Scienza e futuro: tornerà la bella coppia?
una risposta di db a Clelia (Webmind e le vie dell’inferno) ma anche – forse – l’inizio di un più lungo discorso politico
1 – Riassunto delle puntate precedenti
Per pochissimi giorni (fine agosto) è in edicola, nella collana Urania, un romanzo davvero controcorrente: «WWW 3 : la mente» del canadese Robert Sawyer. Una storia molto ben scritta ma soprattutto – questa a me pare la grande novità – ottimista: non per il solito, banale lieto fine appiccicaticcio con un paio di “eroi” (e/o di innamorati) che si salvano fuori e contro il mondo… ma perché pervaso dalla speranza ragionata, dalla fiducia attesa in una evoluzione positiva dell’umanità, dalla previsione di un «homo novus» (e «placidus» cioè pacifico).
Occorre forse ricordare che nella prima metà del secolo scorso la scienza era vissuta da molte persone come una forza positiva e liberatrice. Ne ho scritto più volte con Riccardo Mancini; rimando alle prime pagine del nostro «Di futuri ce n’è tanti» (se proprio lo volete e non lo trovate scrivete ad Avverbi editore). Un ottimismo ingenuo forse ma con molte ragioni storiche dalla sua. Oggi invece è convinzione diffusa, schematica, granitica che gli scienziati portino più sventure che progressi. Un’idea in parte fondata (e chi lo nega?) ma che ha ormai messo solide radici nel nostro immaginario come totalizzante e come una tendenza non rovesciabile; al di fuori dunque dalla politica e dai rapporti di forza, dalla storia e dalle sue continue evoluzioni. Anche la fantascienza più vicina a noi in prevalenza rispecchia questo stato d’animo diffuso: è cosa nota a chi è appassionata/o. Scrutare nel buio, direbbe forse Philip Dick.
2 – Sawyer, ti amo ancora (firmato db)
Eppure – ne è convinto Sawyer – diventando noi umani «una specie davvero tecnologica», l’unica via percorribile è la cooperazione. L’unica via percorribile (lo aggiungo io) intesa… come alternativa a una vicina estinzione. Molti segnali positivi («come mai prima nella storia rispettiamo la dignità altrui») ci inducono a credere che nel grande «albero delle possibilità» gli esseri umani sceglieranno rapporti che non siano «a somma zero» ma reciprocamente benefici: «uno scenario win-win, dove tutti vincono» scrive in questo terzo romanzo Sawyer ma già nei due precedenti aveva esplorato a fondo questo scenario.
L’imprevista nascita di Webmind, cioè di una intelligenza disincarnata nelle profondità di Internet, è ovviamente una novità colossale: come sempre quando siamo messi di fronte allo sconosciuto (figuriamoci in questo caso) noi umani oscilliamo fra desideri e paure. Che prevalgano i primi o le seconde storicamente dipende da molti fattori e soprattutto dal contesto. Se – come oggi – viviamo nell’epoca della grande paura (comodissima per chi comanda, coccolata e ampliata dalla stragrande maggioranza dei media uniti dal “pensiero unico”) è logico che poche persone siano desideranti e dunque ottimiste. O almeno è difficile, per usare la stra-famosa frase di Gramsci, che si viva «con il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà» questo brutto periodo. E invece bisogna farlo. Discorso che certo meriterebbe molto più spazio ma… sto scrivendo un post (non un saggio o un intero libro).
Così è “realistico” che di fronte alla sorprendente comparsa di Webmind molti (e soprattutto i “potenti”) vedano scenari catastrofici più che negativi. Che nel romanzo il super “bebè” della rete non voglia dominare ma essere amico e che ne dia dimostrazioni non conta: Webmind è un convinto sostenitore del crowd-sourcing, cioè che i problemi complessi si possano risolvere solamente affrontandoli insieme, cooperando. Ma questo non è all’ordine del giorno nel mondo cosiddetto reale dove viviamo, se dobbiamo credere ai fatti (le chiacchiere, si sa, stanno a zero).
Sin qui credo che io e Clelia siamo d’accordo. Persino nelle piccole critiche (anche io avrei voluto, a esempio, qualche approfondimento in più da Sawyer, sia narrativo che concettuale) concordo con lei. Dove sono di parere opposto è che anche in Webmind le famose, proverbiali «buone intenzioni» lastrichino «l’inferno»: che insomma accada al solito che il fine nobilissimo «accrescere il tasso di felicità della razza umana» giustifichi i mezzi (ignobili), i metodi: come, secondo Clelia, nel caso della Cina che si vedrà fra poco (mi spiace svelare la trama, alcuni colpi di scena inclusi, ma in questo caso bisogna, almeno un po’, farlo)
3 – Non mi fido di Webmind (firmato… Clelia?)
