Scor-data: 20 gennaio 1988
Muore Badshah Khan, il Gandhi musulmano
di Enrico Peyretti (*)
Un singolare protagonista della nonviolenza, musulmano. Qui riassumo il libro di Eknath Easwaran – «Badshah Khan, il Gandhi musulmano», traduzione di Lorenzo Armando, Sonda editrice) che ne presenta la vita, lo spirito e l’opera.
Abdul Ghaffar Khan, detto Badshah Khan, il “re dei khan” (1890-1988) è ricordato con questi vari nomi. Fu il leader che guidò una popolazione guerriera e feroce come i pathan, ovvero pashtun, della Frontiera, la “porta dell’India” (oggi fra Pakistan e Afghanistan), di religione musulmana, e li condusse ad adottare la nonviolenza contro le repressioni molto violente del dominio inglese. Quella è la terra di Zoroastro, degli inni vedici, della cultura buddhista, prima che vi arrivasse l’Islam. Badshah Khan trovò proprio nella sua fede islamica l’ispirazione alla nonviolenza.
La sua figura storica è importante per sfatare la rozza identificazione odierna fra Islam e violenza.
Gandhi osservò che proprio il violento coraggioso nella difesa di diritto e dignità è il più disponibile a capire e vivere la “nonviolenza del forte”. Egli scrive: «Mentre non c’è alcuna speranza di vedere un vile diventare nonviolento, questa speranza non è vietata a un uomo violento» (in «Antiche come le montagne», Comunità editrice). «Musulmano è colui che non ferisce mai nessuno né con parole né con azioni e lavora invece per il benessere e la felicità delle creature di Dio. La fede in Dio è amore del proprio compagno». Sono parole di Khan citate in questo libro (pag. 61). Il giovane Ghaffar apprese da suo padre Behram Khan lo spirito del perdono, davvero singolare in quella società che aveva il codice della vendetta come regola di onore. Era un ragazzo negli anni della Guerra della Frontiera, la rivolta dei pathan nel luglio 1897 (raccontata da Winston Churchill, ventitreenne corrispondente di guerra arruolato nel IV ussari) repressa dagli inglesi che distrussero i raccolti, tagliarono gli alberi (azione feroce di guerra vietata dal Corano), avvelenarono i pozzi, demolirono le case.
Ma fu una vittoria di Pirro: l’ostilità dei pathan durerà nei decenni, fino a oggi. Non lo capì Churchill, ma lo capì Annie Besant, inglese, che già si batteva per l’auto-governo indiano.
Nel 1879 la Gran Bretagna aveva imposto la sua influenza sull’Afghanistan, in funzione anti-russa (la storia si ripete). Inutilmente l’emiro afghano aveva ammonito gli inglesi sulla indomabilità dei pathan. Poco dopo il “giubileo di diamante” della regina Vittoria (giugno 1897), l’impero stava diventando una trappola.
Come Gandhi indù, così Abdul Ghaffar musulmano riceve un’educazione inglese, senza perdere il cuore della propria tradizione. Dapprima si arruola nelle “guide”, un corpo scelto a servizio dell’impero, ma poi ne esce, perché gli inglesi trattavano i pathan da inferiori. Lavora la terra e osserva le condizioni del suo popolo. Il suo percorso è simile a quello di Gandhi. Il vicerè Curzon “viviseziona” con le deportazioni la nazione pathan. In queste condizioni, Abdul Ghaffar apre una scuola nel suo villaggio di Utmanzai e poi altre nei villaggi vicini, nonostante l’avversione dei mullah tradizionalisti e gli ostacoli della legge inglese.
Ormai ha scelto la via della riforma sociale educativa per servire il suo popolo. Si sposa, ha un figlio che lo aiuterà. Incontra altri leader musulmani impegnati nella promozione culturale del popolo e si dedica in particolare alle tribù delle montagne, governate dagli inglesi con durezza, isolamento, umiliazioni. Fra di loro, in preghiera e digiuno, trova la sua via, che seguirà per settant’anni: il servizio di Dio nel servire i poveri, gli ignoranti, i violenti. Negli stessi anni, Gandhi avvia in Sudafrica il satyagraha, fino al suo ritorno in India, nel 1914.
Molti indiani combatterono e morirono per l’impero inglese nella prima guerra mondiale, ma, nonostante le illusioni, le condizioni dell’India risultarono più dure di prima. Ghaffar sente parlare di Gandhi e delle sue campagne, si riconosce nel suo scopo e nei suoi metodi. Fra il 1915, quando muore improvvisamente la moglie amata, e il 1918, Ghaffar visita tutti i cinquecento villaggi delle basse valli della Frontiera. La gente lo acclama badshah khan.
