Sandino, Marx e Gesù non passeggiano più in Nicaragua

Chissà cosa avrebbe detto Giulio Girardi dell’attuale deriva orteguista. Di fronte all’arroganza del danielismo meriterebbe trascorrere un po’ del proprio tempo nella lettura o rilettura del suo Sandinismo, marxismo, cristianesimo. La confluenza.

di Bái Qiú’ēn

dichiaro all’intero universo, con tutta la forza del mio essere, che sono un comunista razionalista (A.C. Sandino, 27 maggio 1933)

Jacques Attali non è e non è mai stato un marxista. Ma anche lui arriva alla conclusione che oggi più che mai Marx ha qualcosa da dirci (Eric Hobsbawm)

Y, pues contáis con todo, falta una cosa: ¡Dios! (Rubén Darío)

Per uno di quegli strani e spesso incomprensibili collegamenti mentali che a volte capitano, mentre stavamo leggendo Karl Marx ovvero lo spirito del mondo (Karl Marx ou l’esprit du monde, 2005), dell’economista non marxista francese Jacques Attali nel quale l’autore scrive: «Lenin muore nel gennaio del 1924 […] Stalin […] ha bisogno di deificare Lenin […]. Così fa piazzare dappertutto l’effige del fondatore dell’URSS al fianco di quelle dei fondatori del marxismo, nel seguente ordine: Lenin, Engels, Marx» (Fazi Editore, 2006, p. 313), il nostro pensiero è volato indietro di oltre trent’anni, a una calda mattinata agostana in cui stavamo gironzolando tra gli scaffali della fornita libreria del Centro ecumenico «Antonio Valdivieso». Da una cigolante porticina sul retro sbucò la capigliatura bianca di Giulio Girardi. Quando era a Managua, viveva in una stanzetta poco più grande di un ripostiglio, con un letto, un tavolino e una sedia. Ci eravamo già incontrati da qualche parte in Nicaragua, non ricordiamo in quale occasione, e ci salutammo abbracciandoci alla maniera sandinista, per poi sederci tranquillamente nel piccolo patio sul retro, sperando in un po’ di fresco. Ogni tanto arrivava qualcuno, alcuni a noi sconosciuti e altri noti, come padre Uriel Molina che, impietosito per il sudore che gocciolava dalle nostre fronti e bagnava abbondantemente le nostre magliette, ci portò un fresco di pitahaya ricolmo di ghiaccio. È il frutto di un cactus, assai più grande dei nostrani fichi d’India e di colore rosso scuro.

La lunga chiacchierata a ruota libera con Girardi spaziò sui tre argomenti allora da lui indagati: il cristianesimo, il marxismo e il sandinismo. Contribuendo a eliminare quel dogmatismo e quel settarismo che all’epoca ancora ci pervadeva.

Davvero meriterebbe trascorrere un po’ del proprio tempo nella lettura o rilettura del suo Sandinismo, marxismo, cristianesimo. La confluenza (Borla 1986), ormai introvabile in qualsiasi libreria che non sia antiquaria. Meditando ogni singola parola e confrontandola con ciò che è la realtà attuale, distante anni luce da quegli anni in cui pareva che un sogno potesse davvero realizzarsi.

«Nella prospettiva di Sandino, come abbiamo visto, il popolo non è solo il soggetto della lotta di liberazione, ma è anche il fondamento della certezza della vittoria, nonostante la sua apparente impossibilità. La stessa audacia s’incontra nell’impostazione del Fronte Sandinista, a partire dalla stessa fiducia nel popolo» (p. 144).

Ciò era valido alla metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando non esisteva una semplice virgola. Mentre chiacchieravamo con Girardi, a volte pure polemicamente e forse in modo troppo schematico, da parte nostra affermavamo come distinzione ideologica irrinunciabile la differenza non solo linguistica, ma storico-sociologica tra «popolo» e «classe» (cfr Luciano Gallino, Sociologia della politica, 1989).

Del «popolo», in quanto complesso degli individui di uno stesso Paese, fanno parte gli individui che formano le varie «classi sociali» e le relative tendenze politiche, le quali non possono essere omogeneizzate in un tutto unico, essendo contrastanti tra loro in quanto a visione del mondo e aspettative.

– Secondo te, cosa significava la definizione che Sandino diede di se stesso: «yo lo declaro al Universo entero, con toda la fuerza de mi ser, que soy comunista racionalista»?