«Mentre procedevo nella lettura gli ottimismi di Webmind e dell’autore si sono scontrati col mio senso della complessità umana, tanto che alla fine mi sono trovata sempre più d’accordo con i timori […]» scrive Clelia. A me pare che della complessità umana Webmind (o il suo portavoce che non è il simpatico Hobo senza patria ma il concreto canadese Sawyer) tenga sempre conto. Ma forse non è qui il gran dissidio. «Ciò che emerge – scrive Clelia – è un curioso incrocio tra il Grande Fratello orwelliano e il Brave New World di Aldous Huxley». Non concordo, io leggo molto diversamente le ultime pagine di «WWW 3» e l’insieme.
A esempio io credo che da mo’ e clamorosamente il partito comunista (sedicente tale, se preferite) cinese, abbia «perso di vista il reale obiettivo del comunismo, la felicità umana». Sul presente sono assai pessimista in un’ottica globale: visto che – non so quanto Clelia e Sawyer concordino con me – credo da tempo non solo che il socialismo abbia «esaurito la sua spinta propulsiva» (Enrico Berlinguer dixit) ma ritengo anche che la democrazia – da tempo ma in forme inedite dopo il 1989 – abbia egualmente e drammaticamente «esaurito la sua spinta propulsiva» (questa però Berlinguer non dixit).
Scrive Clelia: «Webmind si arroga il diritto di decidere quando e come gli esseri umani devono votare». Io le direi, senza ironia, di non preoccuparsi. Visto che ciò che, a mio avviso, già accade in quasi tutto il mondo cosiddetto reale delle dittature, delle democrazie e delle democradure (le quali ultime sono l’incrocio fra le prime e le seconde; l’espressione è rubata a Eduardo Galeano). Chiedo a Clelia e a tutte/i voi: ritenete che in Italia il voto sia libero? Io no. Sono stato nel 2006 nel ricchissimo Congo in una missione internazionale (richiesta “dal basso”) anche per – semplifico assai – verificare la regolarità delle elezioni, le prime dopo decenni di dittature e guerre, entrambe volute dalle multinazionali. Al ritorno da quella difficile “missione” capitò una paradossale ma serissima discussione fra noi italiani/e se fosse il caso che un po’ di congolesi venissero in Italia a verificare il voto in almeno 4 regioni: Campania, Calabria, Sicilia e ovviamente Lombardia (se questa frase vi suona strana secondo me vi siete distratte/i almeno nell’ultimo ventennio).
«Il voto […] sarà faccenda di pochi privilegiati che possiedono una connessione» teme Clelia. Ma di privilegi da connessione, di gap [digital divide credo si dica] da decenni si stra-parla a livello mondiale e a me pare che non si è agito per diminuire questi privilegi (da connessione in particolare e da tecnologie in generale) semmai per allargarli.
Si aprono possibilità che i poteri chiudono ma alcune breccie, almeno in parte restano aperte: all’epoca di Genova 2001 si diceva che invece di criticare i media era meglio “diventare” un media. Mi par giusto.
Possiamo riappropriarci di molte tecnologie: la ricchezza sociale (come ogni ricchezza) è di tutte e tutti. Crediamoci e proviamoci.
4 – Micro o macro? Niente o tutto? Qualcosa?
«La felicità umana è una questione così delicata, fragile, evanescente, che mi sembra impossibile si possa “massimizzarla” […] Qualche giorno fa, nel tuo blog, c’era la scor-data che ricordava la figura di Linus Pauling, il quale riteneva ci si dovesse dar da fare per minimizzare il male. Ecco, questo mi piace, questo è umano»: così Clelia.
Rispetto a chi non fa nulla… viva sempre Pauling, viva sempre ogni «riduzione del danno», viva perfino il «realismo», meglio «qualcosa subito che tutto in un lontano futuro» ma io invece credo che sia giusto – e possibile, necessario, urgente – lavorare anche a “massimizzare” la felicità. Penso che il desiderio anarchico, l’utopia, la spinta rivoluzionaria, la volontà di mettere sottosopra (cioè raddrizzare) un mondo ingiusto non siano necessariamente portatrici di sciagure, e certamente non di sciagure peggiori del mondo infernale in cui viviamo. Poi si discuterà se Gandhi o Lenin certo ma erano rivoluzionari entrambi, La frase di Galeano – a cosa servono le utopie? A farci mettere in cammino – continuo a sottoscriverla. Per impervia che sia la strada (e vecchietto ormai il viandante Barbieri ma questo è un altro discorso).