Nel 1919, dopo la strage di Amritsar, Gandhi prepara la rivolta nonviolenta contro il dominio inglese. Ghaffar è imprigionato per sei mesi senza processo, e così tante altre volte. La sua colpa è educare il popolo. I genitori lo inducono a risposarsi. Partecipa nel 1920 alla sessione del Congresso che decide la lotta nonviolenta. Sente come un dovere sacro la lotta per la libertà. In carcere rifiuta la libertà sottoposta alla condizione di non girare per i villaggi; impressiona tutti per la scrupolosa osservanza del regolamento e la forte capacità di soffrire; rifiuta miglioramenti ottenibili con la corruzione. Un carceriere riconosce che Ghaffar è in prigione “per conto di Dio”. In prigione, incontrando altri indipendentisti indù e cristiani, impara a conoscere e rispettare le altre religioni. Intanto, gli muore l’amata madre. Scarcerato nel 1924, sebbene molto provato dopo tre anni di prigione, è ormai accolto come un leader dai pathan.
Egli sente più di tutti la contraddizione intrinseca alla mistica della vendetta e della violenza, tipica dei fieri pathan, che preferiscono rubare piuttosto che mendicare, uccidere piuttosto che patire un dolore. Molte storie di vendette familiari gli dicono che il pathan non è un assassino irresponsabile, ma la vittima del suo distorto codice d’onore. Ghaffar comprende che la politica dell’impero inglese ha buon gioco nel mettere i pathan gli uni contro gli altri: impegnati a tagliarsi la gola fra di loro non pensano alla libertà. Intuisce che la violenza pathan è frutto di ignoranza, superstizione e del peso schiacciante dell’abitudine. Così sprecano il loro coraggio e la loro forza. Sa che il suo compito è educare, illuminare, risollevare, ispirare. Insegnerà ai pathan che il vero coraggio è essere nel giusto. Riuscirà in questo perché è un vero pathan che può capire nell’intimo i pathan.
Vedo due lezioni, a questo punto della storia che percorriamo: la nonviolenza non può essere importata, ma può crescere solo dall’interno di una cultura, che discute e riforma se stessa, sulle sue basi positive; se i pathan capirono la nonviolenza, anche popolazioni soggette alla cultura mafiosa, ma non prive di umanità, possono capirla e viverla.
Nel 1926 gli muore il padre e, per una caduta durante il pellegrinaggio alla Mecca, la seconda moglie, dopo di che fa voto di non risposarsi per dedicarsi interamente al servizio del popolo. Come Gandhi, Ghaffar valorizza molto il ruolo attivo delle donne nel movimento. Fonda una rivista in lingua pakhtu, che discute di igiene, temi sociali, diritti delle donne, dignità del popolo pathan. Nel 1928 incontra Gandhi, ne riceve profonda impressione e impara da lui la tolleranza e la pazienza che manca nei leader islamici.
Incontra anche Nehru. Si inserisce nella lotta per l’indipendenza indiana, dando coscienza politica ai pathan: «Dovete vivere per la comunità. E’ l’unica strada che conduca alla prosperità e al progresso» (pag 129).
Ci voleva un esercito, sì, ma di gente libera sia dalla violenza dei fisicamente forti sia dalla nonviolenza dei moralmente deboli. Badshah Khan insegnò ai pathan che la massima forma di onore e di coraggio era affrontare un nemico per una giusta causa senza indietreggiare e senza imitare con l’uso delle armi la sua violenza, combattendo anche contro la propria violenza.
Riuscì così a costituire il primo “esercito” nonviolento della storia addestrato professionalmente. Tutti i pathan potevano entrarvi, uomini e donne, purché pronunciassero questo giuramento (per i pathan giurare impegna la vita):
«Sono un khudai kidmatgar (servo di Dio) e poiché Dio non ha bisogno di essere servito, ma servire la sua creazione è servire lui, prometto di servire l’umanità nel nome di Dio.
Prometto di astenermi dalla violenza e dal cercare vendetta..
Prometto di perdonare coloro che mi opprimono o mi trattano con crudeltà.
Prometto di astenermi dal prendere parte a litigi e risse e dal crearmi nemici.
Prometto di trattare tutti i pathan come fratelli e amici.
Prometto di astenermi da usi e costumi antisociali.
Prometto di vivere una vita semplice, di praticare la virtù e di astenermi dal male.
Prometto di avere modi gentili e una buona condotta, di non condurre una vita pigra.
Prometto di dedicare almeno due ore al giorno all’impegno sociale».
Questo esercito volontario e gratuito cominciò con 500 reclute: la divisa era una camicia rossa, le funzioni erano aprire scuole, sostenere progetti di lavoro, mantenere l’ordine nelle assemblee, sviluppare l’autogoverno della società. Marciando sulle montagne cantavano il loro inno: «Siamo l’esercito di Dio, / non ci importano morte o ricchezza, / marciamo, noi e il nostro capo, / pronti a morire. / Noi serviamo ed amiamo / il nostro popolo e la nostra causa. / La libertà è il nostro scopo, / le nostre vite il prezzo da pagare» (pag. 132).
