Scor-data: 14 marzo 1939
Nasce Glauber Rocha: «il sogno è l’unico atto che non si può proibire»
di Pino Bertelli (*)
«L’opera d’arte ormai appartiene al passato.
I grandi cambiamenti si realizzeranno soltanto quando larghi strati della popolazione
li vorranno veramente e faranno pressione per ottenerli.
L’unico antidoto al sistema è l’anarchia, l’anarchia intesa non come assenza di governo, ma come assenza di dominio…
Il cinema è una cultura della sovrastruttura capitalista.
L’autore è nemico di questa cultura, egli predica la sua distruzione,
se è un anarchico come Buñuel, o la distrugge se è un anarchico come Godard».
Glauber Rocha
Glauber Rocha
o del cinema di guerriglia
«Ogni resistenza è qualificata dalla coscienza pratica che la anima».
Raoul Vaneigem
«Tutte le rivoluzioni della storia sono cominciate senza capi,
e, quando ne hanno avuti, sono finite».
Censor
«Là soltanto dove gli individui sono “direttamente legati alla storia universale”;là soltanto dove il dialogo si è armato per far vincere le proprie condizioni».
Guy E. Debord
I. Del Cinema Nôvo brasiliano
La fioritura del Cinema Lixo (spazzatura) brasiliano degli anni ’60, ha sfondato l’estetica dell’oggettività e della violenza della cultura di regime, al quale ha contrapposto l’estetica della fame e dell’utopia che at/traversa l’intero continente Latinoamericano. Un cinema povero, a tratti grezzo e imperfetto, che si è buttato contro a tutta la casistica del dolore in technicolor, assolto e celebrato dalla macchina/cinema hollywoodiana. Là dove le oche domestiche volano, tutto è merce e l’arte è sistemata nel sottoscala della noia. Nel cinema mercantile (non solo americano) si respira quell’odore irrespirabile di carogna, proprio alla burocrazia dell’impero occidentale che insieme alla frusta, alla Bibbia, alle bombe, dispensa (a “basso costo”) biglietti del cinema, televisori e la dittatura telematica/massmediale (computer, telefonia, cinefotografia digitale, Internet, anche ecc.).
La tempesta sovversiva che il Cinema Nôvo ha disseminato sugli schermi del mondo (e oltre la cornice filmica…) ha prodotto smagliature, diserzioni, insorgenze di pezzi di popolo, momenti culturali abrasivi che alla Lingua del fittizio e della forca hanno risposto con la ribellione e il fucile. «L’uomo in rivolta si riconosce nelle situazioni che produce, chi non si sporca le mani è un vigliacco o un complice: l’ordine senza giudici dell’avvenire comincia nella realtà autenticata della sua rivolta». Quelli che fanno l’avanguardia (di ogni forma creativa) a metà, non fanno altro che scavarsi la fossa nella stupidità celebrata, premiata, mitologizzata. Noi crediamo che l’esercizio più importante della libertà sia la radicalità delle idee, specie quando si nobilita nella distruzione degli idoli.
Il cinema del sottosviluppo riconosce le proprie albe sovversive in opere disuguali, frammentarie, grezze… comunque tutte legate insieme da un’etica antagonista e dal desiderio di rivoluzione dello stato di cose esistenti. La hora de los hornos (L’ora dei forni, 1966/1968) di Octavio Getino e Fernando Solanas, El camino hacia la muerte del viejo Reales (Il cammino verso la morte del vecchio Reales, 1971) di Gerardo Vellejo, Revolucion (1965) di Jorge Sanjinés, Ricardo Rada e Oscar Soria, Yawar Mallku (Il sangue del condor, 1969) di Jorge Sanjinés, La tierra promedita (La terra promessa, 1973) di Miguel Littin, Ya no basta con rezar (Non basta più pregare, 1971) di Aldo Francia, Os fuzis (I fucili, 1963) di Ruy Guerra, Vidas secas (Vite secche, 1963) di Nelson Pereira dos Santos, Ganga Zumba (1963) di Carlos Diegues, Deus e o Diabo na terra do sol (1964) di Glauber Rocha… aprono il cammino al cinema tropicalista, tricontinentale, dove «l’atto rivoluzionario è il prodotto di un’azione che diverrà riflessione nel corso della lotta… Tricontinentale [è] il cinema d’autore, il cinema politico, il cinema contro, è un cinema di guerriglia». Il linguaggio di questo cinema della miseria si rovescia contro la miseria del cinema colonialista nordamericano e mortifica l’incomunicabilità artistica di molto cinema europeo.
Le spiagge dell’utopia cercate dal Cinema Nôvo o Tricontinentale crescono secondo un’angolazione libertaria del Terzo Mondo e la macchina da presa non è soltanto uno strumento espressivo di alcuni eletti dalla sorte (= eredità borghese) o dalla caparbietà di emergere dal branco ma uno mezzo di conoscenza e di educazione alla verità. «Tricontinentale, la scelta politica del cineasta nasce nel momento in cui la luce ferisce la sua pellicola. Questo, perché egli ha scelto la luce: macchina da presa sul terzo Mondo aperto, terra occupata, per la strada o nel deserto, nelle foreste o nelle città, la scelta è obbligata… Insisto su un cinema di guerriglia come unica forma di combattere la dittatura estetica ed economica del cinema imperialista occidentale o del cinema demagogico socialista» (Glauber Rocha). Siamo fatti dell’utopia di cui sono fatti i nostri sogni. L’impero della servitù è lì, in mezzo al fango sulle stelle, dove tutto è permesso perché niente è vero.
La geografia della fame del Brasile (e dell’intera America Latina…) è stata gridata, portata sugli schermi di tutto il mondo da Ruy Guerra, Nelson Pereira dos Santos e Glauber Rocha (più di ogni altro poeta della povertà, del mito e della magia). Ne I fucili, Guerra si richiama al realismo nudo di Luis Buñuel — Terra senza pane (Las Hurdes, 1933) —… la superstizione religiosa, la sudditanza della popolazione del Nordeste ai militari, proprietari terrieri, preti… strozzano ogni possibilità di rottura del cerchio… la rivolta individuale finisce in maniera tragica e la sopravvivenza mendicata nella passività fissano il film in una miserabile vittoria. Quella del predatore sulla propria vittima.
I fucili è un saggio sul sottosviluppo, un film-materico, anarchico, della rabbia in corpo… che non esalta a una concezione rivoluzionaria della storia (la presa del potere da parte del popolo…) ma rimanda a una ragione (una stagione) della rivolta che verrà. Guerra non soffoca l’immaginazione sovversiva, si ri/volge contro ogni fatalismo medioevale del capitalismo moderno o/e crisi esistenziale, d’identità e incomunicabilità borghesi… non rinuncia alla necessità della violenza contro la violenza della classe dominante, afferma la rivolta del singolo come frammento in cammino per la rivoluzione sociale.
Il padre riconosciuto del Cinema Nôvo è Nelson Pereira dos Santos, al quale si deve un film importante per la storia degli uomini (oltre che del cinema…), Vite secche. Un’opera “bruta”, girata in luce naturale, senza ricercate inquadrature o vezzeggianti formalismi. Un film come pochi che ci capita di vedere in una vita. La colonna sonora è tra le meno tristi che hanno graffiato (o mielato…) lo schermo. Il rumore delle ruote di un carro, l’abbaiare di un cane e canzoni popolari si mescolano alla trattazione visuale elementare… i piani sequenza, lo stare addosso ai personaggi con la macchina da presa (procedimento abituale a Robert Bresson, Jean-Luc Godard, Jean-Marie Straub…), il ritorno alla figurazione dei gesti, l’amore per la terra e la freschezza terribile di quei cieli forti, inutili, fanno di questo film il luogo della sopravvivenza e della speranza in armi che si scagliano contro la falsa oggettività. Questa pregnanza documentaria porta in ogni fotogramma l’insorgenza della soggettività insurrezionale e ad ogni giunta della pellicola mostra l’esecuzione capitale di “Cinelandia”.