Ho scritto una volta qui in blog che io abito «in Uccidente» – non è un refuso – e che pur se sono in una delle zone privilegiate sono comunque dentro l’inferno. Voglio dire che il capitalismo marcia verso la catastrofe (economica, ecologica oltre che sociale) e che aveva ben ragione Rosa Luxemburg, circa 100 anni fa, a dire che la scelta è fra «socialismo e barbarie». Socialismo per Rosa (e per me) si intendeva libertario; non la caricatura, il formicaio con i reticolati, i gulag di Stalin e dell’attuale Cina. Tutte/i noi abbiamo bisogno di quella «ambigua utopia», come direbbe (torniamo alla fantascienza) Ursula Le Guin in quel romanzo, sempre da rileggere, che è «I reietti dell’altro pianeta». Visioni pericolose certo (sto citando Ellison) ma cristalli sognanti (è Sturgeon): desideri che vincono sulle paure, cioè buone ragioni per vivere. E vincere. Per costruire un futuro bisogna prima sognarlo, desiderarlo.
5 – A domanda rispondo (in breve, troppo in breve forse)
«Ho una domanda per te, Daniel-mind: siamo sicuri che una super-mente informatica sia veramente qualcosa di nuovo? Nei termini in cui ne parla Sawyer, a me sembra che ne venga fuori un nuovo dio, e anche qui il problema è accennato ma non svolto. Dio. Chi era costui? Non era morto tanto tempo fa?».
Molte tecnologie somigliano già a dio (agli dei) tanto più se noi – lo spiegò bene lo scrittore e scienziato Arthur C. Clarke – le usiamo senza minimamente conoscerne le e regole, la base scientifica. Viviamo in un tecno-vudù, come abbiamo scritto più volte io e Riccardo Mancini. Lo strano dio nel quale (forse) io credo è fragile, umano, fallibile, vicino, comprensibile…. se non morto, certo un dio ferito. Figuriamoci se posso credere in una scienza e/o tecnologia che lo rimpiazzino con l’arroganza del vecchio dio (maschio e crudele) che conosciamo da tanti millenni.
Risposta troppo personale? D’altronde il credere è (contrariamente a quel che pensano dalle parti del Vaticano) questione strettamente personale.
6 – Uscire dall’«epoca delle passioni tristi»
Mentre riflettevo su come rispondere a Clelia ho sbirciato un nuovo libro che non comprerò (le mie finanze non lo permettono, ahimè) ma presto leggerò in biblioteca; si chiama «Il minore dei mali possibili» di Eyal Wiwman (Nottetempo, 2013). E si presenta così (in quarta di copertina): «Da sant’Agostino a Leibniz, da Voltaire a Hannah Arendt, l’idea del MALE MINORE ha percorso il pensiero morale occidentale fra critiche e parodie. Oggi è entrata di prepotenza nella storia e nella pratica dei conflitti, nel diritto umanitario e nelle istituzioni che dovrebbero salvaguardarlo. Dalla carestia etiope del 1984 agli assedi israeliani in Palestina, dai bombardamenti intelligenti in Iraq alla guerra dei droni, gli apparati militari, il diritto internazionale, la politica e il mondo degli operatori umanitari stringono ambigue alleanze in nome della definizione del “minore dei mali possibili”. E, come in un laboratorio, le vittime si trovano a essere calcolate, a tutela di un bene in residuale, in base ai parametri “accettabili” di una violenza modulata e preventiva».
Leggendo queste parole a me viene subito in mente la riunione fra ong pacifiste e militari, come se pompieri e piromani discutessero assieme. Accade, ve lo garantisco: non è una barzelletta cattiva.
E mi torna in mente «L’epoca delle passioni tristi» (è uscito in italiano nel 2004 ma viene di continuo ristampato) scritto da Miguel Benasayag e Gerard Schmit: filosofo e psicoanalista il primo, terapeuta il secondo. Non ne voglio fare il riassunto (non ora almeno) ma vi invito a leggerlo. Pur se la loro analisi è giustamente fosca, Benasayag e Schmit mai perdono la speranza.
«Per noi clinici, impegnati quindi nella prassi effettiva, il pessimismo e l’ottimismo rimangono categorie troppo passive e immaginarie. La configurazione del futuro dipende in buona parte da ciò che sapremo fare nel presente». Anche la (buona cioè rivoluzionaria) politica dovrebbe ragionare così. Una volta lo faceva.
