Scor-data: 18 gennaio 1994

Il sub-comandante Marcos: «Chi deve chiedere perdono e chi può concederlo?»

di Daniela Pia

Il 26 agosto 1968, alla conferenza episcopale di Medellin, don Samuel Ruiz fece un intervento destinato a rimanere nella storia quando, davanti alle più alte gerarchie ecclesiastiche – che non gradirono affatto – parlò di «violenza» dicendo: «Innanzitutto ne esiste una istituzionalizzata, quella di un sistema che genera morte. Poi c’è quella che nasce dalla repressione per interrompere il cammino di riscatto delle comunità indigene, di quelle emarginate, operaie, contadine. Solo quando non c’è più alcuna possibilità di sopravvivenza arriva la terza violenza: quella di chi sta sotto nella scala sociale e prende le armi per non morire». Questo discorso non nasceva per caso, infatti Samuel Ruiz, divenuto poi vescovo di San Cristobal de Las Casas (in Messico) aveva toccato con mano andando fra la gente, i soprusi e lo sfruttamento cui, da secoli gli indios del Chiapas erano sottoposti. Oggetto di oppressione da parte dei discendenti dei colonizzatori, i quali esercitavano una sorta di diritto divino alla signoria materiale e alla “conversione” con ogni mezzo, gli indios furono considerati manodopera da sfruttare e tenere in uno stato di sudditanza. Questo avvenne soprattutto sottraendo loro le terre e l’accesso all’acqua potabile. Un censimento fatto nel 1910 rivelò che il 96,9% dei contadini messicani erano privi di terra mentre un esiguo 1% della popolazione possedeva il 96% delle terre: una situazione di sfruttamento e di ingiustizia sociale insostenibile, che portò Emiliano Zapata a farsi sostenitore di una riforma agraria che restituisse la terra ai villaggi indigeni. Il sogno di Zapata si scontrò però con la realpolitik dei diversi governi e spesso la repressione si manifestò con estrema ferocia: la lotta armata fu la scelta ultima, quella che scaturisce dal terzo tipo di violenza, inevitabile per i contadini che dovevano potersi difendere dalla prima e dalla seconda violenza affermando il loro diritto alla terra e alla vita. La situazione peggiorò ancora e, durante gli anni del governo di Carlos Salina de Gotari in carica dal 1988 al 1994, divenne insopportabile quando liberismo sfrenato, privatizzazioni e speculazioni misero in ginocchio le economie rurali tanto da costringere i piccoli coltivatori a vendere anche i più minuti fazzoletti di terra ai latifondisti.

I tempi erano però maturi per un inversione di rotta. Il primo gennaio 1994 , l’Ezln – il neonato esercito zapatista di liberazione nazionale – con l’intento di far conoscere al mondo la condizione degli indios del Chiapas, promosse il Levantamiento, l’insurrezione. I campesinos scelsero di coprirsi il viso per paradossalmente diventare visibili, occuparono militarmente diversi municipi, senza sparare un colpo e imbracciarono la bandiera dei diritti collettivi dei popoli indigeni per tentare di costruire una nazione di uguali fra diversi. Fra i municipi occupati fu proprio a San Cristobal che il subcomandante Marcos lesse la «Prima dichiarazione della selva Lacandona» – http://chiapasbg.files.wordpress.com/2009/07/prima-dichiarazione-della-selva-lacandona.pdf – riprendendo in parte le rivendicazioni del piano di Ayala che fu di Emiliano Zapata.

Un lungo cammino quello compiuto dall’Ezln, guidato dal sub-comandante Marcos , che ha trovato uno dei momenti più significativi nel comunicato del perdono del 18 gennaio 1994, quando Marcos, rivolgendosi ai rappresentanti del governo messicano ha chiesto – in una lettera aperta che ha fatto il giro del mondo – di cosa dovessero chiedere perdono coloro che avevano da secoli sopportato ogni privazione (http://www.ipsnet.it/chiapas/1994/180194ma.htm). Lo chiedeva con una passione tale da lasciare spazio solo alla riflessione: sarebbe stato necessario, per coloro che magnanimamente si dichiaravano disposti a concedere il perdono ai rivoltosi, «camminare almeno per tre lune nei mocassini degli indios» per poter soltanto iniziare a comprendere. Naturalmente il governo si guardò bene di smettere le sontuose calzature che proteggevano i privilegiati piedi, cercando anche solo di immaginare cosa significasse camminare sulle ferite degli indios.

