Scor-data: 18 gennaio 1599
Giordano Bruno verso il rogo (*)
di Fabio Troncarelli
Il 18 gennaio 1599 una congregazione di cardinali – presieduta dal famoso inquisitore Giulio Antonio Santorio e affiancata da autorevoli commissari come il non meno celebre Roberto Bellarmino – intimò a Giordano Bruno, detenuto a Roma dopo essere stato arrestato e processato a Venezia, di abiurare entro sei giorni otto proposizioni estratte da alcuni suoi scritti e giudicate erroneee. Fu questa una svolta nel lungo processo di Bruno, perché per la prima volta dopo anni di defatiganti contese in tribunale, il filosofo fu accusato per ciò che aveva scritto e non solo per testimonianze vaghe, contraddittorie, confuse e confusionarie raccolte sul suo conto. A dire il vero le otto striminzite opinioni erronee di Bruno furono ricavate a stento da poche opere del filosofo, perché la congregazione formata da tanti illustri personaggi e il manipolo di non meno illustri commissari non aveva a disposizione gli scritti del nolano, né si preoccupava di averli: un atteggiamento che la dice lunga sulla condanna e che emerge anche nella sentenza finale contro Bruno, in cui i giudici inclusero fra le opere condannate «Lo spaccio della bestia trionfante», dichiarando apertamente di non averlo letto, fraintendendo altrettanto apertamente perfino il titolo del testo.
In ogni caso la richiesta di abiura di proposizioni erronee rappresentò pur sempre una svolta nel processo e nonostante l’apparenza offrì per un certo periodo una via d’uscita al filosofo. L’astuzia gesuitica di Bellarmino (l’unico che leggesse e soprattutto capisse qualcosa fra tanti illustri prelati) aveva infatti ridotto l’eresia di Bruno a otto opinioni errate: bastava rifiutarle e l’intero impianto accusatorio sarebbe saltato. Il nolano comprese il significato dell’espediente escogitato dal grande gesuita e per un certo periodo si disse disposto ad abiurare, a condizione di poter salvare la faccia: il filosofo chiese infatti che le dottrine giudicate erronee (fra cui l’adesione alle teorie di Copernico) venissero dichiarate esplicitamente erronee da parte della Chiesa, che fino a quel momento non si era mai pronunciata esplicitamente. In questo modo il filosofo sperava di attenuare la brutta figura di una pubblica abiura: invece di sconfessare platealmente le proprie opinioni ammettendo di aver professato idee eretiche per anni in modo irresponsabile, il nolano avrebbe potuto sostenere di obbedire a nuove direttive della Chiesa e di aver errato in buona fede. I rabbiosi giudici di Bruno non accettarono questa richiesta e incalzarono il filosofo con nuove, perentorie richieste di abiura incondizionata: dopo un tira e molla di parecchi mesi, con diverse fasi, il filosofo finì con il rifiutare l’abiura, ben sapendo che questo lo avrebbe portato sul patibolo.
Chi volesse approfondire questa vicenda convulsa e contraddittoria può leggere la bella biografia del filosofo nolano scritta da Saverio Ricci («Giordano Bruno nell’Europa del Cinquecento», Salerno editrice, 652 pagine). Questa lettura lo aiuterà, senza dubbio, a riflettere sul destino singolare di un uomo vissuto in un’età singolare. Il volume di Ricci si chiude infatti in un modo problematico: dopo aver evocato in centinaie di pagine equilibrate e documentate la complessa avventura di un uomo così fuori dal comune e dopo aver narrato la sua fine drammatica, Ricci lascia affiorare il sentimento di rimpianto nei confronti della perdita rappresentata dalla morte di Bruno, attraverso la pura e semplice rievocazione della simpatia umana di alcuni amici e ammiratori del Nolano, a cominciare da William Shakespeare che in «Pene d’amor perdute» aveva rievocato Bruno, mettendo in scena l’estroso Browne.
Il rimpianto per la perdita di un personaggio come Bruno ci fa capire quanto sia mistificante, miope e sciocca l’immagine che tanti storici, anche autorevolissimi, ci hanno tramandato del nolano, riemersa con livore anche nelle polemiche sui quotidiani in occasione dell’anniversario del rogo del filosofo (si vedano a puro titolo d’esempio le aspre discussioni suscitate da un vergognoso articoletto di Indro Montanelli sul «Corriere della sera» del 5 febbraio 2000, che bolla Bruno con gli epiteti di «sciupafemmine» e «ribelle» pur ammettendo di non averlo mai letto). Bruno non era affatto l’uomo insopportabile che tanti storici hanno descritto: presuntuoso, ribelle, ostinato, perfino “squilibrato”. Stando a contemporanei come Shakespeare, che sapeva giudicare gli uomini più degli storici accademici, Bruno era simpatico. Sì, proprio così: Bruno era un uomo spiritoso, allegro, anticonformista, che si poteva permettere di sfottere gli asini che lo circondavano perché non era asino come loro.
