Scor-data: 20 febbraio 1925
E io (non da solo?) dico: grazie Bob
di Franco Minganti (*)
Questo non è un necrologio: si festeggia Robert Altman, con tanta gratitudine per la compagnia che ci ha tenuto in questi ultimi decenni. Non parlerò in nome della mia generazione, ma questa scor-data sarà in una prima persona un po’ singolare e un po’ plurale, non semplicemente autobiografica, mi auguro.
Allora: vedo MASH (1970) che ancora frequento il liceo, anni in cui si comincia ad andare al cinema a ragion veduta ma, soprattutto – fatto alquanto inedito – a chiacchierare in classe dei film visti. Con i professori. Elliott Gould e Donald Sutherland diventano decisamente i primi eroi (contro)culturali americani, miei e di una ristretta gang di sodali potenziali cinefili e (anti)americanisti. Giganteschi, larger-than-life, dall’umor nero irresistibilmente debordante. L’ambientazione è la guerra di Corea, ma non siamo fessi e si capisce benissimo che vogliono che si pensi alle retrovie del Vietnam.
Anche gli uccelli uccidono (1970) l’avrei recuperato in un cineforum di un paio d’anni più tardi e avrei presto stabilito con il film un nesso familiare: la ditta del papà del mio amico americano, anzi texano, James Hay aveva dipinto l’Astrodome di Houston sotto la cui volta Bud Cort – volto e figura assolutamente indimenticabili (penso anche alla sua prova nel poco più tardo Harold & Maude) – stava imparando a volare… Ma che c’entrava quel (brutto) titolo hitchcockiano quando l’originale era intitolato Brewster McCloud, misterioso e allusivo?
Poi vedo quella struggente elegia del West sotto la neve che è I compari (1971), stregato, oltre che da Julie Christie (e Warren Beatty), soprattutto dalla voce di Leonard Cohen, che già amavo di mio (mi spaccavo le dita sul finger picking di alcune sue canzoni, anche se preferivo suonare le prime cose di Bob Dylan). Geniale questo regista che usava sfrontatamente la stessa musica che piaceva a me. Ero ormai sintonizzato, decisamente a mio agio, sulle lunghezze d’onda di Altman, pronto a correre a comprare le prime monografie su di lui e a dare la caccia, per festival, a certe sue cose televisive precedenti: negli anni sessanta aveva diretto episodi di Bonanza, Route 66, Maverick, Peter Gunn…
Scopro Nashville (1975) nei militari e il solo leggerne fa montare le mie aspettative prima ancora di vederlo: il film promette di essere un saggio sulla capitale della musica Country & Western e sulla violenza dell’America profonda della società dello spettacolo. Ma il film è molto di più, una rivoluzione nell’arte dello storytelling cinematografico: 24 personaggi che si incontrano e scontrano, mescolandosi nel montaggio, con gli attori che diventano co-autori dei ruoli che interpretano e persino delle canzoni che cantano, in puro stile-Nashville. E’ come la mappa dell’impero di Borges, ricordate? “In quell’impero, l’arte della cartografia giunse ad una tal perfezione che la mappa di una sola provincia occupava tutta una città, e la mappa dell’impero tutta una provincia. Col tempo, queste mappe smisurate non bastarono più. I collegi dei cartografi fecero una mappa dell’impero che aveva l’immensità dell’impero e coincideva perfettamente con esso”. Quel mondo parallelo creato da Altman & Co. (la sceneggiatrice Joan Tewksbury e il resto del cast) è tanto più vero del vero che alcune canzoni originali della colonna sonora balzano in vetta alle “reali” classifiche di vendita.
A tutt’oggi, anche se le graduatorie lasciano il tempo che trovano, Nashville resta per me “il film” per eccellenza. Insuperato. L’inizio di una fede altmaniana e il sigillo di un percorso di formazione in relazione alla cultura americana che vede tra i miei mentori affettivi proprio il regista di Kansas City. Posso dire di aver visto tutti i suoi film “in tempo reale”, al tempo della loro distribuzione, di fatto seguendo passo a passo la carriera di Altman. Per la verità, un paio me li sono persi (prima o poi li recupererò, statene certi… magari anche certi suoi tv movies) e, è ovvio, non mi sono piaciuti tutti allo stesso modo, indiscriminatamente. Ne ho spesso avvertito la fatica a liberare le tensioni, soprattutto in film di impianto teatrale come Jimmy Dean, Jimmy Dean (1982) e Streamers (1983) – questo sì un film sul Vietnam, dall’omonimo testo teatrale di David Rabe, anche se ambientato negli USA, in un campo di addestramento militare – o in certe pellicole comunque claustrofobiche come Quintet (1979) o debordanti come Un matrimonio (1978), segno che non basta applicare la formula-Nashville per cucinare un film a puntino. Serve un equilibrio sapiente non sempre facile da realizzare (poi sono da mettere in conto anche film poco riusciti, come Non giocate con il cactus o Il dottor T e le donne rispettivamente del 1985 e 2000).