In Vite secche si vive la fame storica di un paese colonizzato. Qui l’essere armati segna la trasparenza di una qualità, l’essere nel pieno della sua freschezza senza muri… dove il tuono dello schiavo si rovescia in padronanza della propria esistenza… «Con il cibo dei porci gli uomini sono già nella scienza… se taciamo, urlano le pietre» (Georg W.F. Hegel). È un opporsi alla norma con ogni mezzo… buttare la passione contro la ragione, il piacere contro il principio della produzione e dell’accumulazione, fare della centralità del potere (un niente aberrante della verità possibile…) l’origine della mancanza di mondo.
Glauber Rocha “scrive” un cinema tropicalista, fonde simulacri e fucili, preti e puttane, ladri e padroni, santi e diavoli… in un universo allegorico e tragico dal quale se ne esce o morti o ribelli. Deus e o Diabo na terra do sol mostra l’immobilismo del popolo brasiliano che si asciuga le lacrime della fame con le tonache dei vescovi mentre viene scannato dalle baionette dei colonizzatori. Per Rocha «il rivoluzionario non deve solo fare la rivoluzione ma deve essere la rivoluzione». La “scatola magica” (il cinema) dunque, deve liberare le ombre e le lame di luce che scrivono la sua magia sulla tela bianca. Deus e o Diabo na terra do sol si legge come una riflessione sul sottosviluppo, la cultura primitiva e l’influenza coloniale della cultura incrostata sul mondo colonizzato.
La visione radicale di Rocha insiste su un cinema tricontinentale (cinema d’autore, cinema politico, cinema contro…) come cinema di guerriglia che combatte sia la dittatura estetica del cinema imperialista che la demagogia propagandistica di quello comunista. I suoi film si inseriscono all’interno della macchina/cinena come agenti provocatori che partecipano alla sua dissoluzione. «Quando si cerca di ricreare artificialmente una realtà vera, si finisce per falsificarla» (Rocha). Ogni uomo che abbia il senso dell’utopia libertaria o dei piaceri libertini dell’esistenza, deve ringraziare i ribelli d’ogni terra, perché sono loro e soltanto loro che hanno permesso alle umane genti di edificare quella teoretica della disobbedienza che ha disvelato i porci in doppiopetto della ragione storica. Che è una faccenda tra mercanti di armi, governi ricchi e mercati globali, sempre.
II. Estetica della fame e cinema di guerriglia
La coscienza possibile del Terzo Mondo si figura nella morale libertaria e nella ribellione che il cinema tropicalista di Rocha e i suoi fratelli rovescia sugli schermi della terra. Il Cinema Nôvo conosce la realtà vera del proprio tempo, grazie alle sue esagerazioni. I film/libelli che ha disseminato ovunque c’è un pubblico che vuol capire per trasformare, conoscere per ribaltare, sognare per non piangere mai più… hanno sovvertito la logica narrativa dell’industria e la loro irriverenza tragica, romantica, inquieta, anarchica… ha segnato la fine di tutte le dissimulazioni, le giustificazioni, le distruzioni permesse dei saperi ingabbiati nel circuito chiuso della prostituzione dell’immaginale.
L’insolenza delle anime grandi di ogni favola… si oppone (qui e dovunque c’è oppressione, autoritarismo, privazione dei diritti di libertà di parola e di pensiero) all’eloquenza della temporalità schiacciata dagli assassini dell’intelligenza… si chiama fuori dalla liturgia della menzogna (delle fosse comuni), sulla quale i fanatici dell’obbedienza hanno fondato la storia del consenso… non c’è via di uscita, o si è complici dell’assassinio o si è ribelli all’ordine costituito. Il sottosviluppo non si può cancellare con le chiacchere del vangelo né con i biscotti rancidi, il latte condensato e le medicine scadute delle “grandi organizzazioni umanitarie”… quando solo il meglio sarà sufficiente, l’insurrezione dei senzavoce introdurrà l’amore del vero contro l’orrore del falso.
L’estetica del sogno contro l’estetica dell’illusione. «L’opera d’arte ormai appartiene al passato. I grandi cambiamenti si realizzeranno soltanto quando larghi strati della popolazione li vorranno veramente e faranno pressione per ottenerli. L’unico antidoto al sistema è l’anarchia, l’anarchia intesa non come assenza di governo, ma come assenza di dominio». Non ci sono principi buoni quando si giustificano i bagni sangue che una parte di umanità (quella ricca) commette contro un’altra (quella povera). La politica dell’odio non ha più maschere. Gli americani e gli europei negli ultini cento anni hanno scoperto gli orrori della pulizia etnica in Bosnia, Croazia, Kosovo, Cecenia… poi si sono allargati al Medio Oriente… l’ecocidio è generalizzato e capire il potere significa andare contro l’educazione che la civiltà dello spettacolo si è data.
L’estetica della fame del cinema tricontinentale si contrappone all’etica feroce del profitto senza mezzi termini: «Il cinema è una cultura della sovrastruttura capitalista. L’autore è nemico di questa cultura, egli predica la sua distruzione, se è un anarchico come Buñuel, o la distrugge se è un anarchico come Godard». Ed è questo cinema della disperazione che ha coltivato l’intima soddisfazione di avere acceso l’epoca della rottura e l’immaginario eversivo che la prossima primavera di bellezza porterà alla liberazione dell’America Latina e di tutti i Sud del mondo.
Il Cinema Nôvo è un flusso di immagini e di idee che hanno minato alla radice il dominio della s/ragione mercantile. Un cinema di verità che ha sparato contro il sole della tradizione e dell’accademismo. Ha prodotto una riflessione dell’istante e un’estetica/etica del ri/volgimento fondati sulla ricerca della libertà. Non siamo mai usciti dal tempo dei negrieri. La falsa comunicazione dello spettacolo fa cultura. Ciascuno è diventato il poliziotto dei propri bisogni. «La repressione del ribelle libertario si abbatte su tutti gli uomini. Il sangue di tutti gli uomini gronda con il sangue dei Durruti assassinati» (Raoul Vaneigem). Per fermare la mano che uccide i poveri della terra non bastano le preghiere. La pace del mondo è nelle nostre mani. Gli untori sono tutti noti. I loro pistoleri anche. Non ci scendono le lacrime sul viso per il crollo di un paio di torri di cemento. E i tremila morti sotterrati in quelle macerie ci commuovono. Però non possiamo non pensare ai milioni di morti per fame, alle popolazioni sterminate, alla violenza istituzionale che impera ai quattro angoli della terra… sappiamo che terrore di Stato e terrorismi religiosi sono sovente confezionati dalla stessa mano. A memoria d’uomo non conosciamo altra miseria che non sia quella spettacolarizzata, bagnata di sangue innocente, sulla quale ogni potere ha eretto la propria fortuna. Ecco perché ogni tanto il cuore risuscita di gioia, quando vediamo qualcuno danzare sulla testa dei re, tiranni o generali. La nostra sconsiderata utopia ci porta a sognare sempre ciò che il nostro animo ha già conoscuto o soltanto desiderato.