Badshah Khan diceva a questi “soldati”: «Vi sto fornendo un’arma a cui la polizia e l’esercito non potranno resistere. E’ l’arma del Profeta: la pazienza e la giustizia sono quest’arma. Nessun potere sulla terra può resisterle». Egli sviluppava così la sabr, la pazienza, che nel Corano è la virtù centrale nella “guerra santa” fra il bene e il male che ogni persona ha da combattere nel proprio cuore, facendone la virtù del nonviolento forte. Così sabr, insieme a unf, è il termine che significa nonviolenza in arabo.
Come i coloni americani nel luglio 1776 a Philadelphia, così a Lahore il 31 dicembre 1929 cinquemila delegati del Congresso (e il giorno dopo con assemblee di massa in tutta l’India) dichiaravano se stessi e tutti gli indiani uomini e donne liberi, da quel momento e per sempre. Ma aggiungevano: «La strada più efficace per ottenere la libertà non passa per la violenza… Se riusciamo a ritirare la nostra collaborazione volontaria con il governo inglese, e siamo disposti alla disobbedienza civile, compreso il rifiuto di pagare le tasse, senza compiere violenze neanche se provocati, la fine di questo dominio disumano è certa».
Nel marzo 1930, Gandhi, dopo averla annunciata al vicerè, guidava la “marcia del sale”, ribellione nonviolenta al monopolio inglese su un bene prezioso come l’acqua nel clima tropicale. Centomila persone, compreso Gandhi, finirono in prigione. Nella regione della Frontiera la repressione fu più intensa e brutale, come documentò una commissione del Congresso. Badshah Khan, con il suo “esercito” di camicie rosse, intensificò l’azione di educazione e organizzazione nei villaggi, ma fu arrestato dagli inglesi e condannato a tre anni di carcere.
Manifestazioni nonviolente di persone disarmate furono investite da carri armati inglesi nel bazar di Kissa Khani, con quasi trecento morti e altri feriti, colpiti a sangue freddo tra la folla che rimaneva ferma di fronte agli spari dei soldati. Il massacro (simile a quello di Amritsar del 1919) è documentato nei giornali anglo-indiani del tempo e negli studi di Gene Sharp. Ma tiratori scelti garhwali si rifiutarono di sparare sulla folla: «Noi non spareremo sui nostri fratelli disarmati». Solo alcune tribù delle montagne, tra le quali fu sempre impedito a Badshah Khan di agire, compirono incursioni violente, mentre Khan era in carcere. Alcuni scrittori inglesi hanno usato questi fatti per screditare la nonviolenza di Khan. Ma, mentre le azioni violente furono sgominate dagli inglesi, il movimento nonviolento
cresceva.
Sconcertati dalla nonviolenza dei pathan, gli inglesi tentavano di spingerli alla reazione violenta, con provocazioni fisiche umilianti – nel villaggio stesso di Khan, Utmanzai – a cui i “servi di Dio” resistettero eroicamente.
La popolazione si aggregava a loro. La resistenza restava nonviolenta. Alla fine di settembre l’esercito nonviolento arrivò a contare ottantamila volontari, uomini e donne. Dopo l’accordo paritario, che disgustò Churchill, fra Gandhi e il vicerè (accordo che sancì la tregua) i pathan ottennero con la lotta nonviolenta la parità politica della loro regione col resto dell’India.
Khan, tornato nella Frontiera, era considerato un santo, era chiamato il Gandhi della Frontiera, ma reagiva: «Non aggiungete il nome di Gandhi al mio!». Neppure il titolo badshah gli piaceva: era servo del popolo, non re.
Cede la sua terra ai figli, diventando un fakir, un senza terra, senza diritto di voto nella jirga. Resta solo un riferimento spirituale. Gira instancabile per i villaggi, ad educare gli ignoranti, avversato dagli inglesi, dai mullah, dai khan ricchi che non vogliono riforme. Due volte rischia di essere ucciso. Percorreva fino a quaranta chilometri al giorno. Appena arrivato in un villaggio, puliva la moschea, stava con i poveri. Ripeteva: «Abbiamo due obiettivi: liberare il Paese; nutrire l’affamato e vestire l’ignudo». Insegnava l’igiene, la forza, il disinteresse. Ricordava alle donne la loro parità coranica con gli uomini.
