Scor-data: 17 marzo 1949
L’uccisione di Luigi Trastulli a Terni: la memoria e l’evento
di Sandro Portelli (*)
1. Evento vissuto ed evento ricordato
“Un evento vissuto”, scrive Walter Benjamin, “è finito, o perlomeno è chiuso nella sola sfera dell’esperienza vissuta, mentre un evento ricordato è senza limiti, poiché è solo la chiave per tutto ciò che è avvenuto prima e dopo di esso”. Luigi Trastulli, ventunenne operaio delle acciaierie di Terni, morì in uno scontro con la celere, il 17 marzo 1949, mentre gli operai uscivano dalla fabbrica alle 10,30 del mattino, per partecipare ad una manifestazione contro il Patto Atlantico. L’uscita degli operai, lo scontro, la morte di Trastulli, non durarono più di mezz’ora in tutto: ma da quel momento in poi questo “evento” di brevissima durata non ha cessato di agire nella memoria collettiva.
Il modo in cui il fatto è stato elaborato, trasformato, interpretato nella “lunga durata” della memoria è l’argomento di questa ricerca, basata sui materiali raccolti in un lavoro ancora in corso sulla storia della classe operaia ternana, basato sulle fonti orali. L’episodio è particolarmente significativo non solo per la sua tragicità – Terni ha avuto nella sua storia momenti di tensione e drammi assai più acuti, dai bombardamenti della guerra ai licenziamenti in massa del 1952-53 – ma anche e soprattutto perché costituisce il terreno su cui la memoria collettiva addensa una singolare convergenza di racconti sbagliati, invenzioni, leggende, che vanno da ricostruzioni immaginarie della dinamica dell’evento fino addirittura al suo spostamento da un contesto storico ad un altro (in particolare, dalla lotta per la pace del 1949 ai licenziamenti del 1952-53). Si tratta di un fenomeno troppo coerente e diffuso per poterlo attribuire al cattivo funzionamento della memoria dei singoli.
Rintracciare le leggi, o almeno alcuni dei modi di procedere, di questa coerenza della memoria collettiva operaia, ricostruire il modo in cui all’evento viene affidato il compito di rappresentare in termini simbolici dei processi articolati e sotterranei, è il fine di questa ricerca. Ed a questo fine proprio i racconti “sbagliati” sono preziosissimi: “La storia”, scrive Hans Magnus Enzensberger, “è un’invenzione cui la realtà arreca i propri materiali. Non è un’invenzione arbitraria, però. Fondamento dell’interesse che essa risveglia sono gli interessi di coloro che la raccontano; ed essa consente a chi l’ascolta di riconoscere e precisare meglio i propri interessi, come pure quelli dei propri avversari”. Accanto agli interessi, o forse sotto, rimossi e nascosti in profondità stanno i desideri: se uno racconta un fatto diversamente da come è andato – osservava un operaio delle acciaierie in un seminario delle 150 ore in cui si era discusso anche dei racconti immaginari sulla morte di Trastulli – “forse inconsciamente cià anche puntato; era un desiderio che aveva e nel quale ha operato pure, probabilmente. Se poi (…) non è venuto fuori come fatto storico, lui inconsciamente aveva fatto certi comportamenti che lo portavano a raggiungere quello che poi alla fine finisce per mitizzare, perché non è stato raggiunto come punto materiale; ma lui sicuramente quel che racconta ci ambiva, magari”.
Se dunque le fonti orali utilizzate in questa ricerca non sono sempre attendibili ai fini di una rigorosa ricostruzione dei fatti, questo dato ci servirà non per scartarle, ma per aiutarci ad andare oltre la materialità visibile dell’evento, ad attraversare i fatti per scoprirne il significato.
2. Strategie della memoria ufficiale
Per facilitare la rilevazione degli scarti tra fonti orali e ricostruzione finora accertata dell’evento, traccerò qui le linee essenziali di quello che è possibile rilevare sulla base di fonti scritte tradizionali: i giornali e gli atti giudiziari. Partiamo da un articolo del Messaggero del 18.3.1949, che riferisce della morte di Trastulli sotto il titolo “Comizi, dimostrazioni e scontri con la polizia”, insieme con altri episodi verificatisi il giorno stesso in tutta Italia nel quadro delle proteste contro l’approvazione del Patto Atlantico di cui in quei giorni si discuteva in Parlamento.
“… Avendo la polizia proceduto al fermo di sei giovani sorpresi ad affiggere dei manifesti non autorizzati, le Commissioni Interne decidevano di inscenare un comizio al Politeama e a tale scopo, pur sapendo che i cortei non erano autorizzati, davano ordine alle maestranze di raggiungere in formazione il teatro.
Quando la Celere e’ giunta nei pressi delle Acciaierie, stazionando a circa 60 metri dalla massa, due funzionari sono scesi dalle macchine ed hanno cercato di convincere i dirigenti degli operai che dovevano recarsi alla spicciolata al Politeama.
Al rifiuto opposto da alcuni elementi, che già si avviavano verso la città trascinandosi gli altri dimostranti, i funzionari hanno ancora tentato invano di evitare l’urto con la polizia. Poco dopo, iniziatisi i tafferugli, è stato dato ordine agli agenti che si trovavano in una grande jeep di sparare qualche colpo in aria.
Contemporaneamente si udivano esplosioni di armi da fuoco che si presumono provenienti dal refettorio delle Acciaierie e dal secondo piano di un palazzo lì prossimo. Nello stesso momento cadeva vicino alla jeep principale una bottiglia contenente liquido incendiario che ha prodotto una detonazione e una fiammata.
È stato a questo punto che le macchine della Celere hanno iniziato il carosello.
Persistendo la resistenza è stato fatto uso di talune bombe lacrimogene e quindi è stato sparato qualche colpo.
Il bilancio dello scontro registra un morto, tale Alvaro Trastulli di 21 anni, 9 feriti tra i dimostranti, e 10 agenti contusi per il lancio dei sassi.
La salma del Trastulli sarà intanto sottoposta ad autopsia per stabilire se ad ucciderlo furono le armi della Polizia o quelle di altri.
In serata la calma ritornava in città, ma i dirigenti della Camera del Lavoro riuniti d’urgenza deliberavano per oggi uno sciopero generale di 24 ore”.
Lo stesso giorno si legge un resoconto parallelo, frase per frase, sul Corriere della Sera. La coincidenza dei due articoli è tale da dimostrare che si tratta delle parafrasi di un unico testo originario: probabilmente, una velina della polizia. Anche se non ci fosse su entrambi i giornali l’identico errore sul nome stesso della vittima (Alvaro anziché Luigi), questo ricalco di fonti poliziesche è già un buon esempio di quanto certe fonti scritte siano “attendibili” ai fini della ricerca storica. Confrontiamo perciò quindi questa versione dei fatti con quella data lo stesso giorno dall’Unità, in un articolo a firma di Paolo Pavolini, sotto il titolo “Terni e Perugia in sciopero per l’eccidio compiuto dalla celere”.
“… Le sirene delle Acciaierie hanno suonato alle 10,30. Allora migliaia di operai e di impiegati che si erano già raccolti nei cortili sono usciti in massa avviandosi verso il centro della città: andavano a manifestare per la pace contro il patto di guerra.
Avevano percorso appena 300 metri quando è arrivata la celere: una decina di jeeps, la solita sarabanda, le solite manganellate. Gli operai continuavano a venire avanti un poco alla volta; un gruppo si è avvicinato alla macchina del commissario Pezzolan: “Siate intelligenti, ragazzi – diceva questi – ci vuole l’autorizzazione per i cortei.”
Quello non era un corteo, gli spiegavano. Allora, ogni giorno, quando gli operai uscivano tutti insieme dalla fabbrica ci voleva l’autorizzazione? Ma l’autista della jeep del commissario non ha voglia di ascoltare; fa fare un salto avanti alla macchina, poi di colpo un salto indietro. Primo ferito: l’operaio Ettore Scatolini, partigiano, è a terra con un piede rotto, gli è passata sopra una ruota.
Gli operai protestano, gridano. Non attaccano, si limitano a gridare il loro sdegno. E allora la polizia spara loro addosso, spara subito a tiro radente sugli uomini. I vetri delle finestre a pianterreno vengono forati dai colpi. La sparatoria a raffica dura minuti e minuti. Scoppiano due bombe lacrimogene…”.
È giusto che mentre i giornali governativi sbagliano il nome dell’operaio, il giornale comunista sbagli quello del commissario (si chiamava Pessolano, non Pezzolan): un’altra prova di come gli errori siano rappresentativi degli “interessi” di chi racconta, degli schieramenti di campo. Ma la simmetria dei due testi giornalistici è più complessiva, perché entrambi contengono già la strategia che lo Stato e il movimento operaio seguiranno nel consegnare l’evento alla rispettiva memoria.
Penso già al titolo dell’Unità: “l’eccidio compiuto dalla celere”. Tecnicamente, eccidio significa che sono state uccise non una, ma molte persone: l’iperbole anticipa lo spostamento della morte di Trastulli dalla cronaca all’epica, che si svilupperà poi in molte testimonianze orali, e che qui è rafforzato già nel testo con quel rapido passaggio dall’imperfetto al presente storico. L’articolo prefigura poi anche la versione ufficiale che partito e sindacato presenteranno in sede giudiziaria per difendersi dell’imputazione di manifestazione non autorizzata: non c’era nessun corteo, era una normale uscita dalla fabbrica. È una versione che ritroviamo in numerose testimonianze orali:
Ambrogio Filipponi. Siccome quando uscivano gli operai dalla fabbrica, certo erano numerosi, quindi tutta la strada interessata, era una fiumana di gente che partiva, che si spostava; tutt’oggi quando escono dalla fabbrica gli operai riempiono il viale Brin. Questo secondo la polizia, la questura […] questo significava per loro invece un corteo. Non operai che uscivano e che quindi si trovavano costretti insieme ad uscire ed a camminare a gomito a gomito, per ragioni pratiche, logistiche, inevitabili; questo era il pretesto per poter intravedere la messa in scena d’un corteo non autorizzato. Questo significava secondo loro poter sparare nel corteo.