Il cinema negro di Rocha è un occhio aperto sul mondo, uno strumento di conoscenza non addomesticata. Porta con sé una estetica della fame e una estetica del sogno che vanno a profanare la tirannia della mediocrità smerciata dall’industria di eroi e di puttane sante, ombre ammaliatrici dell’immaginario dell’espropriazione e universo concentrazionario di sopravvivenza ordinaria. Rocha ci ricorda che «una estetica della violenza, prima di essere primitiva e rivoluzionaria, è il momento in cui il colonizzatore si accorge dell’esistenza del colonizzato: solamente se il colonizzato prende coscienza della sua unica possibilità, la violenza, il colonizzatore può comprendere, attraverso l’orrore, la forza della cultura che egli sfrutta». L’opera di Rocha è un cinema di opposizione, segna la perdita di tutte le illusioni, annuncia ed anticipa l’epoca del fuoco, dell’utopia ritrovata sulle spiagge liberate dalla fame Latinoamericana. Se dai alla vita quanto di meglio la tua anima ti dona, solo il meglio ti verrà restituito.
Il cinema sovversivo di Rocha deraglia dai vizi ideologici e dalle fronde culturali… rotti gli steccati della politica istituzionale, frantumati i feticci della superstizione sciamanica, consumati i falsi profeti della religione, Rocha racconta la fame storica, il sottosviluppo, la violenza perpetuati in America Latina (da più di cinquecento anni) dai Paesi più ricchi o più armati… Nella “Brevissima relazione della distruzione delle Indie”, scritta da un frate spagnolo (Bartolomè de Las Casas) nel 1542 e pubblicata solo nel 1987, si legge: «…e poi gente poverissima, che assai poco possiede e ancor meno desidera possedere beni temporali: pe r questo non sono superbi, né avidi o ambiziosi… più di dodici milioni di anime, uomini, donne e bambini, son morti nel corso di questi quarant’anni per la tirannia e le opere infernali dei cristiani, ingiustamente e iniquamente». A Las Casas rispondono i film corsari di Rocha, che sovvertono l’abituale mancanza di coraggio della “scatola delle meraviglie”. L’estetica della fame con la quale Rocha ha incendiato gli schermi/specchi del mondo, si configura con l’estetica del sogno e in una dialettica audiovisuale provocatoria, rivendica il cinema come interrogazione dell’esistenza.
III. La trilogia della Violenza e la bava dell’utopia
«La storia è commovente. Se i migliori autori, prendendo parte alle sue lotte, si sono talvolta mostrati meno insigni che nei loro scritti, essa non ha in compenso mai mancato, per comunicarci le sue passioni, di trovare gente che avesse il senso della formula felice».
Guy Debord
Nel 1965, Rocha scrive nel manifesto — Estetica della fame — : «L’America Latina rimane tuttora una colonia: la differenza tra colonialismo di ieri e quello di oggi sta soltanto nella forma più perfezionata degli attuali colonizzatori… Noi sappiamo che la fame non sarà curata dalle pianificazioni governative e che i rammendi del technicolor non nascondono, ma aggravano i suoi tumori. Sappiamo, anche, tuttavia, che soltanto una cultura della fame, minando le sue proprie strutture, può superarsi qualitativamente: e la più alta manifestazione culturale della fame è la violenza». Su queste tematiche eversive, Rocha compone la trilogia della violenza e della bava dell’utopia — Il Dio Nero e il Diavolo Biondo (Deus e o Diabo na terra do sol, 1964), Terra in trance (Terra em transe, 1967), Antonio das Mortes (O dragao da maldade contra o santo guerreiro, 1968) — e dice: «Finché non impugna le armi, il colonizzato è uno schiavo: c’è voluto un primo poliziotto ucciso, perché il francese si accorgesse dell’esistenza dell’algerino» (Glauber Rocha). C’è voluto il colpo su colpo di Emile Henry, per mostrare (non solo ai francesi) il valore d’uso di una marmitta piena di dinamite e scuotere il torpore nella quale la coscienza pubblica si era addormentata di fronte agli assassinii dei ribelli di ogni società.
Il Dio Nero e il Diavolo Biondo (Deus e o Diabo na terra do sol, 1964)
«E poiché l’uso dell’intelligenza testimonia più imbecillità a sinistra di quanto l’uso della stupidità a destra, le leggi del profitto si applicano ovunque con bella uniformità».
Raoul Vaneigem
Elogio del margine o panegirico ereticale di Glauber Rocha (che contiene la lode del personaggio e non comporta né biasimo né critica). Il Dio Nero e il Diavolo Biondo è un capolavoro. Quando fu presentato a Cannes nel 1964 non ci furono ovazioni. Critici e pubblico non lo capirono. Qualcuno lo voleva bruciare, altri chiesero di trasformare la pellicola in smalto per le unghie delle signore dabbene (cosa che era già successa per Greed di Erich von Stroheim). In principio erano solo le gesta popolari di un cangaçeiro (Corisco), poi Rocha gli affiancò le canzoni del beato Sebastião. La storia di un contadino (Manuel) e di sua moglie (Rosa) è anche la storia della fame profonda, della violenza instituzionalizzata e della ribellione spontanea del popolo brasiliano.
Il film si apre con un canto: «Manuel e Rosa vivevano nel sertão/Lavoravano la terra con le proprie mani/Ma un giorno entrò nella loro vita il Santo Sebastião/Aveva bontà negli occhi e Gesù Cristo nel cuore». Manuel resta “folgorato” dall’immagine/novella del Santo e della banda di fedeli al suo seguito… per la prima volta si rivolta al padrone e l’uccide. Manuel si rifugia su una montagna e si avvicina alla mistica di Sebastião, il quale predica una terra promessa dove «tutto è verde e i cavalli mangiano fiori mentre i bambini bevono in un fiume di latte; e gli uomini si cibano di pane fatto con le pietre, e la polvere della terra si muta in farina… il mare diventerà sertão e il sertão mare». Intanto Manuel e la banda del Santo rubano ai ricchi, compiono violenze, espropri ed ingiustizie quanto i loro affamatori. Rosa va sulla montagna e Sebastião uccide un bambino per purificare l’anima della donna. Manuel imbrattato di sangue piange e Rosa uccide il Santo. La Chiesa e la polizia inviano sulla montagna sacra un matador (Antonio das Mortes) per sterminare la banda di Sebastião. Manuel si unisce a un cangaçeiro (Corisco) con la stessa genuflessione e devozione (questa volta “laica”) che aveva dato a Sebastião. Antonio da Mortes ucciderà Corisco, Rosa e Manuel fuggiranno nel sertão fino a raggiungere il mare.
Il Dio Nero e il Diavolo Biondo è un film disperato e complesso. La fame (Manuel) genera la violenza contro le istituzioni (il padrone) ma il contadino non riesce a riconoscere la propria rivolta senza la fede religiosa (Sebastião) o la credenza in qualcuno (Corisco) che gli infonde il coraggio di ribellerasi… il contadino può esprimere il proprio dissidio soltanto attraverso un’immagine, un’icona, un capo con il quale identificarsi. Il Dio (Sebastião) e il Diavolo (Corisco) sono destinati a morire per mano dell’innocenza (Rosa) o del braccio armato delle autorità clericali, dei latifondisti, dei bravacci del potere militare (Antonio das Mortes). Rocha va alle radici della tradizione popolare brasialiana, Sebastião racchiude in sé le vicende storiche/mitologiche di due beatos, Antonio Conselheiro e Lourenço da Calderão. Al cangaçeiro Corisco gli sgherri del colonnello Rufino tagliarono davvero la testa, ed è ancora conservata (e considerata una reliquia) in Brasile.
