Salute: cosa bolle in pentola
di Marco Caldiroli, presidente di Medicina Democratica (*)
La “sanità” è caratterizzata da strutture e ambiti definiti “politicamente” come altri aspetti del welfare (“produzione” di salute collettiva e individuale) e agisce (o non agisce), direttamente o indirettamente, sulla ampia gamma dei determinanti della salute (condizioni lavorative, di vita, ambientali). Le “pentole” in ebollizione sono diverse per contenuti e “livelli” ma anche per le direzioni.
Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza vi è una dichiarata “sterzata” verso il potenziamento della medicina territoriale (case di comunità, ospedali di comunità, medicina di “prossimità”), un richiamo alla impostazione della riforma sanitaria del 1978 e dello strumento della Unità Socio Sanitaria Locale ove il sociale è integrato al sanitario, l’aspetto locale è fondativo (in contrapposizione con il modello di aziendalizzazione successivo e del conseguente ospedalocentrismo più o meno accentuato a seconda della regione).
La pentola del PNRR sobbolle su questo tema e i prossimi mesi saranno decisivi per individuare quale sia il “paradigma” sotteso alle dichiarazioni fatte per ottenere i finanziamenti (la gran parte prestiti) europei. Per questo alcune anticipazioni Agenas sulle linee guida relative alle case di comunità sono preoccupanti: si chiede ai medici di medicina generale (il fulcro delle case di comunità) di dedicare 2 ore alla settimana a tale attività, palesemente inadeguata sia in termini di servizio che di concretezza; e non risponde certo alle tante vertenze territoriali sul tema.
Nel PNRR, per sua nascita, non vi è la voce “operatori”, che questi siano fondamentali appare ovvio ma non risolto. Molto bolle in pentola da questo lato, lavoratori/lavoratrici hanno fatto sentire la loro voce ma permane il peso della zavorra dell’ “obbligo fiduciario” che mette il dipendente in balia del datore di lavoro non permettendogli di segnalare criticità pena la perdita del lavoro, per non dire della sempre più estesa precarietà e la esternalizzazione di tutti i servizi possibili.
Il tema della autonomia differenziata è parallelo e foriero di ulteriori sfracelli smontando anche quel che rimane dei Livelli Essenziali di Assistenza che hanno fatto da “cerotto”, ora sempre meno, a 21 sistemi diversi l’uno dall’altro (in Lombardia anche singole aziende sanitarie si possono organizzare diversamente).
Una pentola regionale da tenere d’occhio particolarmente è quella della Lombardia, apripista delle peggiori e più incisive iniziative di smontaggio e distruzione del servizio sanitario pubblico a favore del privato. La legge Moratti approvata il 30 novembre rilancia il modello precedente, costruito con solerzia e impegno dal 1997. Per ottenere i 1,2 miliardi di spettanza dal PNRR la legge contiene formalmente le strutture di medicina territoriale ma subito dopo le definisce “equivalenti” (in precedenza si parlava di “parità”) con il privato, apre alla gestione delle stesse da parte di quest’ultimo e inserisce nel “sistema” le mutue, le assicurazioni e il “welfare aziendale”. Un vero e proprio passo del gambero che ci porta a prima del 1978 ma soprattutto accentua le discriminazioni all’accesso alle cure (già oggi in Lombardia la stessa struttura privata accreditata/convenzionata tratta il “cliente” in almeno quattro modi diversi : utente del servizio sanitario, in fondo alla lista d’attesa; con una aggiunta di pagamento si accorcia l’attesa; con una mutua/assicurazione si accede alle corrispondenti prestazioni a seconda della “ricchezza” del “prodotto” riducendo l’attesa; pienamente pagante: prestazioni immediate e scelta del medico).
Tale impostazione non è in contrasto con il PNRR che non fa scelte o chiare distinzioni tra pubblico e privato rischiando, ancora una volta, di dare pietanze pubbliche in abbondanza a chi ha come obiettivo principale della attività in campo sanitario il profitto e non la salute pubblica. Eppure dovrebbe essere chiaro che i cittadini/e non sono clienti ma portatori del diritto alla salute.
A fronte di quanto è stato deciso o si approssima a decisioni del genere vi è fortunatamente un soggetto che ha acquisito una maggiore forza anche “grazie” all’emergenza e la sfida che la pandemia ha determinato.
È un vaccino antiprivatizzazioni costituito dalle associazioni e dalle realtà sociali che sono tornate a parlarsi anche oltre gli ambiti e le vertenze locali e può produrre numerosi “anticorpi popolari”.
Senza sminuire altre iniziative penso che la principale, in termini di possibili sviluppi futuri e di ampiezza di “presa in carico” di temi, è quella che ha avuto una prima tappa a Bologna il 6-7 novembre scorso: “Come si esce dalla sindemia”. Come_si_esce_dalla_sindemia_-_Report_finali_dei_4_tavoli_di_lavoro I quattro tavoli di lavoro (“sistema sanitario”, “cos’è la salute?”, “pandemia: a che punto è la notte?”, “mobilitazione: che fare?”) hanno condiviso alcuni concetti di base sul tema, confrontando esperienze distribuite in Italia e hanno proposto un percorso comune. Il tavolo sulle mobilitazioni ha avuto infatti un esito che merita di essere riportato ampiamente a partire dalla condivisione di essere contro la mercificazione e la privatizzazione della salute come la necessità di lottare localmente e in connessione con “le battaglie ecologiste, femministe, per il diritto alla casa, al reddito, per l’abolizione del carcere, insomma di tutte le lotte che sono, in fin dei conti, la lotta comune per il diritto alla salute” (…) Concludendo con le seguenti proposte operative:
- Urge una piattaforma comunicativa. Non solo serve una piattaforma “centralizzata” capace di assorbire per poi diffondere le informazioni (vertenze, scadenze, lotte, interviste, azioni, ecc.) che provengono da tutti i territori, ma serve soprattutto una piattaforma “rizomatica” in cui le varie realtà abbiano la possibilità di connettersi le une con le altre in maniera autonoma, secondo le proprie libere iniziative.