In altre testimonianze, per confermare che non c’era una manifestazione, l’ora dell’episodio viene spostata alla fine del turno: “Se trattava de tremila, quattromila operai che scappavano in massa. Poi, de tutti li turni, capito; perché se incontrava lo primo, lo secondo e lo terzo turno, insomma du’ turni più lo turno spezzato che facevano” (Trento Pitotti). È dunque difficile attribuire alla scarsa memoria dei narratori orali delle distorsioni che rientrano in una strategia immaginaria ed in una strategia giudiziaria già presenti in un articolo scritto il giorno dopo.
A sua volta, l’articolo del Messaggero contiene tutta la strategia processuale delle istituzioni – in particolare, il tentativo di attribuire la morte di Trastulli a ipotetici colpi sparati dagli operai stessi, e l’insistenza sul fatto che gli operai uscivano “in formazione” su “ordine” dei dirigenti. Per completare questo sguardo alle fonti scritte, varrà dunque la pena di esaminare brevemente gli atti dell’istruttoria, a partire dalla prima “notizia di reato” che il procuratore della repubblica di Terni trasmise al procuratore generale di Perugia il 18 marzo 1949:
“A seguito del telegramma di ieri informasi che nessun rapporto mi è ancora pervenuto dalla locale questura circa gli incidenti verificatisi ieri mattina in Terni.
Da informazioni verbali assunte risulta che nella mattinata di ieri gli operai della locale acciaieria, astenutisi dal lavoro per protestare contro il Patto atlantico, uscivano incolonnati e recando cartelli dallo stabilimento per recarsi in Piazza. Elementi della celere montati su camionetta affrontavano i dimostranti sul Viale Brin a poche centinaia di metri dallo stabilimento imponendo al corteo di sciogliersi perché non autorizzato. I dimostranti cercavano di eludere l’intimazione.
Ne nacquero tafferugli durante il corso dei quali ad un certo punto furono esplosi numerosi colpi di arma da fuoco a seguito dei quali rimaneva ucciso l’operaio Trastulli Luigi e feriti gli operai Dionisi Leonello e Crostella Raul che venivano ricoverati presso l’ospedale dove tuttora si trovano con prognosi riservata.
Sembra che vi siano stati altri operai ed agenti della forza pubblica contusi, ma non è ancora stato comunicato il nome e la entità delle ferite.
Il corteo si scioglieva e la calma veniva immediatamente ristabilita e non è stata turbata più.
Sono in corso gli accertamenti per stabilire le precise modalità del fatto.
Stamane è stata eseguita l’autopsia del cadavere del Trastulli riscontrandosi che costui è stato ucciso da un colpo di arma da fuoco automatica sparato a non molta distanza e che ha attraversato il corpo traversalmente da destra verso sinistra recidendo l’arteria aorta.
Appena mi perverrà il rapporto della Questura con l’esito degli accertamenti mi riservo di riferire ulteriormente”.
Questo documento è più interessante di quanto non possa apparire dalla sua prosa burocratica. Va in primo luogo sottolineata quella formula che apre la parte narrativa: “Da informazioni verbali assunte”. Siamo di fronte ad una tipica “fonte scritta” che proclama in maniera clamorosa il fatto di non essere altro che un riassunto di preesistenti “fonti orali”, raccolte e messe per iscritto, a modo suo, da qualche burocrate, con l’attendibilità che possiamo immaginare. D’altra parte, quasi tutto il materiale ufficiale sul caso Trastulli è di origine orale: testimonianze rese oralmente e verbalizzate per iscritto, con abbondanza di errori di ortografia, da marescialli e cancellieri. Il procuratore della repubblica di Terni ci dice quindi che oralità e scrittura sono inestricabili l’una dall’altra nel tessuto stesso delle fonti.
Sul piano del contenuto, traspare come la procura della repubblica non fosse ancora del tutto al corrente della strategia che la polizia veniva sviluppando per dare conto dei fatti, e di cui già si leggevano i riflessi nei giornali dello stesso giorno. Come dice la lettera stessa, il procuratore non aveva ancora ricevuto “nessun rapporto” della celere: perciò dice che “nacquero tafferugli”, ma non chi li cominciò; che “furono esplosi” colpi di arma da fuoco, ma non da chi e da dove. Il Messaggero invece sa già più cose della magistratura: “sa” che la polizia ha sparato in aria e i dimostranti hanno sparato dai palazzi vicini; “sa” che fu tirata una bottiglia incendiaria. Infatti, il giornale ha già ricevuto la sua velina. L’unica cosa che anche il magistrato sa per certa è che si trattava di una manifestazione, con gli operai “incolonnati” e, particolare che si rivelerà importantissimo poi, recanti cartelli.
Seguendo gli atti, vediamo come la magistratura recepisca gradualmente la strategia della polizia, a partire dai primi interrogatori – per lo più di poliziotti, impiegati (e allora la contrapposizione tra operai e impiegati era nettissima), funzionari degli uffici che danno su viale Brin, eccetera. Il 23 marzo, il procuratore dà una versione più “completa” dei fatti, introducendo la responsabilità degli operai per l’inizio degli scontri, l’episodio della jeep già riferito dall’Unità, gli spari provenienti dai palazzi vicini, la bottiglia incendiaria, i tentativi di conciliazione del commissario:
Mentre [il commissario] raccoglieva il consenso di alcuni operai a lui più vicini [per lo scioglimento del corteo], dei gruppi, evidentemente più facinorosi, tra i quali si notavano alcuni armati di mazze e bastoni in precedenza occultati e che fino a quel momento si erano limitati solo a gridare e lanciare insulti (figli di mignotta! Morti di fame! Venduti a Scelba!), tentavano di rompere lo sbarramento, accerchiavano una “Ieeps” sollevandola per rovesciarla.
Gli autisti dei suddetti automezzi si sottrassero giocando a carosello innestando marcia avanti e marcia indietro.
Da questo momento gli eventi precipitarono: mentre una Jeeps compiva evoluzioni per impedire che lateralmente un gruppo di dimostranti si incuneasse tra la fila delle “Jeeps”, uno di essi colpiva violentemente con un tabellone di lamiera gli agenti della predetta macchina che, protetti dagli elmetti e facendosi scudo con i gomiti, paravano il colpo riportando contusioni. Alla guardia Branca Angelo veniva inoltre strappato e portato via l’elmetto. Nel contempo altro automezzo, che compiva simile manovra, veniva accerchiato da altro gruppo di dimostranti che tentava il disarmo degli uomini si che l’autista era costretto a innestare, come le altre, marcia avanti e indietro sottraendo, con sbalzi, gli uomini dall’aggressione.
Il Dr. Pessolano, anch’egli in pericolo, intimava lo scioglimento degli assembrati. Per tutta risposta i tumultuanti iniziavano contro le forze dell’ordine un lancio fitto di mattoni, grossi sassi e bottiglie, di cui una contenente liquido infiammabile, che fortunatamente non s’accendeva ma se ne avvertiva la natura attraverso le esalazioni di vapori come di acido imprecisato. È in questa violenta mischia che alcuni colpi secchi di pistola echeggiavano dal lato del chiosco prospiciente l’ingresso delle acciaierie e da una finestra che da luce alla scala dello stabile contrassegnato col n° 206, già invasa dai dimostranti, dalla quale alcuni agenti notarono uscire piccoli fiocchi di fumo. Ai colpi stessi facevano riscontro altri di moschetto esplosi in aria dagli agenti di un solo automezzo, a fine intimatorio, e il contemporaneo lancio di lacrimogeni che faceva sgombrare il piano stradale dai dimostranti.”
Sarebbe fuori luogo seguire nei dettagli l’iter processuale, attraverso l’imputazione di omicidio e lesioni volontarie contro ignoti e di manifestazione non autorizzata contro alcuni membri della commissione interna (Arnaldo Menichetti, Giuseppe Catoni, Bruno Galigani, Rolando Ponti, Guglielmo Ramozzi, Paolo Grassi), fino alla loro assoluzione per non aver commesso il fatto – con l’accoglimento da parte della magistratura della versione secondo cui non si trattava di una manifestazione organizzata. Varrà solo la pena di fermarsi brevemente sui due punti più significativi e controversi del procedimento: la responsabilità della sparatoria e la spontaneità o meno del corteo.
Sul primo punto, l’accusa ammassa testimonianze di poliziotti e astanti che dichiarano con abbondanza di dettagli di aver visto partire i colpi dal famoso stabile di viale Brin, dal chiosco, dal refettorio. Altri testi affermano di avere visto operai muniti di mazze, bottiglie rotte, un pugnale (che fu trovato poi dietro i cancelli della fabbrica). In una fase successiva, la strategia delle istituzioni viene arricchita da un’incredibile sequenza di ritrovamenti di armi nelle acciaierie e nello stabilimento di Papigno poco lontano: tra il 19 luglio e il 25 agosto, la questura di Terni comunica non meno di cinque ritrovamenti del genere, che evidentemente contribuiscono ad accentuare l’immagine degli operai come aggressori. La testimonianza più puntuale di parte operaia sulla responsabilità della celere è invece quella che fu resa da uno dei feriti più gravi, Raul Crostella:
Il giorno in cui morì il povero Trastulli io pure ero tra gli operai dell’acciaieria usciti dallo stabilimento per la manifestazione di protesta contro il patto atlantico.
Io fui ferito mentre mi trovavo all’altezza della casa di abitazione civile sottostante al palazzo della marina. Fui ferito alle spalle. Ebbi tempo di rivoltarmi, anzi prima di essere colpito vidi che gli agenti che erano sul camion della polizia sparavano in direzione mia. lo non feci neppure in tempo a voltarmi.
Non so chi è che sparò contro di me. Affermo però che sparò senz’altro la polizia. Gli agenti erano irriconoscibili perché avevano gli occhiali antigas lacrimogeni e l’elmo. il camion da cui partì il colpo distava da me una ventina di metri.
Io dallo stabilimento uscii spontaneamente, perché so quali sono le conseguenze della guerra.
Da nessuno fui avvertito che la manifestazione non era autorizzata. La polizia iniziò la caccia senza preavviso.