Manuel unisce in sé la paura della fame e la paura del padrone. È l’incapacità del popolo (non solo brasiliano) di prendere coscienza della propria forza e di liberarsi dalla soggezione padronale e dalla genuflessione teologica. Anche se nel film di Rocha si canta che «la terra non è né di Dio né del Diavolo ma dell’uomo»… ciò che più deborda da Il Dio Nero e il Diavolo Biondo è la soggezione storica e l’immobilismo atavico di un intero popolo. Manuel prende coscienza di sé soltanto quando Sebastião compie il sacrificio del bambino e quando Corisco gli ordina di evirare il latifondista. Manuel non comprende la violenza come diritto alla ribellione, violenza come risposta alla violenza legalizzata di ogni potere. È Rosa a capire che ribellarsi è giusto. Rosa rifiuta Dio e il Diavolo. Il primo lo uccide. Il secondo lo ama. Il passaggio dalla preghiera alla lotta armata per lei è un cammino. Una visione libertaria che vede nella violenza l’ultima spiaggia per la salvezza e l’incominciamento di una vita quotidiana meno cattiva. L’amore tra Rosa e Corisco è delicato, sensuale, diverso… Rocha li filma in una specie di danza erotica tutta giocata con la complicità allusiva/toccante della macchina da presa in movimento, che fa da contrappunto alla musica e in un montaggio frammentario figura i baci tra Rosa e Corisco, gli sguardi, i capelli, i corpi… in un florilegio amoroso di singolare bellezza estetica e passionale. Corisco sarà ucciso da Antonio das Mortes, Rosa e Manuel andranno verso la speranza, laggiù dove il mare diviene sertão e il sertão mare di latte e di miele.
La morale ultima/estrema, Rocha la riserva ad Antonio das Mortes… uccidendo i beatos e Corisco, Antonio conferma la violenza e l’ingiustiza padronale ma nel contempo, elimina anche la superstizione e la rivolta senza causa dei cangaçeiros… illuminante è ciò che dice ad un cieco (che di volta in volta parla con i personaggi del film): «Un giorno si combatterà nel sertão; non sarà la guerra né di Dio né del Diavolo. Perché questa guerra cominci devo uccidere Corisco». Il Dio Nero e il Diavolo Biondo è al fondo della sofferenza, della fame, del colonialismo culturale, politico, economico che fa della tragedia storica brasiliana il sintomo di rivolta più aperto del Cinema Nôvo nel mondo.
Il film di Rocha è costato quattromila dollari e 23 giorni di lavorazione. È un’opera “ruvida/abrasiva” ma non sciatta. Le inquadrature di Rocha e i movimenti di macchina sono rivoluzionari, inusuali, antitetici… compongono una “grammatica filmica” non convenzionale e molto ricordano il “cinema di poesia” pasoliniano o la “poesia della surrealtà” anarchica buñueliana… la musica (Heitor Villa-Lobos e Sergio Ricardo) sottolinea con commozione tutti i passaggi, le cadute, le resurrezioni degli avvenimenti e davvero grande è l’interpretazione di Iona Magalhaes (Rosa), Othon Bastos (Corisco) e Mauricio do Valle (Antonio das Mortes). La fotografia di Valdemar Lima è sparata sul reale… e come in Roma città aperta di Roberto Rossellini, conferisce al film un’aura fantastica, una verità immaginativa senza eguali. «Per noi la macchina da presa è un occhio aperto sul mondo, la carrellata è uno strumento di conoscenza, il montaggio non è demagogia ma punteggiatura del nostro ambizioso discorso sulla realtà umana e sociale del Brasile» (Glauber Rocha). Un cinema dunque, che prima di essere primitivo è rivoluzionario.
Per Rocha era importante elaborare un cinema tricontinentale, una specie di cineocchio aperto sulla realtà del Terzo Mondo… una visione radicale dell’esistenza che è anche azione, diserzione, ribaltamento di prospettiva… Un cinema del disincanto che «alle origini è brutale e impreciso, romantico e suicida, ma [che] diventerà epico/didattico» (Glauber Rocha) nel corso della lotta. Rocha insiste su un cinema di guerriglia come unica forma per combattere la dittatura estetica ed economica del cinema imperialista occidentale o del cinema demagogico comunista. Fuoco agli schermi, dunque! E Rocha questo cinema epico, didattico, di guerriglia culturale/politica continuerà a buttarlo sulla sindone puttana del cinema per tutta la sua breve cinevita.
Terra in trance (Terra em transe, 1967)
«Non è sufficiente bruciare i musei [le chiese, i parlamenti, le sedi dei partiti, le banche, le caserme…]. Bisogna anche saccheggiarli».
Internazionale Situazionista
I gitani dicono che la verità non va mai detta con la lingua dei padroni, perché lì regna la menzogna. Con Terra in trance, Rocha porta un attacco frontale alla casta intellettuale/politica/clericale del pianeta Latinoamericano. Il film vuole risvegliare antiche rivolte tribali, riaccendere i luoghi possibili delle insurrezioni popolari… ed è questa capacità di esprimere l’estetica del sogno o l’anarchia possibile di un intero popolo che disorientò la Destra e la Sinistra europee… smascherò senza timori o riverenze la degenerazione della cultura, le connivenze della politica con il clero e mostrò le origini della nascente dittatura. Il regime di Castelo Branco non voleva devianze né occhi che invitassero a guardare, a pensare, a far riflettere ciascuno con la propria testa. Nel corso di una manifestazione di protesta contro la sede dell’OEA (l’Organizzazione degli Stati Americani), Rocha viene arrestato e buttato in cella di isolamento. Dietro pressioni internazionali, il ministro della guerra Costa y Silva lo fa scarcerare insieme ad altri insubordinati, mostrando alla stampa un “caso di giustizia esemplare”. La tirannia istituzionalizza il crimine e giustifica il sangue versato dagli insorti di ogni razza per la conquista di una società senza frustate né terrori.
Terra in trance è un film-tesi sulla crisi brasiliana, quasi un testamento della fame che riporta alle origini della comunità… le speranze perdute, il tempo dell’amore, il tempo delle passioni rivoluzionarie ormai affondati nel caos, nel genocidio, nel saccheggio economico transnazionale. Rocha guarda il divenire con il pessimismo dell’intelligenza ma invece di credere all’ottimismo della volontà del pensiero gramsciano, arma le ragioni della coscienza (anarchica) del Singolo per allevare i sogni e i segni della rivolta individuale. Ubica il suo racconto nell’Eldorado (il Paese Dorato), la mitica terra delle sette città d’oro che da quasi due secoli è al centro di ogni leggenda dell’America Latina. Non è difficile individuare l’Eldorado di Rocha nel Brasile e più ancora nel Sudamerica. Non ci sembra che Terra in trance si possa definire come «la somma di contraddizioni di un uomo che ha sempre vissuto nella dimensione politica del suo paese. Una pausa, in cui ci si solleva al di sopra degli avvenimenti e ci si guarda freddamente dentro, giustificandosi e accusandosi alternativamente» (Cinzia Bellumori). Vero niente.
In Rocha, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il neo/colonialismo e l’oppressione. Il suo fare-cinema reinventa la vita quotidiana, sborda oltre i margini del cronachismo e dell’attualità politica, ridisegna altre mappe comunicazionali della società Latinoamericana. Sovente i suoi riferimenti libertari si affrancano alle imprese di certi “Border Ruffians” (banditi di confine) che ovunque facevano “pubblica professione di umanità” e in cambio della loro totale libertà, “avevano tutto il diritto di farsi impiccare”. Gente insomma che esprimeva il disordine dell’ordine e il caos della morale comune per cercare il “partito dello Stato libero”… che hanno sempre odiato tutte le guerre ma non si sono mai sottratti a partecipare alle guerre per la libertà di un uomo o di un popolo (Henry David Thoreau, diceva).