Così è continuata l’impari lotta. Conversando con Renè Baez, nell’agosto 1996 Marcos spiegò: «Noi non vogliamo che altri – più o meno di destra, più o meno di centro, più o meno di sinistra – decidano per noi. Noi vogliamo partecipare direttamente alle decisioni che ci riguardano, controllare i nostri governanti, senza preoccuparci della loro appartenenza politica e obbligarli a “comandare obbedendo”. Noi non lottiamo per prendere il potere: noi lottiamo per la democrazia, la libertà e la giustizia. […] Il governo ha i soldati. Il popolo indigeno ha i soldati. Sono di pelle scura i soldati del governo. Di pelle scura sono i soldati indigeni ribelli. Sembrano gli stessi […] ma i soldati del governo sparano in basso, dove stanno i nostri. Gli indigeni ribelli sparano in alto. Non per uccidere i governi dicono. Ma per risvegliare la storia gridano».

In questi ultimi anni, in tanti hanno dato per concluso il ciclo iniziato nel 1994. Lo scorso 21 dicembre però, i ribelli maya zapatisti hanno occupato pacificamente e in silenzio 5 città del Chiapas per ribadire che l’Ezln – che opera da oltre 28 anni – non se ne è mai andato, anzi ha continuato a fermentare, parlando e rimanendo in silenzio in modo intermittente, ma senza smettere di stare fra la gente e riproponendo le questioni irrisolte. In quella che è stata definita «la marcia del silenzio» gli zapatisti hanno ancora una volta lanciato una sfida. Un urlo silenzioso che richiamava quello pieno di contenuti del «comunicato del perdono», uno dei documenti più toccanti della letteratura politica contemporanea nel quale la coscienza degli individui viene riportata a una riflessione collettiva: la necessità di muoversi verso una società più equa. Lo aveva affermato bene Thomas Sankara del suo discorso sul debito del 1987 sottolineando: «dobbiamo dire al contrario che oggi è normale si preferisca riconoscere come i più grandi ladri siano i più ricchi. Un povero, quando ruba, non commette che un piccolo peccato per poter sopravvivere e per necessità. I ricchi, sono quelli che rubano al fisco, alle dogane. Sono quelli che sfruttano il popolo».

Quello che è successo in Chiapas, una terra piena di prospettive resa immobile dall’oligarchia al potere lo ha detto bene Montalban ricordando: «Il Chiapas è potenzialmente ricco, al punto di essere riuscito ad arricchire l’oligarchia portando alla miseria la popolazione, in maggioranza indigena».

Ecco che allora è necessario chiederci assieme a Marcos: «chi può chiedere il perdono e chi può concederlo? Quelli che per anni si sedettero davanti a un tavolo imbandito e si saziarono mentre noi si sedeva con la morte, così quotidiana, così nostra che alla fine smettemmo di averne paura?». Si deve chiedere perdono di esistere forse? Ciò che ha fatto l’Ezln è stata – come scrive John Holloway nella prefazione a «Il vento dal basso»«una cosa di grande bellezza. Ma la bellezza in un mondo brutto è guerra. Il grido di dignità zapatista è un affronto insostenibile per un sistema basato sulla negazione della dignità. Il capitalismo non può tollerare la creazione di un mondo nuovo e quindi gli zapatisti sopportano l’attacco costante dell’esercito messicano e i continui assalti del capitalismo ad ogni livello». Quale perdono dunque?

IL SENSO DI QUESTA RUBRICA

Dall’11 gennaio, ogni giorno (salvo ciontrattempi sempre possibili) troverete in blog – a mezzanotte e un minuto – una «scordata» con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Scor-data indica un evento o una persona che per qualche ragione la gente sedicente “per bene” ignora e/o preferisce dimenticare. Come vedrete le firme saranno varie (i post siglati db ovviamente sono miei) e molto diversi gli stili e le scelte. Anche quello di oggi è piuttosto lungo ma a volte ne troverete di brevissimi: magari solo una breve citazione, un disegno o una foto. La logica di fondo (beh ogni tanto ci sarà qualcosa di più leggerino…) è raccontare storie che il potere capitalista, patriarcale, razzista, omofobo, normodotato-centrico, integralista-talebano non gradisce.  Se l’idea vi piace fate circolare le “scor-date” o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo che sta nascendo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)

Daniela Pia
Sarda sono, fatta di pagine e di penna. Insegno e imparo. Cammino all' alba, in campagna, in compagnia di cani randagi. Ho superato le cinquanta primavere. Veglio e ora, come diceva Pavese :"In sostanza chiedo un letargo, un anestetico, la certezza di essere ben nascosto. Non chiedo la pace nel mondo, chiedo la mia".

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    Beppe Pavan – Pinerolo

  • care e cari,
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