Sul secondo punto, il fatto che si trattasse di manifestazione organizzata con corteo o di spontanea uscita in massa, la polizia adduce il fatto che gli operai erano muniti di cartelli di protesta fatti con lamiere (di cui si sarebbero serviti un poco come certe aste di bandiere dopo il ’68); adduce testi che ricevettero volantini fin dalla sera prima. Di fatto, che si trattasse di manifestazione organizzata e di un corteo non sembrano esservi dubbi: “sì, lo sciopero l’abbiamo fatto, c’era ‘na manifestazione e noi avevamo organizzata questa manifestazione” (Bruno Zenoni). Tuttavia la linea difensiva delle organizzazioni operaie è di negare tutto. Come dice Zenoni, “Comunque, al processo (…) i compagni che hanno interrogati, hanno avuto paura; quest’è ‘na verità insomma, se ciài gli atti del processo lo vedi da come hanno risposto (…). Non hanno preso una posizione netta come facevamo noiantri”. Si tratta, dopo tutto, di una scelta comprensibile, dato il clima politico, e che è infatti servita ad ottenere l’assoluzione. Tuttavia certe testimonianze – tipica appunto quella di Menichetti – lasciano effettivamente sconcertati per lo zelo di cui fanno mostra nel sostenere non solo di essere caduti dalle nuvole di fronte all’iniziativa incontrollata degli operai, ma soprattutto di essersi adoperati, insieme con tecnici e dirigenti aziendali, per sminuirne gli effetti:
Non appena giunto (in fabbrica) notai dei gruppi di operai nel piazzale. Dato il movimento insolito mi recai subito nell’ufficio della commissione interna per rendermi conto di quanto accadeva. Mi venne risposto che fin dal mattino gruppi di operai avevano manifestato l’intenzione di uscire dallo stabilimento per recarsi in città per protestare contro il patto Atlantico e che nessun membro della commissione stessa ne aveva preso l’iniziativa. (…)
La mia immediata preoccupazione fu quella che gli impianti vitali dello stabilimento non fossero stati abbandonati; e, infatti, coadiuvai personalmente in tali accertamenti l’ing. Bozzolino, Capo servizio delle acciaierie, per far ritornare determinati operai addetti ai forni al loro posto di lavoro.
Subito dopo, accompagnato da altro membro della commissione interna, – e precisamente dal compagno Bertini Ivo, andai al reparto gassogeni, e constatai che gli operai ivi addetti erano rimasti alloro posto – quindi mi recai dal sig. Santi, capo sezione gassogeni, – il quale mi assicurò che gli operai del suo reparto erano rimasti al loro posto di lavoro.
Ovviamente, Menichetti non è sul posto quando viene ucciso Trastulli: quando arriva alla porta della fabbrica (“dopo aver invitato gli operai che si trovavano nella portineria impiegati a rientrare”), la massa sta già rifluendo dai cancelli, respinta dalla sparatoria e dai lacrimogeni.
3. Il lavoro simbolico collettivo
Possiamo passare dunque all’esame delle fonti orali, partendo da quelle che, per essere rese da quadri delle organizzazioni operaie, si presentano con una veste di maggiore attendibilità e veridicità.
Ambrogio Filipponi “L’attacco, le azioni della celere, che Scelba andava organizzando, che godeva nel fatto di avere scoperto questa posizione di privilegio al disopra delle gippe del poliziotto il quale si trovava più alto delle teste dei lavoratori – grande scoperta scientifica di Scelba – e che quindi poteva così agevolmente battere sopra le teste dei lavoratori. Gli scontri a Terni erano frequenti e furenti. E ricordo anche per averci partecipato. Penso de non aver mancato mai a uno de questi scontri. […] Gli scontri poi a Terni ci furono anche co’ le sparatorie, il caso de Trastulli, di Luigi Trastulli, di altri feriti successivamente.”
Alessandro Portelli – “Quello di Trastulli quand’è che fu?”
Filipponi – “Fu il ’49, 17 marzo.”
Portelli – “Ecco, come fu che avvenne?”
Filipponi – “Ecco, se trattava, se manifestava contro il patto atlantico. Gli operai erano usciti dalla fabbrica per partecipare ad una manifestazione, un comizio che si doveva tenere […].
Portelli – “Non avevano cartelli, gli operai, per il comizio?”
Filipponi – “Ma io non ricordo neanche ch’avessero cartelli. Io mi trovavo a scuola in quel momento. E si seppe, arrivò la notizia che c’era stata la sparatoria, uscii immediatamente dalla scuola, il corteo ancora stava venendo giù alla spicciolata, le autolettighe andavano correndo avanti e dietro, e poi si seppe della morte di Trastulli e del ferimento di numerosi altri operai” (intervista citata).
Questa testimonianza si attiene scrupolosamente alla versione data in tribunale, della manifestazione spontanea (nega per esempio la presenza dei cartelli). Già un altro quadro di partito, Alvaro Valsenti, parla invece in termini di iniziativa organizzata, collegandola più alla campagna nazionale per la pace che alla situazione locale di tensione tra operai e polizia cui si riferisce Filipponi:
La manifestazione ebbe luogo perché quelli giorni se discuteva in parlamento l’adesione dell’Italia al patto atlantico. Allora in tutta Italia il movimento democratico per la pace, in particolare allora esistevano i comitati per la pace in ogni fabbrica e rione, a livello provinciale eccetera, organizzarono la manifestazione de protesta, in tutto il territorio nazionale. E anche a Terni in quell’occasione il comitato per la pace della fabbrica, di tutte le fabbriche di Terni eccetera, avevano indetto una giornata di protesta, con scioperi, con manifestazioni. Allora mentre gli operai uscivano dalla fabbrica dell’acciaieria e dall’altre fabbriche, l’acciaieria, all’altezza dei cancelli nei pressi dello stadio, quindi a due-trecento metri dall’uscita della fabbrica, uno schieramento de polizia tenteva di sbarrare a loro la strada. Fu uno scambio, un po’ de tafferugli, eccetera; poi a un certo momento cominciarono a spara’. Questa è la storia della morte de Trastulli, del ferimento de Crostella e de Dionisi; avvenne in questa occasione, questo fatto. Poi altri feriti allora, pure, perché ce fu anche un contatto, direi, fra poliziotti, operai, lanciavano anche loro, cercavano de difendersi eccetera”.
A mano a mano che ci si accosta alle testimonianze di militanti e operai di base, il racconto sembra prendere quota – sale di tono, acquista cadenze epiche, si arricchisce di materiali immaginari, diventa ancora, a trent’anni di distanza, gonfio di rabbia come se riguardasse fatti appena successi:
Rocco Bianchi. Perché, vedi, Scelba, il celerino, imbottì Terni de la celere, tutta la feccia, l’ex avanzi de galera, tutte le bande della Calabria, della Sicilia, l’ha arruolata lui. E imbottì Terni de celerini. Arrivarono coi camion, coi treni, tutte le ore e ogni ternano c’erano quattro scagnozzi alle calcagna. Celerini, spie questurini, eccetera eccetera. Terni era chiamata seconda Stalingrado. Questi scorrazzavano colle camionette, coi mitra, i manganelli, i mitra. […] Gli operai vedendo ‘ste camionette che scorrazzavano avanti e indietro in viale Brin, lì fuori li spiazzali della Terni facevano i caroselli, sa, l’operaio che vede sta gente pagata dagli operai, la polizia inventata da Scelba, s’inesasprisce. […] Pare che da qualche parte, i barretti che stava là, ha fatto vola’ qualche bottiglia, qualche operaio; ha tirato qualche bottiglia.
Alessandro Portelli. Dal chiosco?
Bianchi. Sì, il chiosco c’era già. Era diverso ma c’era. Qualche bottiglia sulle ruote de ‘na camionetta, bottiglia de birra, bottiglia de gazzosa, de coca cola, vuota. E questi, capisce, la carne ventuta, questa carne ventuta, col mitra su le mani, sparano e ammazzano Trastulli.
L’uso del presente storico, introdotto nell’ultima frase citata (e che abbiamo già notato nel resoconto di Pavolini sull’Unità), è un segno della tendenza verso l’epica. Si veda infatti quest’altra testimonianza, caratterizzata dall’uso di questa forma verbale e insieme da una scansione ritmica particolarmente solenne:
Ivano Sabatini. Ecco,
quando che si usciva dalla fabbrica
ci troviamo davanti
sei sette camionette della celere
e una di queste camionette andava contro gli operaji
con un senso bestiale.
Alcuni operaji
sono riusciti a scansarsi
dalla ‘rruenza de questa camionetta,
ma il compagno Luigi Trastulli
s’arrampicava verso un muro,
sopra un muro,
e una raffica di mitra
l’ha gelato.
E vediamo Luigi Trastulli
tralasciarsi la mano da su pel margine del muro
mentre un altro
forse più umano
della celere
j’abbassava il mitra.
Ma Luigi Trastulli
cadde per terra
e fu fulminato a morte.
L’episodio (del tutto immaginario) del celerino che abbassa il mitra ritorna, gonfiato a dimensioni quasi cinematografiche (e accompagnato dall’idea che Trastulli sia stato ucciso direttamente dalla camionetta) nel racconto di uno dei più grandi narratori popolari operai ternani, Dante Bartolini:
Di Trastulli ti parlo. Che siamo scesi tutti dalle fabbriche per protestare contro la guerra, no? contro il patto atlantico. E allora, allora c’era Scelba, e allora le camionette caro mio addosso agli operai, questo qui, vedi che ce sta la croce, l’hai visto, dove è stato ammazzato, proprio lì all’acciaieria, alla porta, poco più su. E lui appena sceso in quella maniera gli è andato addosso co’ le camionette, l’ha fatto addiventa’ ‘na pizza. J’è annato addosso.”
Alessandro Portelli – “Che fecero gli operai dopo ‘sto fatto?”