Terra in trance si articola su un lungo flashback… l’agonia e la morte di un giovane poeta (Paolo), assassinato dagli sgherri del dittatore Diaz. Ricordi, emozioni, frammenti di vita quotidiana passano negli occhi di Paolo. Il montaggio corto, spezzato, surreale… figura la parte emotiva del film, quella che vede il popolo avanzare domande, interrogare i padroni, sollevarsi e morire per riavere la propria terra, riconquistare le proprie radici, ritrovare le proprie origini… ci sono poi lunghe sequenze respirate, quelle che descrivono i filamenti mondani, politici, economici della classe al potere… l’insieme affabula forse una delle più grandi opere/saggio mai apparse sullo schermo. La ragnatela filmica di Rocha dissipa immagini, suoni, metafore… dittatori, preti, comunisti, puttane della “buona borghesia”… cangaçeiros, beatos, poliziotti, latifondisti… sono i riferimenti intorno ai quali ruota l’immaginario violentato di Rocha, che descrive Paolo incapace di rifiutare sia il paternalismo del potere (Diaz) che la demagogia populista-comunista (Vieira). Quando Vieira si arrende ai fucili di Diaz, Paolo decide di non cedere le armi e di inseminare col suo martirio la strada della rivoluzione. La morte di Paolo assume ancora la simbologia cara a Rocha: solo sulle rovine del passato possiamo erigere nuovi edifici, altri modi di abitare il mondo.
La coscienza della lotta Paolo la riconosce in Sara, che si esprime così: «Che ne sai tu di me? Io volevo sposarmi e avere dei figli… invece ho alzato il mio primo cartello in piazza… e sono stata torturata con l’elettricità. E nonostante questo ho alzato il mio secondo cartello e poi un altro e un altro ancora». Paolo capisce che la strada della rivoluzione predicata da Vieira è falsa, ipocrita, stupida quanto i muri della restaurazione di Diaz. Quando Rocha mette in bocca a Diaz queste parole — «I comunisti hanno creato la mistica del popolo, ma il popolo non vale nulla. Il popolo è cieco e vendicativo. Se si daranno occhi al popolo, che farà poi il popolo?» —… vuole dire che quando si cerca di artificiare il pensiero comune con indottrinamenti o mitologie squallide, sconce, false… degne di quel bordello papale che è la “santa romana chiesa” o quella sozzura di sbirri della partitocrazia comunista… il popolo non potrà mai superare la propria paura e conoscere la gioia di esistere senza catene né simulacri.
In America Latina e dappertutto, i sistemi politici di destra, di sinistra o più semplicemente borghesi… sono legati al mito della conservazione e del saccheggio che l’Occidente continua a identificare con lo “sviluppo sostenibile” e che in altri termini si chiama – colonizzazione –. La rottura del cerchio, cioè dei razionalismi del colonizzatori, sembra essere la sola via di uscita per i clandestini della libertà. «La rivoluzione è un atto magico perché è l’imprevisto all’interno della ragione dominante… «Il sogno è l’unico atto che non si può proibire» (Glauber Rocha). L’estetica della fame e l’estetica della violenza che Rocha ha espresso in tutta la sua opera cinematografica, si oppongono all’insieme delle avanguardie artistiche del proprio tempo e quello che andavano a produrre nel pensiero corrente era appunto l’anti-ragione dei suoi fondamenti e dei suoi valori estetici ed etici. Alla ragione oppressiva rispondeva con la ragione rivoluzionaria e l’arma del suo strappo era la povertà profonda, endemica, di una grande parte di umanità che insorge per conquistarsi il diritto di avere diritti.
Terra in trance è un film sul popolo ma non è un’opera popolare o populistica… è un invito alla rivolta ma non alla rivoluzione… la vampata di un fuoco, non il tepore (o lo sfavillio) della cenere. Rocha si lancia contro l’oscurantismo culturale, l’inquisizione religiosa, l’ipocrisia delle convenzioni e ad ogni giunta di pellicola — sembra dire — che occorre assumere la violenza delle proprie idee (fino in fondo) per respingere l’odio dei nuovi barbari. Terra in trance è una mina vagante nelle sale di prostituzione (i cinema) che esplode nei preconcetti della sinistra partitocratica e nell’intolleranza famelica della destra… Rocha esprime qui (e dappertutto nel suo cinema fatto e pensato), una comunicazione dello strappo, un coagulo di polemiche, una partecipazione al dissenso che divengono percorsi, passaggi, voci disperate dei senzavoce dell’intera America Latina. Per Rocha la cultura europea è una cultura morta, decadente e solo una cultura dell’utopia e della ribellione potrà modificare alle radici la realtà vera dei popoli oppressi.
Il cinema di guerriglia di Rocha è un cinema radicale, un modo cosciente di combattere la dittatura dello spettacolo e la demagogia delle ideologie che lo contengono e lo promuovono a mito. La sua definizione più semplice è — cinema tricontinentale — e significa che «qualsiasi macchina da presa il cui obiettivo sia aperto sulla realtà del Terzo Mondo è un atto rivoluzionario. Tricontinentale. L’atto rivoluzionario è il processo di un’azione che diverrà riflessione nel corso della lotta» (Glauber Rocha). La realtà è sempre più grande di ogni storia, di ogni fede, di ogni idelogia… basta avere il coraggio di saperla cogliere nelle pieghe del terrore istituzionalizzato e far salire negli occhi dei potentati, la stessa paura che hanno provocato (per millenni) nei popoli assoggettati. Ovunque «la ghigliottina è uno sportello di banca» (Louis-Ferdinand Céline). L’uomo è precisamente ciò che sogna. Ciò che vive. Tutti i pezzi di merda sono capaci di parlare bene di Dio, dello Stato, della Cultura… più sono stupidi e più sparlano, si premiano, si smedagliano… quello che conoscono è l’adulazione, il tradimento, la tartuferia… scatenane uno e vedrete che tutti gli altri si uccideranno da sé o chiederanno di essere impalati alle picche dei comunardi del prossimo Maggio rosso.
Antonio das Mortes (O Dragao da maldade contra o Santo Guerreiro, 1968)
«Contro l’ingiustizia non posso ammettere una rivolta parziale, ma solo una rivolta eterna, perché eterna è la miseria dell’umanità».
E. M. Cioran
Nel pieno della contestazione generale del ‘68… Rocha torna nel sertão e gira Antonio das Mortes. Riprende le tematiche di Il Dio Nero e l’Angelo Biondo e contrappone la miseria atavica del Nordeste allo sviluppo tecnologico del Brasile che si avvia alla dittatura di Medici (farà il colpo di Stato nel 1969). Rocha adopera un linguaggio filmico diretto, secondo la lezione di Roberto Rossellini e nel contempo firma un saggio di antropologia culturale, secondo la lezione di Jean-Luc Godard. Qui Rocha abbassa le tensioni mitologiche e sottolinea i problemi politici di un Paese (il Brasile) ancora in parte sconosciuto.