Domanda fattaci quasi a bruciapelo, alla quale balbettammo una risposta che non ricordiamo esattamente, ma di certo arrampicandoci un po’ sui classici specchi degli antichi dogmatismi che ancora ci avvolgevano.

Spesso puntandoci gli occhi con il suo sguardo serio e profondo, Girardi partiva da un punto fermo e irrinunciabile: contro la dittatura somozista che impediva a chiunque qualsiasi spazio di libertà, tutti erano «popolo», che non è omologo di «interclassismo». Non confondeva il «popolo» con la «classe», ma lo collocava storicamente come «opposizione popolare» alla tirannia e, pertanto, partecipante in misura maggiore o minore alla «Rivoluzione popolare»: «molti dei quali abbandonavano la sicurezza e le comodità di una famiglia borghese, per intraprendere una vita di austerità e di rischi. Che sacrificavano i loro affetti e i loro amori per la causa del popolo» (p. 245).

Del resto il FSLN non nacque marxista, lo divenne nel corso della sua storia, fondendo senza dogmatismi né settarismi Marx con Sandino ed Ernesto Guevara con il prete colombiano Camilo Torres, precursore della teologia della liberazione: «Donde cayó Camilo nació una cruz pero no de madera sino de luz» (Víctor Jara, 1969).

Citando ancora dal libro di Girardi: «Il Fronte Sandinista, che è stato l’avanguardia del popolo nella lotta rivoluzionaria, è consapevole (almeno in vasti settori) del fatto che questa qualifica rimane vera solo se si consolida l’identificazione tra il popolo e il gruppo dirigente» (pp. 369-70).

Pubblicò queste parole nel 1986, mentre era in corso una feroce guerra di aggressione e un blocco economico-commerciale, che dal 1990 non esistono più. In compenso, da allora in poi, il FSLN e soprattutto la sua dirigenza ai massimi livelli ha percorso parecchia strada, in retromarcia, e abbandonato completamente «la costruzione ed il consolidamento della nuova egemonia» (p. 424), fidando essenzialmente sull’occupazione delle strutture statali a tutti i livelli e sulla forza poliziesco-militare, iniziando a propagandare l’idea che il Nicaragua sia un Paese socialista, cristiano e solidale. Al di là delle belle parole, si tratta di una giravolta di 180 gradi rispetto ai grandi valori politici degli anni Ottanta (pluralismo, economia mista, non allineamento), finiti nel dimenticatoio, come un qualsiasi rifiuto solido urbano gettato alla Chureca. Persino il minimo che si poteva sparare da questi governanti, ossia che in loro vi fosse almeno un po’ di capacità amministrativa, è svanito, evaporato dietro lo schermo di una propaganda insistente e facilona, gridando a squarciagola «Rivoluzione» e ritenendo che ciò sia sufficiente affinché questa esista realmente.

Se Girardi, insignito nel 1990 dell’Ordine Carlos Fonseca, sosteneva che «la difesa dell’originalità rivoluzionaria non è possibile a lungo termine senza lo sviluppo di una forte capacità critica ed autocritica. Non solo da parte di alcuni dirigenti, ma di tutto il popolo. L’autocritica incessante e l’umiltà, sostanziata di verità, della rivoluzione. È una componente essenziale del potere. Compito dell’avanguardia non è reprimerla, ma stimolarla e suscitarla» (pp. 425-26), nell’attualità si fa esattamente l’opposto, omologando qualsiasi critica alla controrivoluzione e andando incontro a un disastro annunciato, che ha avuto un inaspettato ma prevedibile inizio nell’aprile del 2018, quando il bicchiere del «popolo» era ormai strapieno ed è sceso nelle piazze e nelle strade. Mettendo in moto tutto l’apparato repressivo per la strenua difesa di quel Popolo-presidente del tutto inesistente se non nella sfrenata fantasia di qualche ingenuo credulone all’interno del Nicaragua o in giro per il mondo, blaterando di una sovranità nazionale che nella realtà non esiste, dipendendo comunque dall’estero persino per la mera sopravvivenza. Opponendogli la forza delle armi, invece del dialogo sincero e leale, si è spezzato forse in modo definitivo quel rapporto storico tra l’avanguardia e il «popolo». Peraltro senza neppure porsi l’interrogativo del perché e del percome si fosse frantumato quel patto sociale tra dirigenti e diretti, soprattutto per quali motivi molti militanti sandinisti avessero scelto di opporsi alla stessa dirigenza del partito-Stato che teoricamente stava compiendo la propagandistica «seconda tappa della Rivoluzione» che, se esistesse realmente, sarebbe la terza, dopo gli anni Ottanta, il periodo neoliberista e l’attuale.