Bartolini – “Bè, gli operai, sciopero, ch’hanno fatto, non hanno potuto fare niente. Avemo fatto a botte pure, sai, noi in piazza. Co’ la polizia. A mattonate. A un milite, che stava lì, un giovanotto coi baffi, venticinqu’anni – Tarzan glie dicevano. Se t’acchiappa ‘st’omo sai quanto ti butta lontano? Venti metri. Zompò sopra la camionetta, ognuno che acchiappava de quelli de la celere li buttava in mezzo alla piazza. Poi uno cchiappa lu moschetto, glie dette ‘na botta sulla capoccia, j’acchiappò l’ermetto, fece un brillo – fece così, brrr – e poi acchiappa la camionetta, la spigne e la buttò de là.”
Portelli – “Quelle sì che erano agitazioni, eh?”
Bartolini – “Agitazioni, allora? Sì matto? Il popolo quando vede in quella maniera, tutti addosso, no. Allora non so’ potuti scappa’ manco loro, l’esercito. Avevano pigliato l’esercito, l’avevano fatti punta’ li moschetti; quando gli disse “fòco”, buttarono li fucili per terra, no. Fu una bella dimostrazione quella. “Fòco!” fece. Brrrm, li fucili. A terra.
Il racconto di Dante Bartolini contiene, nella pienezza della loro funzione simbolica, i tre motivi leggendari più significativi che ricorrono nei racconti orali: il rifiuto di sparare, il muro, la camionetta. Il motivo del rifiuto di sparare, presente già nella testimonianza di Sabatini, è ripreso persino nel discorso pronunciato in parlamento da Tito Oro Nobili, secondo cui, nel momento in cui un celerino si preparava a sparare da un nido di mitragliatrici posto a una finestra della caserma all’inizio di viale Brin, la folla terrorizzata vide che un suo collega lo afferrava e lo fermava. D’altra parte, il racconto di Bartolini condensa altri due episodi che la memoria operaia di Terni colloca nel 1949 e nel 1950. Secondo Raul Crostella (uno dei feriti nell’episodio di Trastulli), un reparto dell’esercito chiamato in appoggio alla celere durante una manifestazione operaia bloccava la strada di fronte a Pazzaglia. Quando il comandante della celere ordina di fare fuoco, secondo questo racconto, l’ufficiale dell’esercito dice che erano lì solo per tenere l’ordine – “e schierò i soldati facendo fronte alla celere. Su tre file. E lì fu una scena incredibile, le donne che abbracciavano i soldati, ‘viva l’esercito…’ E la polizia se ne tornò malinconicamente in caserma.”
La memoria operaia istituisce dunque una specie di graduatoria tra le forze repressive dello Stato: i peggiori sarebbero i carabinieri, seguiti dalla polizia, mentre l’esercito (composto di soldati di leva – è bene ricordare che molti narratori operai ne hanno fatto parte, spesso anche in guerra) è il meno disposto ad aggredire gli operai. C’è dunque nel racconto immaginario di Bartolini un tentativo implicito di contrapporre alla celere scelbiana una “parte sana”, popolare, delle istituzioni – nei cui confronti si può infatti esercitare un’egemonia operaia che le sottrae al controllo degli ufficiali.
La contrapposizione celere-esercito è accentuata dal ruolo attribuito in tutte le testimonianze alle camionette: queste, infatti, sono il simbolo del braccio repressivo dello stato democristiano. Di testimonianza in testimonianza, vediamo il loro ruolo gonfiarsi: nell’articolo dell’Unità c’è già un’imprecisione che va in questo senso, quando la distorsione riportata dall’operaio Scatolini investito dalla manovra della jeep viene fatta diventare una frattura. A mano a mano, le jeep assumono un ruolo sempre più centrale, spostandosi da Scatolini a Trastulli: questi viene colpito, secondo alcuni, mentre cerca di sfuggire all’investimento; e nel racconto di Bartolini viene schiacciato dalla camionetta stessa. In questo modo, si sottolinea implicitamente la politicità dell’omicidio, rendendo molto più diretto il tramite tra la vittima e il simbolo del potere DC.
D’altra parte, nel suo intervento in parlamento, Tito Oro Nobili per due volte descrive l’azione delle jeep come “quasi anglo sassone,” alludendo probabilmente al fatto che le jeep erano state introdotte in Italia dagli Alleati ed erano quindi un simbolo del dominio americano sancito con il Patto Atlantico, a cui i socialisti erano allora contrari. Anche rispetto alla celere, infatti, Nobili si chiedeva se era davvero un’istituzione italiana, o non piuttosto qualcosa che era stato “organizzato e imposto dai vincitori”.
Infine, il muro è presente con un ruolo importante in numerosi racconti. Per esempio:
Amerigo Matteucci.… ‘sto ragazzo, ventun anno, è stato falciato da una raffica de mitra che poi ha falciato tutto il muro.
Trento Pitotti. Se vedi là lo muro, tutti e venti li proiettili.
Matteucci … sta raffica de mitra, che poi è stata una fortuna che s’è incontrato a salta’ lui solo. Lui saltava dal muro, perché non te facevano scappa’ da lo cancello, i cancelli erano bloccati dalla polizia.
Pitotti. Sai quel muro, in quella maniera; lui scavalcava…
L’immagine di Luigi Trastulli ucciso, dalla camionetta o dal mitra, addossato al muro è radicata in un’iconografia di martirio, di crocifissione che ha probabilmente origini religiose. In questo senso, anche la figura del celerino che abbassa l’arma, è una variante del personaggio, presente nei racconti popolari della Passione, del centurione che offre da bere a Gesù sulla croce.
Probabilmente, proprio una volontà di reagire a questa costruzione mitologica cominciata fin da subito dopo i fatti spiega l’esistenza di versioni che tendono a smitizzare l’avvenimento attraverso un “ridimensinamento” politico della vittima. Ne sono un esempio queste due, riferitemi a titolo di cronaca da Lucilla Galeazzi, che sono interessanti anche perché vi torna, con significato rovesciato, il motivo del muro:
Dunque, queste due versioni, io la prima credo che sia più attendibile perché me l’ha raccontata uno che l’ha vissuta, che è mio zio. La seconda non lo so assolutamente s’è attendibile, chi gliel’ha raccontata. La prima versione l’ha raccontata mio zio, e dicevano che loro uscivano dalla fabbrica, perché dicevano d’anda’ per questa manifestazione della Nato. Però ce stava anche gente che non è che usciva p’anna’ in corteo; che usciva p’annassese a casa sua. A un certo punto arriva la polizia per contrasta’ questo tentativo di manifestazione e incominciano a fa’ i caroselli con i gipponi. E incominciano a spara’ sulla gente. E Trastulli che voleva riparasse, voleva scappa’ via perché se sentiva preso de mira, tentò d’arrampicasse sul muro pe’ salta’ sul cornicione dell’acciaieria e lo freddarono lì mentre se stava arrampicando. L’altra versione, che me l’ha data un mio insegnante di filosofia quando io facevo il quarto magistrale, quindi nel 1968. E lui dice che questo Trastulli non era affatto un militante comunista, ma che addirittura era un democristiano o per lo meno un simpatizzante, comunque era uno senza tessera comunista in tasca, sicuramente, che stava saltando giù dal muro dell’acciaieria perché non voleva anda’ alla manifestazione, quindi per evitare, non lo so picchettaggi, cose del genere. Salta dal muro e lo uccidono. E immediatamente di lui hanno fatto il martire comunista, anche se secondo lui questo non era comunista affatto.”
Anche Giuseppe Laureti dice che forse Trastulli era solo uno che “seguiva la flotta.” Tuttavia non c’è dubbio che fosse iscritto al partito comunista; sua moglie apparve insieme a Palmiro Togliatti in almeno un’occasione dopo la sua morte.
Tuttavia, Tito Oro Nobili, socialista, ribadì nel suo discorso in senato che Trastulli era dedito solo alla famiglia e al lavoro, e che non poteva sopportare di stare lontano da casa; pertanto, era uno degli operai che avevano espresso l’intenzione di andare a casa e non partecipare alla manifestazione. In questo modo, Tito Oro Nobili da un lato ribadisce l”innocenza” della vittima, e dall’altro cerca di togliere ai comunisti il loro martire simbolico. Forse il professore di Lucilla Galeazzi, in epoca di dissacrazioni come il ’68, aveva intenzioni analoghe. Resta però il fatto che almeno due dei de-mitizzatori – lo zio di Lucilla Galeazzi e Menotti Zocchi – erano militanti comunisti.
4. Spostamento e condensazione
Il fenomeno più notevole nella memoria collettiva dell’uccisione di Trastulli non riguarda tuttavia tanto la dinamica dei fatti, quanto lo spostamento cronologico e contestuale dell’evento. Una parte notevole dei narratori lo identifica con i licenziamenti del 1952-53, ai quali seguirono diversi giorni di scontri in piazza e barricate, con sparatorie (senza vittime e feriti gravi) della polizia. E un “errore” talmente diffuso che ha finito per infiltrarsi anche in un libro scrupoloso e documentato come quello di Federico Butera sulle acciaierie di Terni:
Tra il 1946 e il 1953 il solo settore siderurgico diminuisce di 3500 lavoratori; 2000 sono i licenziati nel ’52-53.
La risposta si concretizza in una forte mobilitazione con scontri politici e di piazza, in cui viene ucciso un operaio.
La fonte di questo errore sta, evidentemente, nel fatto che questo libro utilizza informazioni fornite dagli operai, che tendono in maggioranza a fondere i due episodi principali della storia di classe di Terni nel dopoguerra. Il più bell’esempio di questa sintesi, ed anche un ragguardevole esemplare di narrativa operaia, è il racconto di Amerigo Matteucci:
Bè, il fatto de Trastulli. Io mi trovavo a Terni per motivi politici, sempre infilato in mezzo. La questione de Terni era il famoso licenziamento. Anche lì se parlò de licenziare per ristrutturare la fabbrica. E intanto se cominciò a fa’ capi’ alla gente che se licenziavano 200, poi 2000. E mò gli operai se incominciarono a allarma’. Per quanto in quel momento molta lotta politica se faceva per essere attaccati al partito, perché eravamo usciti da poco dalla guerra. C’era quella rivendicazione tra le parti, insomma, via; c’era quello scontro vitale, proprio. E poi tu sentevi che molti dicevano che era giusto che avessero licenziato: quella gente stava dalla parte dello padrone. Gente messa dentro, in fabbrica; inquinati dentro pe’ crea’ ‘st’ambiente: “ma tu non te devi preoccupare se te licenziano, sarai riassorbito tra ‘n po’ de tempo perché tra ‘n po’ de tempo la fabbrica s’allarga…”. Ma sai, l’operai de Terni politicamente ciànno avuta ‘na coscienza sempre, la larga maggioranza; e se so allarmati, tanto è vero che incominciarono dei grandi scioperi. […] Però in quel tempo la polizia era veramente attaccata; era la serva del padrone, era alle dipendenze del padrone. Penso che se il padrone della fabbrica avesse telefonato direttamente a un nucleo di poliziotti anche senza avverti’ il questore, quelli sarebbero venuti lo stesso.