La storia di Antonio das Mortes è quella di José Rufino, un bandito, uno di quei cangaçeiros che sono andati alla deriva nel deserto del Nordeste, senza tetto né legge. Spinti dalla miseria estrema, dalla fame, da anni di ingiustizie… i cangaçeiros del Nordeste si fecero banditi senza bandiere né speranze che non quella di sopravvivere con le armi in pugno contro il fascio delle istituzioni… divennero i principali oppositori del latifondo, del feudo agrario, dei corvi della chiesa, della violenza militare… e nelle loro canzoni dicevano che «l’inferno è la casa del padrone e quest’ultimo Satana stesso». Le gesta di Lampião, un cangaçeiro storico, un mito che appare in tutti i canti brasiliani, raccontano che soltanto con la violenza del ribelle, la violenza del padrone potrà finire… Coirana, prima di essere ucciso da Antonio (come Corisco de Il Dio Nero e l’Angelo Biondo), grida che «libererà dalle carceri i prigionieri, e vi getterà dentro i carcerieri, farà sposare in chiesa la puttana col velo bianco e di luna piena…». Non sarà così. Antonio è il sicario chiamato dai proprietari terrieri, dai militari, dal clero… per fare piazza pulita di tutti i cangaçeiros del Nordeste… la sola riforma che conosce è la soppressione di ogni rivolta.
Alla testa dei beatos c’è la Donna Santa, incarna la rivolta sciamanica ma non contiene le esaltazioni mistiche del Santo Sebastião di Il Dio Nero e l’Angelo Biondo… il negro che gli sta accanto (porta sempre lo stendardo dove è raffigurato San Giorgio e il drago morto ai suoi piedi), è una metafora importante e Rocha lega qui il neo/colonialismo con le origini africane. Il cangaçeiro Coriana e la Donna Santa si uniscono nella lotta contro il padronato ma nella sfida con Antonio, il cangaçeiro verrà ucciso e con lui anche tutti i sogni di una rivoluzione senza possibilità di vittoria. Quando Antonio incontra sulla montagna la Donna Santa, si accorge di essere dalla “parte sbagliata”, quella dei padroni, dei tiranni, degli aguzzini… e il matador di cangaçeiros si trasforma in una specie di “cavaliere del deserto” che una volta scoperta la realtà profonda del colonizzato, si ribella alla storia imposta ed impugna le armi contro gli oppressori. Per ammazzare i cangaçeiros di Coirana, il proprietario terriero Coronel chiede l’intervento dei mercenari di Mata Vaca. La donna di Coronel (Laura) uccide il suo amante (il Commissario) e lo va a seppellire nel deserto con il Professore (un intellettuale un po’ visionario, un po’ fatalista). Intanto i mercenari di Mata Vaca si preparano a compiere l’eccidio dei beatos… Laura e il Professore fanno l’amore nel sertão, disturbati dal prete che vuole impedire il massacro. Rocha (usando con grazia il montaggio alternato), intreccia l’erotismo dei corpi (Laura e il Professore) con la sensualità della danza (i beatos) e la crudità della fucilazione dei mercenari (i cadaveri si vedranno soltanto alla fine del massacro). Gli unici superstiti sono il negro e la Donna Santa (non possono essere uccisi, perché loro sono i simboli della lotta contro tutte le ingiustizie). Il prete, alla fine del film decide che non basta più pregare, impugna il fucile e prende la strada della rivolta armata. Antonio e il Professore hanno un sussulto di vita… davanti alla chiesa (in piena citazione western), uccidono Mata Vaca e i suoi uomini. Non c’è pistola o fucile che li possa scalfire… l’ultimo a morire è Coronel, trapassato dalla lancia del negro a cavallo, secondo l’iconografia popolare di San Giorgio… anche Laura (la puttana del padrone) muore nella sparatoria. La Donna Santa, il Negro, il Professore e il Prete in armi si allontanano verso il sertão… Antonio das Mortes, sceglie un’altra via. Con il suo cavallo avanza sulla strada asfaltata tra camion ed auto del “mondo moderno”, va incontro ad una civiltà senza speranza che non capisce né vuole capire… Una chiusa di rara importanza politica e di ineguagliabile bellezza poetica.
Rocha porta sullo schermo le Vie dei Canti brasiliani, sostituisce la mortificazione della miseria con la trascolorzione dei sogni… e sono tante le “samba” che dicono: «Non ho fagioli, faccio la minestra con le pietre», «morirò sul marciapiede ma con molta allegria», «la favela è l’ingresso del paradiso», «preferisco morire nella siccità del mio sertão che vivere nel deserto di asfalto». Antonio das Mortes è il grido di rivolta più alto che esce dalla cultura del sottosviluppo… figura la rabbia più profonda dei diseredati della terra… il diritto alla rivoluzione di tutti quei popoli che sono tenuti nell’oppressione, nell’ingiustizia, nella soggezione dai Paesi più sviluppati… «La rivoluzione brasiliana sarà possibile solo dall’incontro di mentalità mistiche e non politicizzate come Antonio con mentalità politicizzate come il professore, e dalla presa di coscienza dei contadini e dei negri analfabeti. Perché il popolo ha bisogno proprio di quella chiarezza politica che gli può dare l’avanguardia intellettuale» (Glauber Rocha). L’agonia di un mondo in fiamme rimanda all’infanzia dell’Utopia dove la sola verità possibile passa dalle parti della garrota degli insorti.
IV. L’età della terra e l’angelo dell’anarchia
C’era una volta e una volta non c’era… che sulle coste della Catalogna, in Spagna, un giovane pescatore di frutti di mare molto speciali, che nessuno riusciva a mai pescare… vendeva i suoi frutti — uno alla volta — alle famiglie povere del quartiere. Un giorno, uno dei più ricchi affaristi di Barcellona, gli disse: «Senti ragazzo, pesca questi frutti di mare per me… te li compro tutti insieme e al doppio di quanto li vendi a quei poveracci… li porterò ai migliori ristoranti della città». Il giovane pescatore rispose: «No signore, preferisco venderli uno alla volta a chi pare a me». L’uomo chiese: «E perché? Ti risparmio molto lavoro e te li pago il doppio?». Il ragazzo rispose: «Perché io sono il padrone della mia fame».
Solo alcuni crimini efferati, di un genere diverso a quanto si conosce, che in passato hanno fatto impallidire figure di alto lignaggio… non sono indegni di noi. L’involgarimento di ogni potere ci fa schifo. Ovunque ci sono uomini migliori dei loro padroni. Soltanto non lo sanno. Basta interpellare la povertà del mondo, per sapere se si è veramente felici. La politica è un affare. Come la guerra e la cultura. E i disertori dell’ordine vanno messi al muro. Ci sono miserie così splendenti che nessuno può rendere invisibili. Per questo che un giorno di un tempo che c’è, dal fondo dell’umanità umiliata e offesa, ritorneranno gli angeli con la faccia sporca (dell’anarchia) e porteranno all’uomo in rivolta le loro ali. E quando gli uomini del no! si preparano a passare dalle periferie del mondo al centro della scena, la loro ragione diventa tremenda. La storia autentica non può che essere opera di uomini liberi.
L’idea di realizzare A Idade da Terra (L’età della terra, 1979) nacque quando Rocha apprese dell’assassinio di Pier Paolo Pasolini. L’angelo dell’anarchia ricorda l’importanza ereticale del film di Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, così:
— ho pensato di filmare la vita di Cristo nel terzo mondo. Pasolini aveva realizzato un film sulla vita di Cristo… all’epoca di Giovanni XXIII… rompeva l’immobilismo della chiesa cattolica riguardi ai problemi… dei popoli… sottosviluppati del terzo mondo… e, anche, rispetto… alla classe… operaia europea. È stata la rinascita… la risurrezione… di un Cristo che non veniva adorato sulla croce. Ma… un Cristo… venerato. Vissuto… rivoluzionato l’estasi… della risurrezione. Sul cadavere di Pasolini… io pensavo… che Cristo… era un fenomeno… Nuovo. Primitivo. In una civiltà… molto… primitiva. Molto nuova —.
