Sbarchi

di Natalino Piras

Nico Orunesu, da Barcones, 2020

L’anno scorso, dopo il naufragio di Cutro, spiaggia di Crotone, in Calabria, nella notte tra il 25 e il 26 febbraio, 94 morti annegati, tutta gente dei barconi, tutti migrantes, infuriò in FB, la parte capace di ragione e sentimento, un pezzo dal primo libro (versi 538-543) dell’Eneide (29 -19 a. C) di Virgilio. Era preso da Castrum Minervae (Congedo, 2009) a cura di Francesco  D’Andria. A chi scrive il passo dell’Eneide arrivò su Whatsapp, mandato da un compagno di Potere Operaio.

Scampato a un naufragio sulle coste salentine, Enea riesce a sbarcare a Cartagine e così racconta alla regina Didone:

Huc pauci vestris adnavimus oris. Quod genus hoc hominum?Quaeve hunc tam barbara morem permittit patria? Hospitio prohibemur harenae; bella cient primaque vetant consistere terra. Si genus humanum et mortalia temnitis arma, at sperate deos memores fandi atque nefandi.

«In pochi a nuoto arrivammo qui sulle vostre spiagge. Che razza di uomini è questa? Quale patria permette un costume così barbaro, ci negano persino l’ospitalità della sabbia; apprestano guerre e a noi vietano di posarci sulla terra. Se disprezzate il genere umano e le armi mortali, perlomeno abbiate timore degli dei che sono memori del bene e del male».

Nello sceneggiato Rai 1971-1972, la migliore Eneide cinematografico-televisiva, diretto da Franco Rossi, Giulio Brogi-Enea e Olga Karlatos-Didone, la narrazione dei naufragi, causati dalla fuga dalla guerra, tesse tutte le 7 puntate. Enea se ne intende di sbarchi. Ha visto quello dei Greci arrivati dall’altra parte del mare per mettere sotto assedio la sua città, Troia detta anche Ilio. Dieci anni di guerra moltiplicabili per dieci altri anni all’infinito, tutto l’orrore delle battaglie, delle mischie, degli agguati, dei duelli combattuti dagli uomini e sostenute, volute dagli dei che tra di loro si dividono in due fazioni, partigiani degli achei contro i partigiani della gente di Ilio.

Enea, figlio di un mortale, Anchise, e della dea Venere, è consapevole, oltre le verità dell’Iliade e dell’Odissea, poemi entrambi attribuiti a Omero, che lo sbarco dei greci è potuto avvenire dopo un atto esecrando che nessun perdono umano potrà mai lavare. Agamennone, il comandante dell’armata greca, ha acconsentito che Ifigenia, la figlia avuta da Clitemnestra, venga sacrificata sull’altare ad Aulide: perché questo sacrificio, imposto dagli dei, possa far levare il vento e permettere così alle navi di salpare.

Agamennone è fuori da qualsiasi pietas – Enea invece è pius per antonomasia – e neppure la sua morte, ucciso da Clitemenestra e Egisto al ritorno dalla guerra, potrà lenire la furia che lo colloca dentro l’atto sacrilego nella memoria del mito che dà sostanza alla memoria storica.

Né Agamennone è il solo a pagare, come individuo, la guerra e i suoi inganni. Ulisse, Odisseo, l’inventore del Cavallo di Troia, ne sopporterà molti di sbarchi, tutti naufragi, prima dell’arrivo a casa sua, dieci anni dopo la fine della guerra.  I Lestrigoni, Circe, Polifemo. Ulisse, il re, perderà tutti i suoi compagni. La vendetta contro i Proci, che in sua assenza hanno usurpato la reggia e insidiato la sposa Penelope, la compirà aiutato dal porcaro Eumeo e dal bovaro Filezio, gli unici rimastigli fedeli, e dal figlio Telemaco.

I barconi del naufragio di Cutro, di tanti altri sbarchi, sono pieni di gente come Enea e Ulisse, molto più di loro compagni.

Ancora uno sceneggiato Rai su tutti, su una caterva di film dal classico Ulisse (1954) di Mario Camerini, Kirk Douglas è Odisseo, a Troy (2004) di Wolfgang Petersen.

L’Odissea, 8 puntate, diretto sempre da Franco Rossi nel 1968 prima dell’Eneide, è inarrivabile. Per il rispetto del testo e il suo adattamento, il teatro di Eschilo, Sofocle e Euripide che entra nel linguaggio filmico, gli stasimi, il coro, il fato, la visionarietà, la pietas degli eroi e la stolta malvagità dei profittatori,  le campiture e i  dettagli  ripresi con estrema cura, gli interpreti, la virilità e la bellezza femminile. Nell’immaginario collettivo globale, Penelope è Irene Papas, Ulisse rimane Bekim Fehmiu.