Il fatto è che Bruno era uno spirito folletto, fantasioso e originale: un grande creatore di linguaggio, di motti di spirito, di caricature. In una parola un grande scrittore. Questa sua qualità viene spesso sacrificata rispetto alle sue doti di filosofo: ma si dimentica così che il nolano non era un pensatore sistematico, piuttosto un intuitivo, che rivestiva volentieri i ragionamenti di immagini esuberanti e allegorie rutilanti e che si esprimeva spontaneamente attraverso il teatro o in forma di dialogo e non in forma di monologo a base di sillogismi. Egli era un grande prosatore “manierista” che ha rotto con la forma chiusa del trattato del Cinquecento così come Michelangelo ha rotto con il classicismo del mondo di Raffaello. L’intuizione dell’infinità dei mondi e il riconoscimento dell’infinità di Dio, causa infinita di un universo infinito nasce, prima che sul terreno metafisico, su quello esistenziale, a partire da quella vertigine proto-barocca che percorre tutta l’Italia dell’ultimo Cinquecento e in particolare la Napoli di Della Porta. «Il Nolano… ha disciolto l’animo umano e la cognizione ch’era rinchiusa nell’artissimo carcere de l’aria turbolento… ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle trapassati i margini del mondo… ha illuminati i ciechi che non possean fissar gli occhi e mirar l’imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli s’opponeno». Questa auto-celebrazione nella «Cena delle ceneri» è significativa: come nelle Meniñas di Velázquez la Commedia Umana si riflette in specchi in cui a malapena distinguiamo la nostra immagine; e come nel San Paolo del Caravaggio l’uomo è accecato da una luce violenta che squarcia le tenebre di un carcere d’aria oscura che ci circonda.
Bruno era in segreta sintonia coi tempi prima che sul piano filosofico su quello antropologico. Da vero artista captava e anticipava umori e tendenze che di lì a poco si sarebbero manifestate con una profonda carica dirompente. E scriveva con uno stile inconsueto e provocatorio, che rifletteva una personalità troppo ricca per restare nel solco della tradizione. Per questo era affascinante e per questo era odiato: perché non si limitava a trasmettere una visione ma anche una emozione del mondo. E questo mondo, pieno di bagliori e di tenebre, insanguinato dalle guerre per la supremazia politica e religiosa d’Europa, non era il mondo adatto a un figlio del Rinascimento. Non c’era più posto in Italia per chi possedeva un libro con annotazioni di Erasmo. Fu questa, non dimentichiamolo, l’accusa che lo trascinò sulla via dell’esilio. La condanna di Erasmo e degli erasmiani è alla base di tutta la tragedia dell’età della Controriforma e significa il rifiuto dell’umanesimo, il rifiuto delle critiche di Valla al potere temporale dei papi, il rifiuto della critica filologica alle assurdità dell’agiografia medievale, il rifiuto del dibattito teologico aperto e delle disputationes pubbliche che erano state il nerbo delle università medievali.
Prima di essere condannato dal tribunale dell’Inquisizione Giordano Bruno era condannato in partenza dal trionfalismo di una Chiesa intransigente che rifiutava di fare i conti con se stessa e non accettava aprioristicamente il confronto. Il nolano non divenne un fuoriuscito perché era un ribelle e un ostinato, ma fu costretto ad essere un ribelle e un ostinato perché era un fuoriuscito in patria negli anni stessi della sua formazione, visto che la sola lettura della Scrittura con l’aiuto delle note di Erasmo era reato e indizio di eresia.
Davanti al rifiuto radicale della sua identità di scrittore e di pensatore, colui che deve pronunciare parole nuove per farci comprendere nuovi aspetti dell’esistenza, Bruno fu obbligato, evangelicamente, a scegliere la porta stretta della fuga, della polemica, dell’esilio. Divenne un maledetto del pensiero, a suo agio solo con esseri sbandati come lui o con qualche compagno di strada che apparteneva a minoranze colte, protetto per il suo alto lignaggio dalla violenza del potere.