Quell’interrogativo presupponeva infatti una capacità autocritica definitivamente scomparsa in questi ultimi decenni, trasformata alchemicamente nell’attuale dogma irreale, fantastico e fantasioso di El Pueblo presidente, che possiede un’espressività decisamente aberrante. Dovrebbe significare El Pueblo es presidente, con il verbo sottinteso, ma troppo spesso è sostituito da quella virgola alla quale abbiamo accennato sopra, collocata opportunamente tra le ultime due parole (El Pueblo, presidente), il che dà, perlomeno a livello sintattico (lieve pausa di separazione), il vero senso allo slogan. «Lo slogan deve essere espressivo, per impressionare, convincere. Ma la sua espressività è mostrare perché diviene immediatamente stereotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività, che è eternamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita. La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua che sostituisce la lingua umanistica» (Pier Paolo Pasolini). Poiché spesso la punteggiatura è una questione di comunicazione più che di sintassi, questa virgola differenzia e separa due elementi che dovrebbero essere coordinati e strettamente legati tra loro, trasformandone il senso in: Aquí está el Pueblo, señor presidente. ¿Puede entrar o lo dejamos afuera?

La risposta, che lo si voglia o meno, è sempre e solo una: lo dejamos afuera. Hoy, mañana y siempre.

Un’altra possibile lettura dello slogan in oggetto è che, poiché chi comanda è il Popolo (con la rigorosa maiuscola), risulta evidente che al Presidente eletto non possa essere imputato alcunché. In buona sostanza è una forma di autodifesa, fasulla finché si vuole, ma forse utile per salvarsi dal giudizio della Storia: è il Popolo che comanda, ho obbedito ai suoi ordini, di nulla sono responsabile. Ragionamento logico, però in funzione conservatrice, se non addirittura reazionaria.

Chissà cosa penserebbe Girardi dell’attuale situazione? Possiamo solo immaginarlo, facendo riferimento a un suo articolo del febbraio 2001 pubblicato su Latinoamerica, nel quale già denunciava la «spaccatura, in atto da alcuni anni, tra sandinismo come progetto storico e sandinismo come partito. Aumentano nel paese le persone che, pur avendo partecipato attivamente alla rivoluzione antisomozista nelle file del Fronte Sandinista o al fianco di esso, oggi non si riconoscono più nel gruppo dirigente del partito, legato a Daniel Ortega. Anzi, vedono in esso un ostacolo al rilancio del progetto originario, ma non sono ancora in grado di proporre un’alternativa» (Nicaragua: come i sandinisti hanno tradito un sogno). Seguendo questa analisi di Girardi di oltre vent’anni fa, che conosceva assai bene la situazione dell’epoca, quando Daniel non era ancora tornato alla presidenza della Repubblica, possiamo affermare che lo pseudo-sandinismo del partito-Stato non solo ha tradito il sandinismo come progetto storico, ma costituisce il vero e unico «tappo» per realizzare un’effettiva «seconda tappa della Rivoluzione», essenzialmente perché, come affermava ancora Pasolini, «Si sono resi colpevoli di aver mancato al primo dovere di un politico: quello di esercitare un esame critico dei fatti, mancando in loro una reale volontà e capacità in tal senso. Forse dovuta alla inesistenza generalizzata della razionalità, sostituita da tempo con il cieco fanatismo e con l’ideologia edonistica del potere per il potere».

Si tratta di una spaccatura storica non solo tra il «popolo» e il «sandinismo», ma tra una parte della base militante e la cúpula, il vertice, separati da una semplicissima virgola che rende non solo graficamente alla perfezione una realtà innegabile ed è assai più chiara di qualsiasi analisi politica più o meno approfondita. Una virgola che si evidenzia sempre più nella sostituzione delle manifestazioni di massa in Plaza de la Fe con quelle su invito in Plaza de la Revolución e può essere tradotta psicologicamente con la paura delle masse popolari (cfr Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, Casa Editrice Giuseppe Monanni, Milano 1927).

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