Pur volendo evitare elenchi tipo lista-della-spesa, non posso non menzionare alcuni titoli che, fra i tanti, hanno lasciato tracce indelebili. Smarrito l’ordine cronologico, ecco allora I protagonisti (1992), spietato ritratto di Hollywood nel solco del miglior “Hollywood Novel” possibile, America oggi (1993), accurato affresco dell’America media, mediocre e infinita di Raymond Carver, e Kansas City (1996), omaggio a quel particolare capitolo della storia del jazz che ha coniugato musica e criminalità nella città natale di Altman alla metà degli anni trenta. Ancora tre titoli. 1. Il lungo addio (1973) è di gran lunga il più solido Chandler nell’era del colore, dichiarazione d’amore di notevolissimo spessore critico: se accettiamo di riconoscere che il nostro immaginario è condizionato dal cinema, rifare cinema di genere non può prescindere da esso (la musica di “Hooray for Hollywood”, di Johnny Mercer, letteralmente incastona la storia). Riambientare Philip Marlowe nel mondo di oggi (be’, di ieri, primi anni settanta) restando fedeli al suo personaggio, significa prendersi la libertà di cambiare il finale della storia. 2. Buffalo Bill e gli Indiani (1976), ovvero “la lezione di storia di Toro Seduto”, disseziona senza remore la costruzione mitografica della prima icona dello star system americano. 3. Tre donne (1977) – le infinite Shelley Duvall, Sissy Spacek e Janice Rule – esplora, anche per maschietti riottosi, i confini tra il femminile e il femminista. Per alcuni è un punto-di-non-ritorno (da allora una locandina del film, ormai ingiallita dal tempo, campeggia su una parete della sala di casa mia).
Potrei chiudere qui ma una coda è inevitabile. Detto del (seriale) televisivo Tanner on Tanner (2004) lucida e spietata ricostruzione, in chiave docufiction,della macchina delle elezioni presidenziali (se non erro passato anche sul piccolo schermo in Italia), non resta che calare il sipario sull’ultimo film di Altman, Radio America (2006) distribuito postumo, dopo la scomparsa del regista. Dal Grand Ole Opry di Nashville al Prairie Home Companion di St.Paul/Minneapolis, regno incontrastato dell’omonima trasmissione radiofonica “live” di Garrison Keillor. E’ la serata d’addio, il canto del cigno, del teatro intitolato a Francis Scott Fitzgerald e della popolare trasmissione che ha ospitato per tanti anni. Autunnale e poetico è ancora una volta un film capace di offrire food for thought, gran buon cibo per la nostra mente.
Thanx, Bob
(*) Non sei solo Franco: con le debite differenze (ahimè non so strimpellare, non sono anglofono) condivido tutto quanto hai scritto e credo siamo in tanti e tante. La magia di Altman è stata anche la sua ubiquità: era Hollywood ma riusciva a essere anche l’anti-Hollywood, l’altra America (contro l’Amerika). Una sola info suppletiva: temo che Buffalo Bill e gli indiani da noi giri ancora soprattutto in versione censurata: su quest’ultimo punto sono gradite conferme o smentite.
Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata», qualche volta due, di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione la gente sedicente “per bene” ignora, preferisce dimenticare o rammenta “a rovescio”.
Molti i temi possibili per le «scor-date». A esempio, nel mio babelico archivio, sul 20 febbraio avevo questi appunti:1844: nasce Joshua Slocum; 1886: nasce Bela Kun; 1895: muore Frederick Douglass; 1909: nasce il «Futurismo» italiano; 1910: rivoluzione in Messico; 1933: si inasprisce la censura fascista sui giornalisti; 1959: nasce la «Corte europea dei diritti umani»; 1962: Glenn in orbita; 1980: muore l’ambiguo Joseph Rine; 1987: mandato di cattura per Marcinkus; 1999: il «discorso di Crema» di Bossi; 2001: laurea ad honoris a Bologna per Max Roach; 2008: si chiude l’inverosimile processo per i 118 morti di Linate; 2009: per la prima volta si celebra la «Giornata mondiale per la giustizia sociale». E chissà, a cercare, quante altre «scor-date» salterebbero fuori ogni giorno.
Molte le firme e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi, magari solo una citazione, un disegno o una foto. Se l’idea vi piace fate circolare le “scor-date” o linkatele ma citate la fonte. Se vi va di collaborare mettetevi in contatto con me (pkdick@fastmail.it) e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)