Siamo ricondotti così al punto di partenza: il rimpianto per la perdita di un uomo che avrebbe potuto avere il destino di Shakespeare o almeno il destino che Shakespeare gli assegna nella commedia «Pene d’amor perdute». L’Italia della Controriforma ha perduto l’occasione storica di lasciare esprimere liberamente i geni nati, come direbbe Bruno, «sotto un cielo più benigno» delle cupe nebbie di Macbeth. La domanda che ci si pone, come storici e non come moralisti, è se abbia ancora senso credere a miti storiografici come quello della modernità e “razionalità” della Chiesa post-tridentina o quello della “mitezza” dell’Inquisizione italiana.
C’è un vecchio film di Ronald Neame, «Whisky e gloria», in cui uno straordinario Alec Guiness si mette alla testa di un reparto di ufficiali scozzesi per distruggere moralmente il comandante, un uomo aperto e intelligente, ma fragile, troppo fragile. Alla fine l’uomo si suicida e solo allora Guinness scopre l’orrore: lo scherno sistematico, il disprezzo, il rifiuto, l’ostilità hanno ucciso non solo un uomo buono, ma la speranza stessa di una vita migliore. E Guinness, in preda al delirio, chiede per il suo comandante un funerale solenne, l’onore pubblico, l’apoteosi impossibile, ma poi si accascia in preda ai singhiozzi e dice: «Io sono distrutto». Quante volte ho sognato che i miei contemporanei – siano essi i professionisti del perdono o gli uomini di mondo che dicono che non c’è niente da perdonare – avessero il coraggio di mettersi a piangere e confessare al mondo o forse solo a loro stessi che la morte di un uomo che regalava allegria li fa sentire distrutti.
(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata», di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende una persona o un evento che per qualche ragione la gente sedicente “per bene” ignora, preferisce dimenticare o rammenta “a rovescio”.
Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 18 gennaio avevo ipotizzato: nel 532 rivolta a Ravenna e ruolo di Teodora; nel 1574 sentenza a Lione contro un sospetto licantropo; nel 1879 nascosto un massacro di Cheyenne; nel 1892 nasce ad Atlanta Oliver Hardy; nel 1911 nasce Josè Maria Arguedas; nel 1918 Wilson annuncia il suo sì al voto alle donne; nel 1943 la Croce Rossa racconta del campo di concentramento a Renicci (Arezzo); nel 1951 esce «Il giovane Holden»; nel 1958 gli indiani Lumbee respingono il Kkk; nel 1963 Wallace governatore dell’Alabama dichiara «segregazione oggi, domani, sempre»; nel 1964 il caso Bebawy; nel 1977 rivolta della fame in Egitto; nel 1986 esplode la Clallenger; nel 1994 risposta di Marcos al governo (e ieri ne ha parlato qui in blog Daniela Pia); nel 2001 la Francia riconosce il genocidio degli armeni; nel 2006 risoluzione del Parlamento europeo sull’omofobia.
Sul 19 gennaio invece avevo questi appunti (tutti da verificare al solito): nel 1405 muore Tamerlano; nel 1809 nasce Poe; nel 1890 nasce Ferruccio Parri; nel 1893 esplode lo scandalo della Banca Romana; nel 1954 i primi «preti operai»; nel 1975 «L’Espresso» mette in copertina una donna incinta crocefissa (e viene sequestrato); nel 1978 viene messo fuori produzione «il maggiolino» e altre cose più recenti.
Le ipotesi di lavoro sul 20 gennaio (a parte il Giordano Bruno che oggi così bene racconta Fabio Troncarelli) riguardavano il processo per stregheria a Caterina Ross nel 1697; la morte di Giovanni Maria Lancisi nel 1720; nel 1852 il massacro delle truppe pontificie a Cesena; nel 1893 strage di contadini a Caltavuturo; nel 1920 la nascita di Ernesto Cardenal; nel 1927 il fascismo riduce a metà i salari femminili; nel 1942 a Wannsee si decide la «soluzione finale» per gli ebrei; nel 1949 con Rostow nasce l’età dello sviluppo; nel 1973 viene ucciso Amilcar Cabral; nel 1988 muore Abdul Ghaffar Khan; nel 2011 gli immobili del Vaticano sono esentati dall’Imu. E chissà, a cercare un poco, quante altre «scor-date» salterebbero fuori ogni giorno.
Come vedete e vedrete molte le firme e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevissimi, magari solo una citazione, un disegno o una foto. Se l’idea vi piace fate circolare le “scor-date” o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo che sta nascendo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)
Istruttivo, interessante, italiano, ben scritto ed emozionante.
E’ grottesco che ai piedi della statua di Giordano Bruno a Roma, spesso si consumi il degrado, l’oblio, la violenza. Questa si, vera eresia.
-Energu-