Praticamente, quando s’è parlato di questo sciopero, di questo grande sciopero, sciopero generale, te ricordi, no? E lì Terni ha vissuto ore drammatiche. I commercianti hanno abbassato le saracinesche anche senza esse chiamati alla lotta: perché non è che gli operai erano corsi a di’ al commerciante “tu chiudi”, no. Ma loro facevano ‘sto ragionamento: “licenziati duemila e settecento operai: e l’economia nostra do’ va? E noi che magnamo?” Insomma è stato questo risentimento e hanno bloccato tutto, hanno bloccato tutto. Quando questi operai so’ usciti dalla fabbrica, so’ usciti a scaglioni, perché fòri c’erano le camionette della polizia. Questo il fatto, non è come oggi. Ma viale Brin, viale Brin, ce l’hai presente: da porta Valnerina era un nugolo di camionette, li poliziotti co’ li manganelli su le mani, che tu annavi pe’ conto tuo, su pe’ lu marciapiedi, e quello arrivava là e te spaccava magari ‘na recchia. E te diceva, ch’annavi girando? Però so’ usciti come escono gli operai, esasperati dalla paura del posto de lavoro, ma co’ na certa disciplina, pensando di anna’ a manifestare: perché l’operaio era convinto di andare alla manifestazione col discorso che si fa in piazza, per fa’ vedere quello che stava succedendo, per rende l’opinione pubblica de quello che stava succedendo. Invece poi le cose so’ state diverse. E’ uscito un gruppo, so’ usciti du’ gruppi, usciti tre gruppi, a un certo momento c’è stata la sparatoria. E successa la sparatoria mentre che scappava ‘sto disgraziato, ‘sto ragazzo, ventun anno, è stato falciato da una raffica de mitra che poi ha falciato tutto il muro… che poi è stato una fortuna che s’è incontrato a salta’ lui solo, perché non te facevano scappa’ da lo cancello, i cancelli erano bloccati dalla polizia… E questi hanno sparato. Fortunatamente, s’è trovato questo solo, sennò poteva ammazza’ venti, trenta persone… No’ lo so quello che sarebbe successo. Però è stata un arma a doppio taglio, perché s’è visto il sangue, il sangue. E quando pe’ Terni uomini come noi, come altra gente, hanno gridato “hann’ammazzato gli operai”, quand’hanno sentiti gli spari – un po’ vivo ancora l’eco degli spari della guerra, perché Terni martoriata dai bombardamenti com’era stata – la gente non ha capito più gnente. Da le finestre, chi glie lanciava – ma le donne addirittura – piatti, padelle quando passavano le camionette de la polizia. Ma dico, era, sembrava il giorno del giudizio. Quando abbiamo sfilato per viale Brin per anda’ verso la piazza, era cose dell’altro mondo: ma addirittura la gente per corso Tacito, la via nuova de corso Tacito che porta in piazza, centinaia de persone su li tetti, pronti già a tira’ le tegole alla polizia… Ma era una cosa tremenda, una cosa tremenda: pompe d’acqua, legni pe’ fa’ le barricate perché dice che da Roma dovevano affluì altri rinforzi, cantieri votati de legni messi lì pe’ non fa’ passa’… Insomma, e stato un momento de… E è annata avanti questa lotta, è riuscita. Ma, è riuscita al punto d’anna’ alla mediazione. Ecco, quest’è il fatto. Perché si capisce, pe’ riusci’ quella lotta doveva scoppia’ la rivoluzione.
La collocazione della morte di Trastulli nel contesto dei licenziamenti è ripetuta da molti altri narratori: “fu per i duemila, quando ha caricato la celere, hanno ammazzato uno” (Laureti); “Trastulli – fu il giorno dello sciopero, i licenziamenti” (Zocchi). Naturalmente, di solito ho fatto presente agli intervistati che stavano sbagliando; ma ne hanno preso atto senza scomporsi minimamente, continuando il racconto come se niente fosse:
Rocco Bianchi. Ci fu il licenziamento dei duemila, duemila e cinque. L’operai dovevano esse licenziati.
Valentino Paparelli. Ma il fatto di Trastulli non fu nel ’49?”
Rocco Bianchi. Mò il fatto, le cifre non me l’aricordo, ma ci fu due gruppi di licenziamenti, prima ottocento e poi duemila e cinque, duemila e sette.
Alessandro Portelli. Lui dice che Trastulli fu ucciso durante gli scioperi della Nato, non per i licenziamenti.
Rocco Bianchi.”Non so’ sicuro, perciò non posso dire. So che c’erano degli scioperi, gli operai stavano lì, stavo in mezzo a loro.
Portelli. Quando Trastulli fu ucciso, per che cosa era la manifestazione?
Antonina Colombi. Era che licenziavano all’acciaieria. Venivano giù da viale Brin, tutti quanti; erano usciti l’operai in sciopero perché licenziavano questi seicento, erano i primi, so’ seicento me sembra. Poi duemila n’hanno licenziati. Io credo che fu la volta dei seicento. Dopo un po’ de tempo, qualche tempo per ferma’ le acque, dopo licenziarono quest’altri, ’52-53. E allora appunto fu prima, quando licenziò quei seicento; già tre anni prima licenziò quei seicento. Era sempre quell’epoca, ’50-53.
Portelli. Credo che sia andata diversamente; la storia di Trastulli fu nel ’49, per la pace.
Colombi. Eh. Uscivano tutti dall’acciaieria, perché sul viale Brin fu, quest’affare qui. Allora spararono alla folla. Ma io faccio una dimostrazione per la pace, m’ammazzi? Com’è stato adesso pure, che hanno ammazzato un sacco de gente, ho letto l’altro giorno, che facevano questa manifestazione de pacifisti.
Tutti i narratori annettono, come abbiamo visto, una grande importanza all’episodio; eppure venire a sapere che se lo ricordano in modo inesatto li lascia sostanzialmente indifferenti. C’è un solo modo di spiegarselo: il significato dell’evento ha relativamente poco a che fare con le esatte circostanze in cui si è verificato. Che sia stato ucciso per la pace o per i licenziamenti, Trastulli è comunque vittima di una violenza antioperaia, di classe; la sua morte è il culmine di anni di violenza costante e diffusa da parte dello stato e dei padroni. Anche se la storiografia percepisce questo periodo come una sequenza di eventi diversi, gli operai lo ricordano (e lo hanno vissuto) come una lotta sola, senza soluzione di continuità.
Inoltre, questo ruolo simbolico, di martire, impone circostanze adeguate, una causa adeguata (sia nel senso di “motivo” che di “causa efficiente”). Una morte importante come quella di Trastulli non può essere un fatto accidentale avvenuto in tafferugli di poco conto, in una manifestazione politica, tutto sommato, di routine. Esso deve essere preceduto e seguito da fatti di pari importanza. Un primo passo in questa direzione sta nell’insistenza sul fatto che si è trattato di un omicidio intenzionale: secondo l’Unità, la polizia spara raffiche di mitra ad altezza d’uomo; secondo Bruno Zenoni “l’hanno fatto proprio metodicamente, non è avvenuto per caso”. Ora, i licenziamenti e le barricate costituiscono appunto il contesto “adeguato” alla drammaticità dell’evento; al tempo stesso, complementarmente, collocare in quel contesto l’uccisione di Trastulli conferisce alle lotte del 1953 la drammaticità necessaria affinché il racconto sia percepito come completo e soddisfacente.
Il concetto di causazione adeguata è pertinente anche in un altro senso. La battaglia contro l’entrata dell’Italia nella Nato, e poi per l’uscita dal Patto atlantico, appartiene ad un’altra epoca della storia del partito comunista. Attualmente, dai vertici del partito giungono indicazioni che definiscono la Nato uno “strumento di pace”, per cui diventa quasi insensato farsi ammazzare per opporvisi. Tanto più che se è vero, come è stato autorevolmente affermato, che la Nato costituisce una garanzia per lo sviluppo del socialismo in Italia, vuol dire che in quel momento chi difendeva la causa della pace e del socialismo non erano gli operai ma i celerini. Sia pure in modo marginale, anche il desiderio di evitare questa contraddizione può avere incoraggiato lo spostamento dell’episodio ad un contesto come la lotta per la difesa del posto di lavoro che (operai “esuberanti” a parte) può essere tuttora considerato una “causa” accettabile.
5. Un conto in sospeso
Poco dopo i fatti, un operaio delle officine Bosco, Sante Carboni, compose una canzone sull’assassinio di Trastulli. In una strofa, c’è l’indicazione di un altro, più profondo e nascosto, motivo dello spostamento che l’evento subisce nella memoria collettiva:
O sposa giovinetta
a te e al tuo pargoletto
giuriam che l’assassino
non morirà sul letto.
L’uccisione di Trastulli apre un conto che resta in sospeso per quattro anni. La classe operaia ternana veniva dall’esperienza della guerra partigiana; appena un anno prima aveva risposto in modo militante all’attentato a Togliatti. Non tirarsi indietro davanti alle aggressioni della polizia costituisce un fattore portante dell’identità collettiva: “Perché noi dopo ave’ fatte certe lotte, semo scesi in piazza, insomma lotte che ciànno avuta ‘na certa consistenza” (Antonio Antonelli) “Avemo fatto a botte pure, sai, noi in piazza” (Dante Bartolini); “Penso de non aver mancato mai a uno de questi scontri” (Ambrogio Filipponi). La correlazione, la simmetria tra offesa della polizia e risposta popolare costituisce un codice collettivo di comportamento che ricorre in forma analoga in molte testimonianze: “Il popolo quando vede in quella maniera, tutti addosso” (Bartolini); “L’operaio, che vede ‘sta gente… s’inesasprisce” (Rocco Bianchi) ; “Quando s’è visto il sangue, e quando pe’ Terni […] ha gridato ‘hann’ammazzato gli operai’ (…) la gente non ha capito più gnente” (Amerigo Matteucci).