Dal mito alla storia. Circa duemilacinquecento anni dopo Enea e Ulisse, lo sbarco per antonomasia è quello del 6 giugno 1944, lo sbarco in Normandia. Lo ho poetato pure nel libro della Terra sospesa (2002): «Qualcuno raccontò/la tensione dello sbarco/il giorno più lungo/la visione dei soldati come lumini inesplosi». Il 6 giugno 1944 ci fu lo sbarco in Normandia: la Nuova Armada, così il poeta Vittorio Sereni, si presenta alla costa nord della Francia occupata dal nazismo, tutta l’Europa è ancora sotto tallone nazista, complice il fascismo. Cinquemila navi cariche di soldati americani, inglesi, canadesi, australiani e altri alleati, anche francesi. Bianchi e neri. Ne moriranno migliaia e migliaia in un solo giorno, specie nella spiaggia Omaha (le altre erano, tutti nomi in codice, Utah, Sword, Gold, Juno). Molta nel corso delle rievocazioni lungo ottant’anni anni la retorica, lo spettacolo cinematografico, Il giorno più lungo (The Longest Day, 1962, dall’omonimo resoconto, 1959, di Cornelius Ryan) di Darryl F. ZanuckKen Annakin, Bernhard Wicki, Andrew Marton, Americani), Gerd Oswald e  Salvate il soldato Ryan (Save Private Ryan, 1998) di  Steven Spielberg. Molto anche il dolore.

Tra le persone indelebili nella mente e nel cuore, hanno eretto per loro statue nella spiaggia, Lord Lovat e il cornamusista Bill Millin. Erano le 7, 30 di quella mattina del 6 giugno 1944 quando i fucilieri scozzesi comandati da Lord Lovat misero piede sulla spiaggia Sword. Sotto il fuoco nazista, Lovat ordinò a Millin di attaccare con Blue Bonnets over the Border, suoni di battaglia. Millin fece rispettosamente notare che quei suoni erano proibiti dalla legge inglese. «E chi se ne frega» rispose Lovat. «Noi siamo scozzesi!». Avanzando a fianco di Lord Lovat, in testa al battaglione, Millin vedeva i suoi commilitoni cadere falciati dal fuoco nemico ma continuava a avanzare e suonare, la presa del ponte Pegasus come obiettivo strategico. C’era in gioco la libertà dell’Europa e del mondo intero.

Gli sbarchi, nel mito e nella storia, sono sempre e continueranno a essere nel segno della contraddizione.

529 anni prima delle cinquemila navi del 6 giugno 1944, un’altra armata inglese sbarcò in Normandia, a poco più di due mesi da uno scontro dove l’agguato vale molto più della battaglia campale.  La battaglia di Azincourt, nella regione di Calais, fu combattuta il 25 ottobre 1415 durante la Guerra dei cent’anni. I francesi lasciarono sul campo 6000 morti, dieci volte di più di quelli inglesi. A vincere fu il fango. L’esercito di Enrico V d’Inghilterra, sbarcato in Normandia il 14 agosto, fece autentica strage dei soldati francesi, affondati dentro pesanti armature nel terreno reso molle dalle piogge.

Gli inglesi presero possesso della Francia, imposero la loro legge. I giudici francesi che condannarono al rogo Giovanna d’Arco, bruciata viva a Rouen il 30 maggio 1431, erano al servizio degli inglesi.

Due i film, entrambi classici, su Azincourt, lo stesso titolo, Enrico V (Henry V), entrambi dall’omonima tragedia (1598-1599) di Shakespeare. Il primo, in ordine di tempo, The Chronicle History of King Henry the Fifth with His Battell Fought at Agincourt in France, 1944, è diretto e interpretato da Laurence Olivier, l’altro, 1989, diretto e interpretato da Kenneth Branagh.

Entrambi i film molto affidano al discorso del re prima della battaglia.

«Noi  siamo un manipolo di fratelli: poiché chi oggi verserà il suo sangue con me sarà mio fratello, e per quanto umile la sua condizione, sarà da questo giorno elevata, e tanti gentiluomini ora a letto in patria si sentiranno maledetti per non essersi trovati oggi qui, e menomati nella loro virilità sentendo parlare chi ha combattuto con noi questo giorno di San Crispino!».