E ancora, rispetto a chi dice che bisogna aspettare, rimandare, mirare basso: «E’ una trappola fatale, perché solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare legami e di comporre la vita in modo da produrre qualcosa di diverso dal disastro. […] Quindi promuovere spazi e forme di socializzazione animati dal desiderio».
Poche pagine dopo: «la storia insegna che è soprattutto l’azione collettiva che consente di sfuggire al determinismo dell’etichetta». Lottare, resistere, costruire: vale per le minoranze organizzate, vale per i grandi movimenti.
Ancora: «In questo senso si potrebbe dire che la libertà individuale non esiste: esistono solo atti di liberazione che si connettono agli altri». Sembra di ascoltare Freire, Rosa o Marx. Ce lo ricordano due psicoterapeuti perché sanno che l’impotenza, l’incertezza, la paura, il disagio del vivere oggi sono merci distribuite ovunque, anzi regalate, obbligatorie.
Dopo aver parlato del Ritalin (uno dei tanti orrori medici che gli Usa vorrebbero imporci) e delle etichette che cancellano i bambini come tutti gli altri individui, Benasayag e Schmit scrivono: «Il nostro lavoro di clinici non può consistere nel cancellare le differenze» e raccontano una piccola storia che è anche una grande metafora di come non bisogna accettare il razzismo che è nelle norme di un mondo dove l’unica cosa davvero sacra è la merce.
E quasi alla fine del libro: «Oggi per essere al servizio della vita è necessario praticare un certo grado di resistenza. Resistere significa anche opporsi e scontrarsi, ma non dimentichiamo che, prima di tutto, resistere è creare».
7- Dovessi concludere in poche parole… direi così
Nell’ingorgo fra il complicato vecchio mondo e i nuovi universi, difficili da decifrare, che la nostra tecnologia sta creando (e che forse mette le fondamenta per qualche nuovo «brodo primordiale», un diverso big-bang) una parte del futuro – anzi: dei tanti futuri possibili – resta in mano nostra. Con o senza Webmind possiamo farcela. Dopo un lungo periodo di previsioni cupe forse Sawyer sarà ricordato come il primo costruttore di un nuovo immaginario dove la scienza e il futuro sono i nostri migliori alleati. Non mi pare poco. (Ma la discussione continua … anche su tutto il resto).
Che bel dribbling! Saresti stato un ottimo calciatore, Daniele.
Ci intendiamo sulla necessità/bisogno di uno sguardo ottimista verso il futuro, tuttavia mi lascia perplessa la tua convinzione che la democrazia abbia perso smalto. Se in futuro dovrò scegliere tra una super-mente che mi vuole tanto bene e decide cosa è meglio per me, e un’imperfetta, zoppicante democrazia… sceglierò la seconda. Anche se la super-mente appartenesse al meglio del meglio del pensiero umano, anche se fosse il distillato di ogni positiva filosofia e di ogni teoria che ha guardato con rispetto all’essere umano , perfino se la mia ragione dovesse bisbigliarmi che si tratta di una super-mente che ragiona meglio di chiunque altro sul pianeta, io sceglierei una storta democrazia.
Nell’ottica di Sawyer, Webmind è la versione futuristica del governo di saggi che Platone pone a capo della Repubblica. Che si tratti di uomini illuminati dalla ragione o del compendio dello scibile umano, il risultato è lo stesso. Il libero arbitrio del singolo va a pallino e per me l’anarchico è sempre stato colui che usa il proprio libero arbitrio, senza dimenticarsi che esistono gli altri.
Dopo Nietzsche, io non posso ascoltare soltanto la ragione, perché so che esiste “la grande ragione del corpo”. Ti prego di notare che Webmind è carente anche in tal senso, mancando di un corpo umano. A parte l’occhio di Caitlin. E anche qui ce ne sarebbe da dire. L’occhio è il senso più “freddo” dell’essere umano, conosce da lontano.
A proposito di Dio. Da come lo descrivi, il tuo dio somiglia parecchio a quello descritto da Lem in Solaris, “un dio imperfetto, l’unico dio nel quale posso credere”. Siamo noi, quel dio. E dunque, parafrasando Nietzsche, se esiste Webmind, come posso essere dio? (che sarebbe un altro modo di dire quello che hai detto tu nelle conclusioni). Ma alla fine, Daniele, siamo d’accordo o in disaccordo? Se ci fosse Webmind potremmo chiederlo a lui.
Clelia
grazie ancora Clelia – è bellissimo, stimolante e un po’ faticoso (sììììì) essere in disaccordo con te.
Proverò a rispiegarmi meglio perchè forse nel disaccordo fra noi c’è qualche accordo in più da cercare sia sul piano del linguaggio che su quello dei contenuti.