L’offesa subita pone dunque subito il problema della rivalsa. Ne troviamo eco anche negli atti del processo, dove un teste d’accusa, Francesco Ciuffoletti, afferma:
“Mi è stato riferito che poco dopo i noti incidenti il comunista Menichetti – segretario delle commissioni interne delle acciaierie – ha arringato gli operai facendo un discorso molto violento e avente per argomento odio e proposito di vendetta contro la Polizia, contro il Governo e contro i partiti che lo affiancavano. Della massa intervenuta pochi hanno applaudito il suo dire.”
Naturalmente, Menichetti nega:
“Escludo di aver incitato alla vendetta gli operai. Anzi rivolsi loro l’invito di uscire alla spicciolata per rientrare alle proprie case con l’augurio che la Polizia non li avesse disturbati.”
Di tono opposto è invece l’azione che Bruno Zenoni ricorda di avere svolto subito dopo il fatto, con l’evidente intenzione di fare in modo che la cosa non finisse lì: “C’erano questi compagni esponenti del sindacato, del partito In realtà, siccome doveva avveni’ una riunione al Politeama, dovevano uscì’ l’operai per una riunione al Politeama, io ho insistito perché fossero venuti giù. Semo passati dentro l’acciaieria, saltato il muro dall’altra parte, passato il fiume verso Campomicciolo. Specialmente quelli de Marmore, de Campomicciolo, m’hanno seguito e l’hanno fatta. Poi quando semo arrivati al Politeama, il Politeama era sbarrato, erano in pochi, e intanto i dirigenti del partito, i sindacati, stavano a discute in prefettura…”.
La volontà operaia di dare un seguito all’episodio, si manifesta anche in un’altra azione, ricordata da Remo Righetti, che fu occasione di un conflitto tra amministrazione comunale di sinistra e prefetto: “Il giorno dopo gli operai affissero sopra la targa della via, viale Benedetto Brin, misero una targa in carta: viale Luigi Trastulli. Subito lo stesso giorno o la mattina dopo, non me ne ricordo con esattezza, il prefetto manda un fonogramma al comune di Terni con l’ingiunzione di mandare i vigili urbani a togliere quella targa che gli operai hanno messo là sopra… Io come assessore alla polizia municipale sostituivo il sindaco Michiorri, che era assente da Terni… “Gli dici al prefetto che a viale Brin hanno sparato, ha sparato la polizia. La polizia, se gli dà fastidio quel manifesto, lo leva… Ce la mandi lui la polizia, che la polizia l’éva fatta spara’ lui”.”
La targa stradale di carta esprime simbolicamente il bisogno operaio di tenere aperta la questione Trastulli, se non altro garantendone la memoria. Perciò, che il discorso di Menichetti sulla vendetta fosse stato pronunciato o no, il testo stesso della canzone dimostra che all’ordine del giorno c’era la necessità di impedire che il delitto andasse impunito. D’altra parte, le organizzazioni operaie misero in piedi una inchiesta per accertare chi della celere avesse sparato a Trastulli, ma senza ottenere risultati concreti: “Si dice appunto, il nome di uno che comandava la squadra; ma non riesci mai a…” (Zenoni). Ma anche se si fosse individuato e arrestato il colpevole, quello che la dignità ferita degli operai ternani reclamava era qualcosa di diverso, di più immediato e diretto.
Alessandro Portelli. Dopo che fu colpito che successe?
Calfiero Canali. Niente! Non è successo niente. Non è successo niente perché – io no lo so perché. Perché, magari, il popolo, gli operai, sarebbero stati anche propensi a fa’ qualche cosa, perché eravamo frenati tutti quanti da – dai dirigenti perché – come quando fu lo fatto de Togliatti; ch’attentarono a Togliatti. Sembrava che, se era pe’ la base, scoppiava la rivoluzione subito; invece, non se fece gnente perché – se capisce, a quell’epoca, che facevi? Non se poteva fa’ gnente, perché ce gonfiavano come zampogne (…) Ma tu co’ quell’acido che ciavevi in corpo, co’ quell’odio!
La rabbia con cui gli operai, a trent’anni di distanza, ripetono per tre volte che non fecero “Niente!” dopo la morte di Trastulli è simmetrica alla soddisfazione con cui le fonti padronali ribadiscono la stessa osservazione: “la calma veniva immediatamente ristabilita e non è stata turbata più”, scriveva il magistrato; e il Messaggero faceva eco: “In serata la calma ritornava in città.”
Era una calma imposta, prodotta dai rapporti di forza, come fa giystamente notare Canali, e come conferma Filipponi:
Alessandro Portelli. Che risposta ci fu da parte degli operai?
Ambrogio Filippini. Da parte degli operai, mi ricordo che fu una risposta di procedere a vie di fatto. La massa stava su questo terreno. E i funerali di Trastulli, sebbene ci fosse lo spavento, il terrore perché si vedevano lì sporgere dal palazzo del governo dalle torrette le mitragliatrici, e il funerale passava per piazza Tacito, quindi sotto… pioveva quel giorno, il funerale fu una massa strabocchevole di cittadini che ci parteciparono. Quindi c’era una reazione da parte delle masse; una reazione anche intelligente, ma abbastanza intensa.
Portelli. Cioè, c’era il desiderio di passare a vie di fatto; però non ci passò.
Filippini. No, no, no; non si passò. Dalla massa, qua e là, la rabbia era tanta, non ci sarebbe voluto niente per passare alle vie di fatto; ma ne sarebbero conseguiti dei disastri ovviamente, non si stava in un clima, un terreno favorevole, rivoluzionario, mi sembra.
Tutte le testimonianze confermano l’irrequietezza, il fermento, il disorientamento in città: “so’ arrivato davanti alla porta dell’acciaieria dopo il fatto], c’erano tutti quanti gli operai, ormai un po’ abbacchiati, sbandati” (Zenoni); “Gente che in ospedale, in continuazione, in corteo a vede’ i feriti, gruppi de persone che parlavano pe’ la strada diventarono un corteo, ‘n te ricordi? All’ospedale, dappertutto, gente aggruppata” (Iole Peri). Tra questa gente “aggruppata”, “abbacchiata”, “sbandata” correva un solo discorso: “Io ricordo la gente assiepata attorno al palazzo Mazzancolli dove risiedeva la federazione comunista; la gente, il popolo era entrata dentro il palazzo Mazzancolli, il cortile pieno, quello spazio, quella piazza antistante, la piazzetta piena, via Cavour piena, e gente che si fa, che non si fa, non se pò tollerare questo, eccetera.” (Filipponi).
Non si può tollerare, ma i rapporti di forza (“a quell’epoca”, “in quel clima”) impongono di tollerarlo. È un rospo duro da ingoiare per chiunque, ma ancora più amaro per chi ha una tradizione di combattività attorno alla quale costruisce tutta la stima di sé. L’uccisione impunità e senza risposta di un compagno non è solo un’intollerabile violenza fisica: è anche un’umiliazione, una perdita di faccia. Di colpo, a meno di quattro anni dalla vittoria partigiana, gli operai scoprono che tra il desiderio di azione diretta della base e il realismo dei dirigenti stanno i nuovi rapporti di forza. Nel giro di pochissimi anni dalla liberazione sono stati sconfitti, privati di ogni potere, e adesso anche umiliati. Racconta Zenoni: “E questo prefetto però, l’episodio di Trastulli, si vantava, s’era vantato qualche giorno prima, aveva detto che l’operaji comunisti ternani li metteva a posto lui; li stendeva qualcuno sulla strada e vedrai che poi avrebbero smesso de fa’ le manifestazioni.”
La memoria collettiva assolve il compito di sanare questa ferita alla dignità della classe operaia ternana in due modi: alcuni narratori modificano la sequenza dei fatti in modo da far venire fuori una reazione operaia immediata e sul posto; altri, e sono la maggioranza, spostano tutto quanto ad un momento successivo, in cui la reazione effettivamente ci fu. La prima strategia potrebbe anche rispondere ad un’esigenza difensiva, di mostrare che la sparatoria avvenne a freddo e gli operai non avevano fatto niente fino a dopo gli spari; ma il modo in cui i narratori che la adottano gonfiano poi la dimensione dei tafferugli contraddice un’interpretazione del genere. Si pensi al già citato racconto di Dante Bartolini; oppure a quello di Trento Pitotti, così attento a sottolineare il “dopo”: “Le camionette, dico, de qua la strada furono portate fino – lo sai do’ sta lu campo sportivo vecchio? Pensa, tutte ribbartate sotto sopra, l’émo ribbartate doppo ch’è successo lo macello, doppo che la polizia éva sparato, éva ammazzato questo Trastulli. (…) Dopo, le camionette, sottosopra, rigirate, tu capisci lì, successe un fracasso.”
La strategia prevalente preferisce agire invece che sulla dinamica dell’evento, sulla sua collocazione, e spostarlo in un contesto nel quale la reazione operaia alla violenza dei licenziamenti fu immediata e durissima. Sebbene materialmente sconfitti, gli operai ternani ricordano ancora i fatti del ’53 con orgoglio. Le barricate che sorsero in quei giorni vanno viste allora non solo come una risposta ai licenziamenti, ma anche a tutto quello che era successo prima: sono un modo per chiudere i conti (più con se stessi che con i padroni) anche per l’impunita uccisione di Luigi Trastulli e recuperare, se non il posto di lavoro, almeno il senso della propria dignità di classe.
