtiero “pinnò” verso un’ala e prese a esaminarne il flap, io tornai verso l’abitacolo dove il polipo era sparito e mi avvicinai al pannello dei comandi. Spartano e primitivo anche nella strumentazione, il Freccia era stato il primo aereo da caccia della Regia Aeronautica non biplano e col carrello retrattile, messo in produzione a fine anni ’30. Chissa’ quell’esemplare a quale squadriglia apparteneva. Un raggio di luce filtro’ dalla superficie e colpi il vano della pedaliera: accecante un riflesso    turchese brillo’. E si muoveva. Riconobbi le chele, il motivo del nostro incarico: il granchio blu. Mi girai in cerca di Gualtiero, lui era un bravo fotografo e volevo fargli immortalare il cròstaceo. Ma non lo vidi. Forse era risalito, non era la prima volta che aveva bisogni corporali improvvisi. Avevo in dotazione oltre al pugnale anche una lancia pinzata con la quale avrei potuto afferrare il granchio e portarlo a bordo del Carolina, la nostra tinozza oceanografica (!) per fotografarlo alla luce naturale del sole. Mi protesi nel posto di pilotaggio e allungai la lancia fra i pedali, aprii le pinze e con buona velocita’ e destrezza le richiusi fra la corazza superiore e la cartilagine inferiore. La scossa procurata dal contatto con una medusa era solo una larvata idea di cio’ che provai in un nanosecondo. Mollai tutto, terrorizzato ed elettrificato, annaspai fino alla superficie. Tolsi maschera e boccaglio e cercai disperato la fidata mano di Gualtiero che di solito mi prendeva le bombole e mi aiutava a issarmi a bordo. Mi guardai tuttattorno ma non c’erano nè lui nè la nostra barca.

…      ( ……..disperazione……..  )   ….

Poi il cadenzato pot pot di un motore diesel in avvicinamento riaccese la speranza. Da una torretta posta al centro di un lungo battello grigio scuro un uomo col berretto guardava nel binocolo, mentre più in alto garriva al vento una bandiera con la croce uncinata.

NOTA DELLA “BOTTEGA”

Sull’esistenza di Massimo Ruggeri e sulla sua natura bifide o trifide da tempo si scontrano i teologi. Noi sappiamo di non sapere. Segnaliamo solo che in questa (fresca) recensione «L’anniversario e altri racconti» si accenna a un Atlantis Campos in Sardegna.

 

Redazione
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