Scor-data: 1 febbraio 1960
Greensboro: eravamo quattro amici afroamericani al bar (*)
Sit in, semplicemente quello: stare pacificamente seduti in un luogo vietato ai «niggers», ai «corvi», agli ex schiavi che in molte parti degli Usa non erano liberi di nulla. Quattro ragazzi coraggiosi iniziarono a Greensboro e in 6 mesi mandarono a pezzi l’apartheid.
Era un lunedì pomeriggio quando cominciò la battaglia di Greensboro: in quel luogo della Carolina non ci fu neppure un morto eppure quello scontro, durato 6 mesi, cambiò la storia.
Verso le 16,30 del primo febbraio 1960 Ezell Blair, Franklin McCain, Joseph McNeil e David Richmond si seggono al bancone del bar di un grande emporio della catena Woolworth nel centro di Greensboro: è il punto di passaggio dello shopping, frequentatissimo. I 4 sono studenti del primo anno di un college per neri nelle vicinanze della città. Il problema è quello: i 4 sono visibilmente afroamericani; «negri» o «corvi» come preferiscono dire i razzisti. Secondo la legge in vigore è legale l’apartheid, cioè “riservare” luoghi ai soli bianchi (o ai soli neri, se preferite il paradosso). Per di più siamo nel North Carolina, una “fortezza” del segregazionismo e del razzismo.
La legge dunque dà loro torto: in quell’emporio loro non possono avere neanche un caffè. E lo sanno bene.
Però qualcosa sta cambiando negli Usa: il 17 maggio 1954 la Corte Suprema ha dichiarato «incostituzionale» la segregazione nelle scuole pubbliche. E da allora molte persone con speranza – ma altre invece con paura – si chiedono: “se ci si può sedere accanto nelle scuole perché dev’essere vietato nei bus, nei bar, nelle spiagge, negli stadi?”. E infatti il 1 dicembre 1955 Rosa Parks a Montgomery (in Alabama) si siede nella zona riservata ai bianchi. Viene arrestata e inizia un lungo boicottaggio che il 4 giugno 1956 si chiude con una sentenza (ovvia quanto rivoluzionaria): è incostituzionale anche segregare i bus.
E’ in questo difficile percorso storico – fatto purtroppo anche di molte aggressioni e stragi razziste, soprattutto nel Sud degli Usa – che quel pomeriggio Ezell Blair ordina un caffè. Quando la cameriera gli replica «non serviamo negri» nessuno dei 4 batte ciglio. Però restano lì fermi, fino alla chiusura. Non rispondono alle provocazioni ma restano seduti lì.
Il giorno dopo tornano. La scena è identica. Ma fuori ci sono 31 manifestanti (del loro college) che passeggiano pacificamente con cartelli che chiedono «i diritti civili», la fine della segregazione.
Mercoledì 3 febbraio i manifestanti davanti all’emporio sono 80. Stessa scena. E nessuno accetta provocazioni.
Giovedì 4 febbraio i 4 sono sempre seduti al bar. Quando ci sarà il tempo per sorridere qualcuno dirà che «è stato il caffè più lungo della storia»… come un famoso rigore sempre rinviato che Osvaldo Soriano raccontò da par suo. Intanto fuori i manifestanti sono 300: fa “scandalo” vedere con loro tre ragazze bianche. Sabato 6 febbraio altre persone con la pelle di quel colore “privilegiato” partecipano al primo sit-in davanti all’emporio: 600, forse di più. Quel sedersi in silenzio comincia a diffondersi anche altrove. Molti giornalisti fingono di non vedere; le “autorità” locali pensano che quei tipi prima o poi si stancheranno. Per il momento si scarta l’idea di fare arresti: si teme che possa essere controproducente.
Il lunedì successivo la protesta si estende in città abbastanza lontane: a Winston e Durham, a Charlotte e Raleigh. Ormai la faccenda non riguarda più solo la Carolina del Nord e a fine mese si tengono sit-in simili in tutti gli Stati del sud segregazionista. Si risponde con gli arresti e si intensificano le provocazioni ma la linea (spontanea all’inizio poi più organizzata) è sempre quella: resistenza nonviolenta.
Quanti sono a manifestare? Gli storici hanno poi calcolato che in quei primi sit-in passano circa 70mila fra studenti e simpatizzanti.
Nell’aprile di quello stesso 1960 nasce lo Sncc, cioè Student Nonviolent Coordinating Committee. E d’estate gli studenti afroamericani iniziano a registrarsi e a spiegare come si aggirano le trappole legali per impedire ai “niggers” di votare.
La lotta continua. Fino alla vittoria.
Il 25 luglio i 4 di Greensboro bevono il loro caffè: Woolworth ha deciso di cedere. I padroni della catena di certo non si sono convertiti ai diritti civili ma da quel primo febbraio gli affari vanno sempre peggio: evidentemente la vicenda di Greensboro è una pessima pubblicità.
La lotta per i diritti civili riprende con forza in tutti gli Usa: nel 1964 verrà approvato il «Civil Right Act» che proibisce la discriminazione in tutti i luoghi pubblici. Nel 1965 il «Voting Right Act» dichiara illegali le pratiche per bloccare il voto degli afroamericani. Fra accelerazioni e stasi, fra marcia indietro e vittorie, fra attentati razzisti e la nascita di posizioni diverse (Malcom X e le Pantere Nere) all’interno del movimento afroamericano. Fino a oggi: cioè a Obama presidente ma anche alle proteste di questa estate contro una polizia che – diritti civili o no – resta al fondo razzista.
In una canzone – un po’ sconsolata, come è l’Italia degli ultimi anni – Gino Paoli racconta: «Eravamo quattro amici al bar / che volevano cambiare il mondo». I quattro amici di Greensboro lo hanno fatto davvero.
(*) Riprendo questa mia «scor-data» dall’ultimo numero di «Corriere delle migrazioni» – http://www.corrieredellemigrazioni.it/ – che di nuovo vi consiglio… a prescindere (db)