Il modo in cui la memoria ha agito per sanare questa ferita emerge dai racconti degli operai della generazione successiva. Carlo Martinelli ricorda che il nome di Trastulli ricorreva nelle prime conversazioni politiche che ricorda di aver sentito in famiglia quando aveva sui dodici anni – cioè, visto che è del 1940, nel 1952-53. Mario Vella, che entrò in acciaieria nel 1954 a 17 anni, ricorda che all’uscita dal turno gli operai più anziani gli indicavano la corona di fiori sul luogo della morte di Trastulli: “E’ morto anche per te; se tu stai qui forse lo devi, lo devi a lui.” Trastulli, dunque, era attuale quattro o cinque anni dopo la morte, e il suo nome e la sua storia facevano parte del processo di iniziazione delle nuove generazioni in fabbrica. Gli operai anziani, dice Vella, parlavano degli operai “che venivano ammazzati nelle strade dalla polizia”: non “che erano stati ammazzati,” ma che venivano, come se stesse succedendo in quel momento. La corona, la lapide (che forse contribuiscono a rinforzare la figura del muro come luogo della sua morte) e gli articoli frequenti sulle pagine locali dell’Unità contribuiscono a far sì che, anche se Trastulli non morì nel 1953 lottando contro i licenziamenti, gli operai ternani lo portassero in mente con sé quando fecero le barricate.
6. La scomposizione del tempo
Lo spostamento cronologico dell’uccisione di Trastulli dipende, infine, da alcuni meccanismi generali di funzionamento della memoria, che sarebbe troppo complesso esporre qui in modo più che schematico. Semplificando, possiamo dire che per collocare un evento nel tempo occorre che il “continuo” temporale sia trasformato in un “discreto”, suddiviso in unità distinte. Il livello più elementare è, evidentemente, quello della scomposizione orizzontale, cioè la periodizzazione, che consiste nell’individuare blocchi temporali omogenei (quasi sempre contrassegnati da un evento chiave), rispetto ai quali gli avvenimenti si dispongono in un “prima” o un “dopo” – “prima della guerra”, “dopo i licenziamenti”, “quand’ero militare”. Esiste però anche una scomposizione di tipo verticale, che non riguarda tanto la sequenza del tempo quanto la contemporaneità – e scompone l’unità di tempo in modo analogo a quello in cui si scompone un fonema in tratti distintivi o una nota in armonici, tutti emessi contemporaneamente e inseparabili dall’insieme, ma logicamente distinti. Questa suddivisione verticale si organizza attorno a tre modalità di rapporto con gli eventi:
a) la modalità “etico-politica” (l’attività dei gruppi dirigenti e delle istituzioni; avvenimenti la cui portata trascende quella della comunità);
b) la modalità “collettiva” (fatti naturali catastrofi – o politici – bombardamenti, scioperi – che coinvolgono il gruppo nel suo insieme. E anche, naturalmente, la partecipazione collettiva, di base e di massa, ai fatti “etico-politici”: per esempio, la resistenza operaia al fascismo a Terni);
c) la modalità “personale” (la sfera individuale e familiare – lavoro, matrimoni, nascite, morti, servizio militare – e il coinvolgimento personale nei fatti che hanno rilevanza “etico-politica” o “collettiva” – il licenziamento, l’arresto per motivi politici).
Queste tre modalità identificano altrettante sequenze di eventi che si sovrappongono, si inseguono, si intrecciano nella memoria individuale e collettiva; e che si riversano poi nella scomposizione orizzontale in quanto ciascuna sequenza, pur scorrendo contemporaneamente alle altre, può essere periodizzata da eventi che cadono in momenti diversi (per converso, uno stesso evento – per esempio, la guerra – può riguardare tutte e tre le modalità ed essere uno spartiacque complessivo per la vita di una persona). Datare un evento significa quindi non solo riferirlo ad una periodizzazione orizzontale, ma scegliere in quale modalità collocarlo: il tempo diventa una specie di reticolato, in cui le modalità e la periodizzazione influiscono l’una sull’altra.
Ora, l’uccisione di Luigi Trastulli è un evento problematico da questo punto di vista. Esso sfugge alla sfera etico-politica in quanto i gruppi dirigenti e le istituzioni come tali vi appaiono solo di riflesso, e comunque non ha influito in nessun modo sui gruppi dirigenti e sulle élites, non ha provocato cadute di maggioranze, cambi di segreterie, risultati elettorali. L’unico effetto istituzionale è stata qualche interrogazione parlamentare. Nelle storie “etico-politiche” del PCI umbro se ne parla poco o niente. Sfugge anche alla modalità personale (salvo, ovviamente, per i familiari della vittima e per i feriti): non ha segnato cambiamenti significativi nella vita di nessuno, non ha lasciato altre tracce che nella memoria. Sfugge, in maniera più sottile, anche alla modalità collettiva. È evidente che la coscienza collettiva gli attribuisce una grande importanza; tuttavia, da un lato non ha l’effetto periodizzante che hanno, per esempio, i licenziamenti; dall’altro, sul piano collettivo il suo unico significato possibile è proprio quello sgradevole di impotenza e di sconfitta che la memoria collettiva tende a rovesciare. A conferma di questa difficoltà di collocazione sta il fatto che in nessun caso l’uccisione di Trastulli viene usata come riferimento per la datazione di altri eventi, mentre – come vedremo – avviene spesso il contrario.
Ma questo fatto che sembra sfuggire all’organizzazione formale della memoria occupa in essa uno spazio ingombrante: la memoria collettiva se lo trova fra le mani e non sa che farne. Per renderne conto, si ricorre perciò ad una complessa strategia di spostamenti orizzontali e verticali.
a) La strategia dello spostamento verticale tende ad attrarre l’evento verso l’alto (la modalità etico-politica) o verso il basso (la modalità personale), allontanandolo dalla modalità collettiva, dove assumerebbe un significato inquietante. Lo spostamento verso la modalità etico-politica è operato, in modo sostanzialmente corretto, in una canzone di Dante Bartolini, che fu scritta dopo il 1952 e i licenziamenti e nella quale l’uccisione di Trastulli è ricollegata alla politica generale di repressione antioperaia della DC a livello nazionale (si ricorderà come Bartolini faccia la stessa operazione, sul piano simbolico, facendo cadere Trastulli sotto le ruote di una camionetta):
Hanno ammazzato Luigi Trastulli
lavoratore giovane e forte
nel fior degli anni ha trovato la morte
ma non è morto il grande ideal.
Maria Margotti e Giuditta Levato
furono uccise dai stessi assassini
i seguaci del fu Mussolini
di chi lavora non hanno pietà.
Altri narratori (soprattutto quadri) sottolineano il ruolo svolto in quei momenti dal partito comunista e dai suoi dirigenti: “E mi ricordo […] l’intervento proprio degli esponenti politici della sinistra con discorsi, con comizi volanti per frenare gli animi, per cercare di contenere e controllare la situazione, che stava assumendo invece pericolo di scontro.” (Filipponi). Anche l’inchiesta che tentò di identificare il celerino che aveva sparato rientra in questa modalità:
Portelli. Dopo il fatto di Trastulli, dicevi che i compagni immediatamente sapevano chi era stato?
Rocco Bianchi. Vedi com’è, lì allora c’era gente con i coglioni. [Alfredo] Filipponi ch’io ben conoscevo e ci diceva moltissime cose. C’era un altro coi coglioni d’acciaio che vive ancora, Gildo Bartolucci…
Portelli. Chi le portò avanti ‘ste indagini?
Rocco Bianchi. Non mi ricordo bene, lì fu l’avvocato Guidi, fu la federazione del partito comunista, Filipponi…
Il bisogno che l’evento eccezionale sia seguito da un’eccezionale risposta viene dunque soddisfatto dal dispiegamento di capacità dirigente del partito che, in un momento di sconfitta, dimostra di avere ancora “i coglioni d’acciaio”. Una singolare conferma (da dentro le istituzioni) dello stesso procedimento è nella testimonianza di un funzionario di prefettura: qui un gesto eccezionale (e immaginario) attribuito al prefetto in un momento in cui lo stato è sotto accusa di omicidio serve a salvare la “faccia umana” delle istituzioni:
Salvatore Portelli. Quindi appunto nel ’48 la situazione occupazionale, specialmente della Terni, ebbe uno stato di crisi e furono preannunciate, almeno a quanto mi ricordo io […] delle probabilità di licenziamento. Le masse operaie si coalizzarono e scesero in piazza, fecero manifestazioni, e purtroppo, l’intervento della polizia, ci fu quell’incidente clamoroso che costò la vita a quell’operaio, Trastulli. Le cose, dopo la morte del Trastulli, precipitarono, e erano diventate veramente minacciose. La polizia fronteggiava gli operai, e lo scontro sembrava imminente. E a me pare che a quell’epoca lì, in quel momento lì, il prefetto – era il prefetto Mauro, Francesco Mauro […] – scese lui stesso in piazza e tra le due parti, diciamo così, quella della polizia e quella dei rivoltosi, riuscì a calmarli, anche perché dice, “ma che vogliamo fa’? vogliamo fa’ una strage, dall’una e dall’altra parte?” E allora cominciarono dei contatti per cui la polizia, mi pare, venne ritirata nelle caserme, mi pare, negli alloggiamenti; e da parte delle organizzazioni operaie, sindacali, fu concessa una tregua all’agitazione. Mi pare, adesso non ricordo bene, ma adesso mi pare che gli stessi licenziamenti furono in parte sospesi. Questo mi ricordo io, almeno”.