Anche io preferisco che nessuna/o decida al mio posto però se un esperto (o una Intelligenza Artificiale) studiasse per anni il cancro e mi desse un sistema sicuro per eliminarlo… io non mi sentirei espropriato ma direi – anzi canterei con Violeta Parra – che è “il frutto dell’ingegno umano” e molto festeggerei. Se riuscissimo a dialogare con i delfini (più che con le scimmie) sarei felice di imparare qualcosa da loro e non mi offenderei se mi criticassero (come persona e come razza umana).. Se incontremo gli alieni e/o le aliene – anzi QUANDO perchè io sono certo che loro sono lì, in qualche piega degli universi… però temo che il Grande Incontro accadrà troppo tardi perchè io partecipi o almeno assista – egualmente non mi sentirei sminuito da altri saperi, nuove pedagogie, impensabili strade verso le ambigue utopie per massimizzare la felicità umana (e non umana, in questo caso).
Sul resto che scrivi devo riflettere.
Intanto…
A calcio ero una schiappa ma a basket bravino. Sì, il dio di Lem (in Solaris) somiglia al mio. Conosco poco Platone ma MI PARE che Webmind non sia un suo cugino di primo grado.
Propongo di TEMPORANEAMENTE accordarci su questa frase della madre di Caitlin (pag 138 per i pignoli che vogliono controllare il contesto): “Ogni volta che non rivendichiamo le nostre libertà, ogni volta che non esprimiamo la nostra individualità, noi perdiamo un pezzetto di noi stessi. Tanto varrebbe che fossimo macchine”.
(ma allora Sawyer si contraddice? Certo. E io pure? Capita sì)
LA CAROVANA RIPRENDE IL CAMMINO.
Sawyer è molto bravo nel trovare argomenti che mettono d’accordo. E tu nello scovare le frasi giuste. La madre di Caitlin è forse l’unico personaggio di cui mi sento di sottoscrivere appieno le idee (non per niente fa da moderatrice degli entusiasmi acritici della figlia).
Viva la contraddizione, allora.
Ciao.
Clelia
Ciao … Prima di tutto grazie per le vostre riflessioni.
Un giorno forse scriverò un commento più esteso, del resto non è un obbligo scrivere immediatamente, no?
Le riflessioni richiedono tempo, e poi dovrebbero essere precedute da esperienze e dalle valutazioni di queste esperienze. E scrivo questo non a caso. Infatti … Anche io sono ottimista. O devo, oppure voglio esserlo, perché condivido la considerazione secondo cui l’alternativa sostanzialmente è ‘cooperazione o scomparsa’ ( della nostra specie ).
Preferisco evitare Gramsci e la volontà. Piuttosto cerco sempre di ricordare Franco Basaglia, che si occupò meno di filosofia politica. Però, cooperando con altre persone, riuscì ad aprire i manicomi, in Italia. E riuscì, in Italia, a liberare i prigionieri dei manicomi, i così detti ‘malati di mente.’ E disse … Bilanciare, o contrastare, o superare il pessimismo della ragione con l’ottimismo della pratica.
La pratica, ovvero il risolvere problemi, per essere efficace deve essere scientifica e democratica. Scientifica, perché altrimenti la pratica rimane inconcludente e i problemi rimangono irrisolti. Democratica, perché tutte le persone hanno dei limiti, quindi la risoluzione di problemi è più efficace quando si trova un modo, ne esistono tanti, di modi, per cooperare, per condividere punti di vista, e per mettere in pratica, insieme, tentativi di soluzione. Molti falliranno. Alcuni, o forse uno, porteranno ad una soluzione temporanea.
Quindi sono ottimista. Occorre però imparare. Imparare a imparare. Imparare a fallire. Imparare a discutere. Imparare a rispettare. Imparare ad ascoltare. Imparare a sperimentare. Imparare ad analizzare. Imparare a valutare. Imparare a fallire, lo ripeto. Imparare che le soluzioni non sono quasi mai eterne ma piuttosto quasi sempre provvisorie. Tutto ciò è molto più difficile che scrivere un libro o un saggio, una tesi o un intervento, richiede tempo. Ci vorrà tempo, generazioni probabilmente, ma quelle comunità di persone che saranno in grado di imparare a essere scientifiche e democratiche sopravviveranno, probabilmente. E, comunque, il fatto stesso che ci stiamo scrivendo e che la nostra specie non sia ancora scomparsa, dato il numero di testate nucleari presenti sulla superficie terrestre, già questo incoraggia il mio, comunque moderato, ottimismo. Ciao, Ago.