Seguendo il filo storico, a ritroso, 349 anni prima di Azincourt, a Hastings, East Sussex, il 14 ottobre 1066, fu combattuta una battaglia da un esercito di anglosassoni guidato dal re Aroldo II contro l’esercito normanno invasore,  al comando del duca Guglielmo. Si erano invertiti imbarco e sbarco. Dalla Normandia a oltre Manica. Guglielmo sbaragliò gli anglosassoni. Aroldo morì in battaglia. Da quel 14 ottobre 1066 Guglielmo diventerà il Conquistatore. Diventerà re d’Inghilterra. La battaglia di Hastings è raccontata, come in un archetipo di piano sequenza cinematografica dall’Arazzo di Bayeux, tessuto nell’XI secolo dai monaci dell’abbazia di Sant’Agostino a Canterbury.

Lasciato il vecchio mondo lo sbarco degli sbarchi è quello del 12  ottobre 1492, la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo.  Tanti altri sbarchi, tutti di  conquista, seguiranno. Molti i film. Ma vale molto anche la letteratura.

Nel suo Canto General, Pablo Neruda, così descrive i viaggi verso il Nuovo Mondo dopo la scoperta dell’America, la soldataglia di Cortez e Pizarro, garras y barbas rojas de Castilla che portavano, dentro el buque, il ventre della nave, «el hambre antigua de Europa, hambre como la cola de un planeta mortal». Hambre è la fame, la stessa che nel Seicento popola il romanzo immortale di Don Chisciotte e pure l’altro anonimo di Lazarillo de Tormes. La stessa fame, tre secoli dopo, che ad Auschwitz, il lager del genocidio per antonomasia, mise a morte padre Massimiliano Kolbe, offertosi al posto di un altro condannato. Noi sardi la fame la identifichiamo in Mastru Juanne.

Apocalytpto (2006) di Mel Gibson narra del feroce inseguimento di un indio scampato al sacrificio umano, dentro una selva dell’America non ancora scoperta dall’Europa. Lo braccano feroci holcane, più feroci del giaguaro. La fine della fuga, in una spiaggia al limite della foresta, coincide con lo sbarco, armati di tutto punto, dei conquistadores spagnoli. Da loro sono attratti gli inseguitori holcane, come abbagliati. Sono riusciti a raggiungere il fuggitivo ma lo ignorano, passano oltre. La Storia dice quali feroci e devastanti conseguenze ha comportato la scoperta dell’America, la conquista dell’America Latina. Apocalypto, catastrofe, è la parola adatta.

Tutte le guerre poi. In quasi tutte le guerre  ci sono imbarchi e sbarchi, anche in quelle del cinema fantascientifico,  stabiliscono contesto narrativo e termini di paragone  tra passato, mito e storia, e presente, tra presente e futuro: un mito privo di prospettiva, di orizzonte aurorale.  Tutte le guerre, quelle di adesso comprese, pronubi.  Lo dice bene Ogni caso (1972), una poesia del premio Nobel 1996, la polacca Wisława Szymborska, una significativa elencazione, in ordine non cronologico, di massacri, eserciti, flotte navali e aree, di ipocrisie e menzogne, di spettacolo della morte che infine regna in ogni campo di battaglia: Canne, Borodino, Kosovo Polje, Guernica, Pearl Harbour, Hastings, Cheronea, Verdun, Azio, Hiroshima.

Torna in mente l’inizio dell’Agamennone (458 a.C.) di Eschilo quando la sentinella, una scolta, vede dalle mura del palazzo reale di Argo, la nave del re che torna vittorioso dalla guerra di Troia. La visione della sentinella è come un presagio di quello che sarà dopo, della sorte di Agamennone, di Oreste che vendicherà il padre in susseguirsi di guerra che dal tempo del mito arriva sino a noi.

È questo di cui dovremmo aver paura. È lo stesso «noi»  che nega la spiaggia ai naufraghi di Cutro. Lo stesso «noi» fino al giorno prima ancora ossessionato dagli sbarchi degli albanesi, negli anni Novanta del secolo scorso.

La negazione dell’ospitalità della sabbia ai naufraghi è un storia senza fine.

Natalino Piras, Diari di Cineclub, maggio 2024, n. 127

https://www.facebook.com/natalino.piras

Immagini: Nico Orunesu da “Barcones, viaggio nel profondo blu

Della mostra “Barcones” di Orunesu, e della sua travagliata prima esposizione integrale, interrotta dopo solo pochi giorni dall’inaugurazione dal confinamento imposto in seguito alla pandemia da covid19 nel marzo 2020, si parlò in Bottega  qui

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