- Serve uno slogan comune, capace di essere elemento universale amalgamante di realtà così tanto diverse. Per questo è stata proposta la frase «la salute non è una merce», ma anche l’idea di un manifesto con poche rivendicazioni universali comuni e quella di una bandiera che, da nord a sud, possa essere sempre riconoscibile.
- Infine, è stata sentita la necessità di aprire nuovi percorsi comuni. Percorsi che secondo molti del tavolo dovrebbero portare verso una data durante la quale poter iniziare a sperimentare pratiche di lotta comune e capillare sui territori, ma che secondo altri compagni invece non dovrebbero ridursi ad una semplice data di mobilitazione, per provare a essere invece qualcosa di più profondo, capace di costruire relazionalità più intense ed efficaci nel tempo. Nel medio, lungo e lunghissimo termine.”
Tra le tante pentole, alcune indigeste, almeno una che propone una dieta salutare.
manifesto di Ilaria Carcano presente nella serie di poster di Art.32 – Salute pubblica bene comune (CC BY-NC-ND)
(*) ripreso da www.medicinademocratica.org che rimanda al sito di Attac Italia indicando questo articolo come tratto dal «Granello di Sabbia» numero 48 del gennaio-febbraio 2022
Iniziative straordinarie per contenuti e progetti. Ma. Mi permetto di aggiungere un ma. Perché se è vero che stiamo vivendo un vero e proprio fenomeno sindemico (passatemi il termine) è anche vero che questo ha portato al pettine centinaia di nodi insoluti del nostro sistema sociale in generale. Non credo nelle bacchette magiche (anche se ce ne sarebbe davvero bisogno): i tempi per realizzare un vero e proprio sistema di assistenza territoriale in un Paese che vede una preponderanza di cittadini “anziani” (dai 65 anni in su: tra loro anche il sottoscritto ahimè) e che ha una davvero bassa percentuale di nascite (arricchita in particolare dalla presenza in Italia di un gran numero di immigrati la cui qualificazione come cittadini dovrebbe essere automatica all’atto della nascita), il sistema sanitario sarà il perno centrale intorno al quale ruoterà gran parte della vita sociale degli italiani da qui al 2050 (una data fatidica secondo il Censis). Quello stesso sistema deve oggi fare i conti (l’accenno a quanto è avvenuto e avviene in Lombardia, spinto in gran parte dai governi berlusconiani è fondamentale) con un grave errore storico. Il passaggio alle Regioni dell’autonomia legislativa per quanto riguarda la sanità. Quale entità amministrativa ha creato più problemi nella fase più critica dell’epidemia? Le Regioni. Quale orgnismo governo ha dato vita alla frammentazione del sistema sanitario nazionale creandone, di fatto, venti diversi? Le Regioni. Dove nasce il sistema del contingentamento delle prestazioni sanitarie (cito ancora una “vecchia” analisi del Censis)? Nelle Regioni. Insomma un affido di competenze che ha finito col mostrare la corda e la pandemia ne ha messo in mostra la fragilità intrinseca. Troppi i punti sui quali occorre intervenire (i centri di acquisto decentralizzati dove in ogni Regione per lo stesso device si pagano prezzi diversi sono uno degli esempi più eclatanti). Quindi? Prima di ogni programma di azione è necessario fare un passo indietro. E magari riproporre un referendum per togliere alle Regioni qualsiasi potestà decisionale in Sanità. Mi si dirà che è impossibile ma pur essendo una strada tra le più tortuose tra quelle esistenti, a mio modestissimo parere è la principale per riuscire davvero a dar nuovo respiro a un sistema sanitario nazionale e universale. Chiudo salutando tutti gli amici e confessando che votai proprio a favore del sistema di responsabilizzazione regionale al referendum. Ma gli errori in sanità sono stati troppi e troppo evidenti per non riconoscere che quel referendum si è dimostrato, almeno in questo settore cruciale, davvero fallimentare.
A me sembra una buona idea.
L’intervento di Marco Caldiroli è importante, poichè segnala che una serie di realtà territoriali si stanno coordinando per contrastare il disegno che attraverso l’autonomia differenziata punta a ulteriormente privatizzare la sanità pubblica . Non è un caso che su Il Corriere della sera del 16 dicembre Attilio Fontana e Luca Zaia siano intervenuti per rivendicare ” Più autonomia alle regioni per fare funzionare i territori “, nel vuoto delle voci critiche anche a sinistra, al di là di qualche intervento su Il manifesto, Left, MicroMega.Per contrastare questo progetto serve una efficace mobilitazione di piazza, in grado di mettere in luce la devastazione intervenuta in quest’ultimo trentennio , grazie all’introduzione dell’aziendalizzazione del servizio pubblico e lo pseudo-federalismo differenziato introdotto con il referendum sul titolo quinto del 2001.