A Idade da Terra è quasi per intero, una “conversazione” a più voci, a più facce, nella quale Rocha racconta come è nato il film, gli errori fatti, i cambiamenti di inquadratura, gli appunti sparsi… è un non-film o un film-incompiuto, o forse l’opera più radicale di Rocha. Sovente la voce del regista entra in campo. Suggerisce qualcosa all’attore, a un tecnico, a una comparsa… in altri momenti la figura del regista affianca personaggi in scena, parla con il tecnico del suono, indica all’operatore lo stacco della ripresa, deborda in piano ravvicinato o sistema il trucco di un attore. Attraverso l’interruzione del discorso filmico, Rocha rompe anche l’abituale ricezione della lettura cinematografica. In un monologo spiega ciò che pensa del suo film:
— Sono… venti, trenta milioni… quaranta milioni, cinquanta milioni di anni. Nell’antropologia che… la scienza… la fisica, o… l’antropologia… o l’archeologia, tutte queste… scienze… che materializzano i desideri… Si perde la lingua stessa. Il portoghese… è una lingua che non esprime molto bene le conoscenze che non abbiamo… di un passato… smemorato. Sono 500 anni di civiltà… bianca, portoghese, europea, mescolata agli indios e ai neri… che sono… millenni, al di là della misura dei tempi, aritmetici… o della pazzia matematica… che non si sa… da dove… proviene… nemmeno… la nebulosa del caos… del nulla… ovvero sia: Dio… o il nulla. Chi non crede in Dio… crede nel nulla. Se il nulla è Dio… Allora… è molto… è molto rapida la storia… è una storia a una velocità fantastica… è una disperazione “lisergica”. E non può essere definita nell’ammmb… nell’umano, danno, nelle parole tutte che potrebbero definire il significato della piramide —…
Rocha spacca il filo del discorso strutturale. Non è né narrazione né testo scritto. Non c’è “nessuna” organizzazione compiuta dei materiali (non è vero). Sono frasi, in apparenza slegate, disarticolate, sconnesse, che invece, piano piano, nel proseguo del film, assumono una sorta di parabola eversiva. I suoni non sono sempre identificabili e le grida dei personaggi sovente invadono la scena, comprendo la voce di Rocha. L’Eldorado, Brasilia, Cristo sono mescolati a simbologie dimenticate, a cerimonie destituite, a desideri ammazzati… e salta via ogni forma di punteggiatura.
La storia universale della menzogna, il regista brasiliano la riassume così: «i religiosi cattolici e protestanti hanno provocato esplosioni navigazioni guerre invasioni dei mori in Europa invasioni dei cristiani nell’Africa del nord Spagna Portogallo e Inghilterra occupano l’America dall’altra parte indios massacrati neri importati guerre d’indipendenza latifondi industrie guerre di latifondo e industrie guerre di industrie e latifondi guerre civili pronuncamientos caudillos guerre guerriglieri rivoluzioni golpe di stato democrazia regressioni avanzamento arretramento sacrifici martiri America America del nord si sviluppa lo sviluppo tecnologico americano porta la civiltà nel mondo del secolo XX. La rivoluzione sovietica del 1917 guidata da Lenin Trotskij e Stalin sovverte completamente il discorso capitalista nordamericano mentre i popoli sottosviluppati dell’America Latina dell’Africa dell’Asia pagano il prezzo dello sviluppo dell’Europa atea degli Stati Uniti… i popoli sottosviluppati sono alla base della piramide non possono fare nulla» (Glauber Rocha). Il pane della libertà è amaro e la pietà non è mai stata rivoluzionaria.
A Idade da Terra porta lo spettatore al centro del problema, nel cuore dell’umanità offesa. È un inno sulla sofferenza dei deboli e degli oppressi. Un’analisi puntuale su un mondo eretto su fondamenta di sangue e di violenza. Una dura critica alla ragione in cambio della riconquista del sogno. Alcuni personaggi gridano: «Un’implosione al centro della terra ha demolito le nostre fondamenta»…. «Questa è la cloaca dell’universo»…. «Beati i folli, perché la ragione sarà la loro eredità». Il film di Rocha cerca di tradurre sul piano audiovisivo le asperità del mondo… là dove i popoli sottosviluppati non possono non aggrapparsi alle radici del passato o all’insurrezione dell’Utopia.
La “luce” di Rocha in A Idade da Terra è calda, quasi pastello. L’azzurro, il bianco e l’argento del carnevale invadono lo schermo e la poesia estetica accumulata sulla tela sino a qui, di colpo frana. L’immaginario di Rocha è irrefrenabile. Si avvale sia della teatralizzazione dello spazio mistico, sia di quanto corre nelle avanguardie figurative… e il suo film conduce lo spettatore verso l’ignoto o il mistero del cinema. Prima c’erano l’allegoria del potere, le repressioni dei militari, le croci del cattolicesimo, i fucili dei guerriglieri, la rivolta dei “santi”… ora il fascino dei significati liberati nella cornice filmica (il colonialismo, il cattolicesimo, il capitalismo, il socialismo, la barbarie). Lo spirito della rivolta si sostituisce all’illustrazione della rabbia e Rocha liquida gli orrori dell’immaginario collettivo con la parola, l’immagine pura e uccide il cinematografo.
A Idade da Terra mostra che il Brasile «ha cinquecento anni di civiltà portoghese, europea, cristiana e chi lo sa che altro ancora» (Glauber Rocha). Da subito dice che è la terra e il nascere del sole che danno il respiro della vita ovunque. L’acqua la rende fertile e nella grande fazenda dimora il padrone mentre neri, indios, cani e puttane ballano nel cortile. Rocha recupera la mitologia delle Amazzoni e si addentra nel mondo dei morti dove i canti degli antenati fanno da ponte alla storia delle repressioni a venire. Non è profeta né del Diavolo né di Dio ma testimone dell’utopia possibile, quella che vedrà il popolo riunito intorno alle ceneri dissotterrate dell’ingiustizia.
A Idade da Terra è un’esplosione di segni che non seguono una trama precisa. La tessitura a ventaglio permette a Rocha di mescolare danze, pistoleri, cortigiane, amazzoni, cristi, diavoli, rivoluzionari, seduzioni, sensualità, carnevali, processioni, utopie che si sovrappongono e danno al testo filmico finale il senso profondo, epico, didattico, rivoluzionario di un reale tutto ancora da inventare. Va detto di passaggio che «il popolo, decimato da Antonio das Mortes in Deus e o Diabo perché non morisse di fame o di fanatismo, disprezzato dall’intellettuale e ucciso con la canna della pistola infilata in bocca in Terra em Transe, viene invece rappresentato (reverenziato) con amore sincero e con affetto in A Idade da Terra. Il popolo marcia sulla piramide che Brahms ha fatto costruire perché gli serva da futura tomba, come su una nuova Bastiglia; anche se nel finale, misteriosamente, la piramide inghiotte il popolo, ubriacandosi con la Pepsi Cola, come in Russia, invece che con il vino». Il film si legge come un’orgia-arcaica o una liturgia-pagana sconsacrata — secondo le novelle angeliche pasoliniane —, dove l’imperialismo, il cattolicesimo, il colonialismo, la pornografia, la tirannia, la criminalità, l’amore, il feticismo, l’omosessualità, i militari, l’antropofagia, la denutrizione, la negritudine, la lotta armata, cristi, diavoli, madonne, puttane… si mescolano alla storia violentata dell’umanità.