Una parte considerevole dei narratori tendono a spostare l’evento verso il basso, accentuandovi il proprio coinvolgimento e attirandolo così nella modalità personale: “E non c’ero anch’io?” (Calfiero Canali), “C’erano le mie figlie” (Antonina Colombi), “Ecco, così l’episodio mio della questione de Trastulli” (Bruno Zenoni). L’accentuazione della modalità personale avviene tramite l’uso del “punto di vista circoscritto”; in cui il narratore non riferisce il fatto in sé, ma la sua percezione, il modo in cui ne è venuto a conoscenza e lo ha vissuto: “Quando arrivò la notizia alla federazione…” (Zenoni); “Io mi trovavo a scuola in quel momento” (Ambrogio Filipponi). Certi racconti, di persone che non erano presenti al momento culminante e riferiscono solo la propria visione delle retrovie, somigliano alla battaglia di Waterloo descritta dal punto di vista del protagonista nella Chartreuse de Parme di Stendhal:
Alfredo Vecchioni. Me ricordo io, c’era un comizio al comune, io stavo qui davanti proprio alla banca del Credito Italiano, cià due ingressi, lì in quell’angolo, no. Stavo così, proprio pacificamente, chi se l’aspettava. Tutt’assieme mettono in moto ‘ste motarelle, le camionette, e salivano sui marciapiedi, a momenti me schiacciavano, lì. Insomma, feci in tempo a entrare da una [porta della banca] e riscappai de qua. De qua, ce stava quell’altra colonna; insomma, ci volevano proprio cosa’, lì. Ma che fai, dico, séte matti, dico? Eh, per carità, matti. Vennero co’ li così, coi bastoni, manganelli, questi poliziotti che ancora qualcuno se ne vede in giro adesso.
Da questa tecnica meramente inerente all’intreccio del racconto, si passa già nella sfera dell’immaginario quando la personalizzazione avviene per mezzo dell’invenzione o dell’amplificazione del rapporto personale del narratore con la vittima: “‘stu pòro bardascio – e lavorava lì co’ me lì l’officina meccanica, stavam’assieme, lui lavorava ‘na fresatrice.” (Calfiero Canali). O ancora:
Ivano Sabatini. Era un compagno serio, un compagno onesto che a nessuno dava fastidio. Solo che insieme si portava nelle fabbriche in quei momenti dei giornali, e cioè l’Unità, si portava Pattuglia il giornale dei giovani, si portava Vie Nuove, Noi Donne che ce lo mettevamo nei pantaloni per non farcelo vedere dai guardiani e distribuivamo agli operai là dentro. Ma i guardiani facevano cacce come fossimo stati delle streghe e purtroppo io stesso so’ stato licenziato.
Lui ucciso, io licenziato: ancora una volta, licenziamenti e morte di Trastulli si unificano, qui sul piano dei destini individuali.
Un tipo di racconto nella modalità personale affianca al punto di vista circoscritto un collegamento di tipo ipotetico – poteva succedere a me:
Trento Pitotti. Quann’e fu de coso, de Trastulli, no? Quanno de Togliatti, non ebbi paura per niente; ma quello giorno sì. Le pallottole fischiavano là le recchie – zzzzz, zzzzz. Dico, qui ciammazzano. (…) Mentre che scappava, che se faceva lo sciopero; allora intervenne la polizia. Bloccando la polizia, gli operai via via facevano l’ammassamento. Pe’ non facce uscì. Allora scappassimo de prepotenza. Allora la polizia, tanto bene, acchiappò questo Trastulli. Poteva acchiappa’ a me, poteva acchiappa’ un altro qualunque, perché mica eravamo dieci. […] Oh, lo sai che io ebbi paura? Mò, dico, io ho fatto la guerra, non ce dovevo ave paura; eppure quel giorno de Trastulli io m’era, non m’era veramente messo da ‘na parte, ma cercavo ‘n po’ … sentivo quelle sventole là pe’ le recchie, dico, qui ammazzano tutti, mannaggia la puttana troia. E invece annette bene, se calmò.
Questo racconto introduce anche un terzo fattore di spostamento nella modalità personale: l’analogia che consiste nell’assimilare l’evento narrato ad un altro, in cui il narratore sperimentò un coinvolgimento personale particolarmente intenso. Così, Pitotti paragona questo fatto alla guerra (anche con l’uso di quel termine militare, “ammassamento”) e all’attentato a Togliatti, che (come risulta dal resto delle interviste fatte con lui) costituiscono gli episodi salienti della sua biografia. Allo stesso modo, Amerigo Matteucci istituisce un’analogia con un’esperienza collettiva, i bombardamenti: “un po’ vivo ancora l’eco degli spari della guerra…”. Ancora alla guerra rimanda infine Canali: “io venivo da nove anni de militare”, dice, per spiegare “l’odio” da lui personalmente accumulato nei confronti degli assassini di Trastulli.
c) Dall’analogia si passa infine all’altra strategia: quella dello spostamento orizzontale, sul piano cronologico. Dal dire “come quando c’ero io” si passa facilmente a dire “è stato quando c’ero anch’io” – e cioè all’episodio che coinvolge direttamente, nel licenziamento e nelle barricate, tutta la classe operaia sul piano sia collettivo che personale. L’analogia tra i colpi sparati a Trastulli e quelli della guerra diventa l’identificazione tra questi colpi e quelli sparati nel ’53. In questo modo, la morte di Trastulli viene ad acquistare la sua “giusta” importanza di evento periodizzante, perché entra a far parte dell’avvenimento che effettivamente spacca in due tronconi la storia operaia della città e divide il tempo collettivo (e quello personale di almeno 2700 famiglie) in un “prima” e un “dopo”.
Questo spostamento orizzontale però tende a creare dei problemi di collegamento con gli altri episodi periodizzanti delle biografie personali. Se infatti si fa coincidere la morte di Trastulli con i licenziamenti (evento periodizzante a livello collettivo), si rischia di perdere il collegamento con gli eventi periodizzanti nella sequenza personale; diventa quindi necessario riorganizzare complessivamente tutta la struttura degli eventi. Facciamo un esempio: per ricostruire la data dell’episodio, Antonina Colombi ricorre ad un evento periodizzante della sfera privata – “Mi ricordo che la figlia mia aveva sviluppato allora, dopo è stata tanto male, che non cià avuto più gnente… Mi’ figlia adesso cià 44 anni; quando siamo rientrati [dallo sfollamento] ciaveva ‘na diecina d’anni, cinqu’anni dopo…”. Deduce quindi che deve essere stato attorno al 1950. Questo però non coincide più col fatto che attribuisce la causa degli scontri ai licenziamenti e sa – sul piano anche personale: fu licenziato suo marito – che questi avvennero nel ’53. Qui la soccorre il fatto che i licenziamenti si svolsero in due ondate: una parte nel dicembre ’52 ed il resto nell’ottobre ’53. Le basta perciò allargare l’intervallo tra le due fasi dei licenziamenti, anticipando la prima ondata al ’50, per ricomporre tutta la sequenza, collettiva e personale, mantenendo al loro posto gli eventi periodizzanti. È lo stesso espediente al quale ricorrono altri narratori, che ben ricordano che Trastulli morì prima dei licenziamenti: “io dovevo fa’ il secondo turno e stavo a casa quando successe il fatto. E quindi è stato un po’ prima insomma; me pare tra i settecento, a cavallo fra i settecento e i duemila” (Vecchioni).
Quello che è in gioco qui, dunque, è la definizione di “evento.” La cronologia standard vede le prime minacce all’occupazione nel 1947, i settecento licenziamenti del 1952, i duemila del 1953, e le proteste contro la NATO del 1949 come eventi distinti, anche se collegati. La cronologia soggettiva della cultura operaia li vede invece come un’unica sequenza – soprattutto per gli eventi del 1952-53, tutti sussunti sotto un unica etichetta, “i tremila” – simboleggiata e unificata dalla datazione incerta della morte di Luigi Trastulli.
In conclusione, la manipolazione del tempo è resa possibile dal convergere di caratteristiche complementari nella struttura dei due eventi che vengono unificati: l’incertezza nella collocazione della morte di Trastulli, l’esistenza di uno spazio vuoto”, incerto, all’interno dell’evento complessivo che va sotto il nome di “licenziamenti”.
7. La memoria è la storia
Possiamo dire che la memoria collettiva manipola sia i materiali dell’evento sia la loro disposizione nel racconto in modo da rispondere a tre funzioni principali:
– simbolica. La morte di Luigi Trastulli viene assunta a rappresentare l’esperienza complessiva della lotta di classe a Terni nel primo decennio del dopoguerra. Attorno al simbolo centrale costituito dal protagonista, si formano altri simboli marginali (il fucile, le camionette, il muro). L’evento viene trasferito ad un altro contesto per aderire al principio della causazione adeguata;
– psicologica. La dinamica dell’evento, la sua causa, la sua collocazione cronologica vengono manipolate in modo da sanare il senso di umiliazione e la perdita della stima di sé provocate dalla mancata risposta all’uccisione del compagno;
– formale. L’uccisione di Trastulli viene spostata orizzontalmente per conferirle una funzione periodizzante che ne sottolinei l’importanza; viene spostata verticalmente in modo da trovare una modalità di rapporto che le dia un senso accettabile. L’evento successivo, col quale viene identificata, si modifica a sua volta in modo da ricomporre il rapporto turbato tra periodizzazione collettiva e periodizzazione personale.
Le divaricazioni fra fatto e memoria non possono quindi essere attribuite ai deterioramenti del ricordo, al tempo trascorso, magari all’età avanzata di alcuni dei narratori. Si tratta invece dei prodotti del funzionamento attivo della memoria collettiva, di procedimenti coerenti che organizzano tendenze di fondo già riscontrabili persino nelle fonti scritte contemporanee ai fatti. Possiamo aggiungere un’ultima osservazione: sapremmo molto di meno sul senso di questo avvenimento se le fonti orali lo avessero riferito in modo accurato e “veridico”. Più ancora dell’evento in quanto tale, il fatto storico rilevante qui è la memoria stessa.
(*) La fonte di questo testo (mancano le note) è «Storie orali» di Sandro Portelli Donzelli 2007.
Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili ma sinora sempre evitati) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo – postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.
Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 17 marzo avevo, fra l’altro, ipotizzato: 180: muore Marco Aurelio; 1861: regno d’Italia; 1885: “Elephant Man” al London Hospital; 1891: naufragio dell’«Utopia» (!) a Gibilterra, 576 morti, quasi tutti italiani; 1902: chinino di Stato; 1942: muore Argo Secondari; 1981: la Guardia di Finanza entra in casa di Licio Gelli; 1995: una tragica storia di amianto; 2009: Ratzinger vola in Africa e dice che il preservativo non serve. E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.
Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it ) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”.
Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su www.radiazione.info .
Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… vi aggiorneremo. (db)