A Idade da Terra ha fatto scandalo in un’epoca dove ormai nemmeno lo scandalo dei governi, lo scandalo della politica, lo scandalo della fede… fa più incazzare qualcuno. In campo internazionale gli attacchi a Rocha sono stati tanti. E tutti stupidi. Miravano alla visione del mondo dell’uomo e non all’immediatezza ereticale della sua opera. Il coro del dissenso della sinistra ha cinguettato con quello della destra e i cattolici hanno benedetto la crocifissione del film. I circuiti l’hanno praticamente rifiutato e solo qualche amico di Rocha (Lino Miccichè o i critici dei “Cahiers du Cinéma”) ha permesso, in qualche modo, che questo film non finisse nei fondi di magazzino o venisse riciclato in pochi grammi d‘argento (recuperati con la distruzione della pellicola).
«Ciò che si è scritto su A Idade da Terra verrà archiviato negli scaffali dell’ignoranza o della vendetta» (Maurício Gomes Leite). L’opera di Rocha, va’ dove il cuore la porta. Perché «il cuore è la ragione induttiva, è la percezione che supera la comprensione e fa scoprire che la realtà si colloca nell’amore. Il cuore ci dice che siamo fatti per essere liberi, per intessere la nostra felicità a partire da un certo ‘sì’ di una accettazione generosa» (Jean Dechanet, frate). Ogni vera spiritualità nasce da un incontro con qualcosa che ha a che fare con la disubbidienza o l’insubordinazione. I grandi momenti di santità o di profezia chiedono la liberazione integrale di tutto l’uomo e di ogni uomo. Si tratta di assumere il colore nero e meticcio degli oppressi per comprendere meglio la sorte degli umiliati e degli offesi, per balzare in piedi e invocare la rivoluzione sociale. Pensare la libertà nella storia, significa rompere le catene di tutte le schiavitù.
Certo, non è con un film che si fa la rivoluzione. Rocha lo sapeva bene. Il suo anarchismo (non solo cinematografico) conteneva l’urlo, la furia e il fascino che le grandi opere d’arte si portano dentro e trasmettono nei secoli. Rocha è l’Angelo sterminatore buñueliano che disvela la religione come oppio dei popoli e urla che la Chiesa cattolica, per ottenere il potere patriarcale/temporale sui contadini brasiliani, è stata la causa principale dello sterminio degli indios. Rocha non dimentica di dire che i militari, i latifondisti, i padroni sono l’evidenza del male e poiché i poveri della terra non hanno nessun diritto di gridarlo possono morire semplicemente per fame, con la complicità della comunità internazionale.
A Idade da Terra è l’insieme di tutti i film precedenti di Rocha e più di ogni altro contiene la disperazione della pietà brasiliana. Le fantasmagorie, le allucinazioni, le utopie del cinema sovversivo di Rocha hanno rotto i muri dell’indifferenza e i gazebi dell’ideologia. Rocha ha filmato il sorriso sul cadavere di un popolo e gli ha restituito la sua antica dignità. Ha risvegliato un reale che non è ancora realtà ed ha fatto della contraddizione una forma d’arte. E l’«arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità» (Theodor W. Adorno). Non c’è Utopia che non sia eco. Non c’è fantasia che non rivendichi la storia della vita offesa come storia del dissidio.
La bruttezza degli oppressori rende brutta ogni cosa, ogni persona. Sono loro che impediscono di godere della delicatezza della natura, del profumo degli alberi, del colore dei fiori. Sono loro che tingono di nero i fiumi, che uccidono i pesci nei mari, che sterminano gli uccelli nel cielo. Dobbiamo rendere belli noi stessi se vogliamo rendere belle anche le nostre vite.
Per non dimenticare: la chiave della felicità, dell’amore e della libertà è in ciascuno e non ci sono istruzioni per l’uso. Qui e altrove, l’età sovversiva dell’innocenza (dell’Eu-topia) non è stata ancora raccolta fino in fondo e i briganti illuminati restano ai margini del bosco in attesa che il popolo nascosto riprenda le danze e incominci la festa… per amore solo per amore l’uomo potrà mettere fine alle schifezze autoritarie dell’uomo… gli eu-topiani di ogni colore sono sempre lì, tra un mondo già morto ed uno incapace di nascere, che continuano a lavorare per disvelare le menzogne e le violenze istituzionali della civiltà dello spettacolo. La schiavitù non è un destino e l’obbedienza non è mai stata una virtù.
Il movimento del Cinema Nôvo è esploso nel 1962, in meno di dieci anni ha prodotto 32 film che hanno ribaltato i modi di fabbricazione, produzione e distribuzione della macchina/cinema. I maggiori film del Cinema Nôvo sono: Barravento (1962), Terra em transe (1967), O dragao da maldade contro o santo guerreiro (1969) di Glauber Rocha; Vidas secas (1963) di Nelson Pereira dos Santos; Os fuzís (1964) di Ray Guerra; Garrincha, alegria do povo (1963) di Joaquim Pedro de Andrade; Integraçao racial (1963) di Paulo César Saraceni; Memória do cangaço (1965) di Paulo Gil Soares; A opiniao pública (1967) di Arnaldo Jabôr; Os herdeiros (1969) di Carlos Diegues; O bravo guerreiro (1969) di Gustavo Dahl; A falecida (1965) di Leon Hirszman… e ancora le opere di Geraldo Sarno, Maurice Capovilla, David Eulalio Neves, Eduardo Coutinho, Walter Lima jr., Miguel Faria jr… «Fare un film — ha detto Glauber Rocha da qualche parte — è portare un contributo alla nostra rivoluzione, attizzare il fuoco, rendere il popolo cosciente. Questa è la tragica origine del nostro cinema: è rivoluzionaria».
Pino Bertelli, La macchina/cinema e l’immaginario assoggettato. Trattato di liberazione degli sguardi, Nautilus, 1987
Pino Bertelli, Né cinema né capitale, Traccedizioni, 1982
Glauber Rocha, Saggi e invettive sul nuovo cinema, a cura di Lino Miccichè, ERI, 1986
Pino Bertelli, Glauber Rocha. Cinema in utopia. Dall’estetica della fame all’estetica della libertà, La Fiaccola, 2002
Norman M. Naimark, La politica dell’odio. La pulizia etnica nell’Europa contemporanea, Laterza, 2002
Jeremy Rifkin, Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne, Mondadori, 2001
Noam Chomsky, Capire il potere, a cura di Peter R. Mitchell e John Schoeffel, Marco tropea Editore, 2002
Glauber Rocha, Scritti sul cinema, Biennale di Venezia, 1986
Bartolomè de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, a cura di Cesare Acutis, Mondadori, 1987
Emile Henry, Colpo su colpo, Vulcano, 1978
Bruce Chatwin, Le vie dei canti, Adelphi, 1988
Pino Bertelli, Pier Paolo Pasolini. Il cinema in corpo. Atti impuri di un eretico, di Croce Editore, 2001
Brasile: «Cinema Novo» e dopo, a cura di Lino Miccichè, Marsilio, 1981
(*) Questo testo di Pino Bertelli circola in rete come «GLAUBER ROCHA O L’ANGELO DELL’ANARCHIA» con questa indicazione: nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com (2003). E’ una relazione per le conferenze di «Sicilia Libertaria» (Catania, Siracusa, Ragusa), 15/16/17 maggio 2003.
Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili ma sinora sempre evitati) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo – postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.
Molti i temi possibili. Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno.
Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it ) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”.
Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su www.radiazione.info .
Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… vi aggiorneremo. (db)