Gli inglesi gli proibirono queste visite. Gandhi protestò, voleva visitare la Frontiera, ma gli fu impedito. Mandò il figlio Devadas, che constatò la forza e l’ispirazione di Khan. Il quale disobbedì al divieto e fu arrestato. Violando la tregua, tra fine del 1931 e inizio del 1932, gli inglesi occuparono Peshawar e arrestarono anche Gandhi. Un inglese collaboratore di Gandhi, Verrier Elwin, documenta la persecuzione contro le “camicie rosse”, nella Frontiera, con metodi feroci e 35.000 arresti, testimoniando l’attaccamento orgoglioso dei pathan alla nonviolenza. Anche senza la presenza di Badshah Khan, avevano ormai compreso che la nonviolenza funziona. Elwin documenta oggettivamente anche alcuni rari episodi di violenza, da parte di non appartenenti all’esercito nonviolento. Elwin fu arrestato ed espulso dalla provincia.
Intanto, Khan venne detenuto per tre anni senza processo, in isolamento, lontano dalla Frontiera, soffrendone nella salute. Rilasciato nel 1934, ma bandito dalla Frontiera, Khan accettò l’invito di Gandhi e andò a vivere a Wardha, il suo ashram nell’India centrale. Gandhi era concentrato nel suo “programma costruttivo”: dopo aver insegnato come combattere in modo nonviolento, ora il compito più arduo era insegnare a vivere in modo nonviolento. Affascinato da Khan, chiese al suo segretario, Mahadev Desai, di stenderne una biografia, con una sua prefazione. Desai scriveva di Khan: «La cosa più grande in lui è la sua spiritualità, il vero spirito dell’islam, la sottomissione a Dio».
Il fratello di Khan, Saheb, aveva una moglie inglese. Una volta Gandhi chiese se si era convertita all’Islam. Khan gli rispose: «Sarai sorpreso, ma non saprei dirti se è musulmana o cristiana. Per quanto ne so, non si è mai convertita, è assolutamente libera di seguire la sua fede. Un marito e una moglie dovrebbero poter seguire ciascuno la sua fede». Gandhi era d’accordo, ma osservo’ che la maggior parte dei musulmani non pensava così. Khan lo sapeva bene, ma disse che nessuno conosce il vero spirito dell’Islam, e che «tutte le fedi sono ispirate quanto basta a coloro che vi
aderiscono. Il Corano dice che in molti modi Dio manda messaggeri in tutte le nazioni» (pag. 174).
In seguito, Khan va a Calcutta, parla ai musulmani del Bengala, li invita a formare un movimento di combattenti nonviolenti e ad aiutare i villaggi poveri. Partecipa con Gandhi alla sessione annuale del Congresso, a Bombay, nell’ottobre ’34, durante la quale racconta agli indiani cristiani l’esperienza dei khudai khidmatgar, e parla al Club per l’unita’ delle donne. Accusato per frasi “sediziose” pronunciate a Bombay, nel suo racconto del massacro di Kissa Khani, in dicembre Khan viene di nuovo arrestato. Su consiglio di Gandhi, che non lo voleva in prigione, accettò a fatica di difendersi affermando che non intendeva usare espressioni sediziose, ma fu ugualmente condannato a due anni di carcere duro, in isolamento. Ne soffrì nuovamente nella salute. Rilasciato nel luglio ’36, tornò da Gandhi.
Nel gennaio ’37, nelle prime elezioni dei consigli legislativi, il fratello Saheb viene eletto primo ministro della Frontiera e revoca il bando inflitto a Khan, accolto nella sua terra da immenso affetto popolare. La lotta nonviolenta dei pathan aveva ottenuto un parziale autogoverno.
In ottobre Nehru visitò la Frontiera e nel ’38 lo stesso Gandhi finalmente accolto da folle composte, non sfrenate, nelle uniformi rosse.
Egli constata l’amore che lega Khan al suo popolo, al quale ha insegnato la forza vera. A Mardan un corpulento pathan dice a Gandhi: «Noi siamo ignoranti, siamo poveri, ma non ci manca niente, perchè tu ci hai insegnato la lezione della nonviolenza». Gandhi voleva studiare meglio l’esperienza dei khudai khidmatgar e tornò in ottobre ad incontrarli. Disse loro che non bastava la resistenza passiva se si fossero sentiti più deboli per il fatto di non usare le loro armi tradizionali, e che dovevano invece sentirsi più forti, altrimenti era meglio tornare alle armi. Ma «voi avete una forza spirituale tale da proteggere non solo l’Islam ma anche altre religioni».
«Rimuovere la violenza dal proprio cuore non è solo la capacità di controllo della collera, ma il completo sradicamento della collera. Realizzare la nonviolenza significa conoscere Dio, sentire in sé la sua forza. Chi ha rinunciato alla violenza dovrebbe pronunciare il nome di Dio a ogni respiro». Egli, disse Gandhi, lo faceva da vent’anni, anche nel sonno (pag. 190). Sappiamo che, quando fu ucciso, spirò invocando “He Ram”.
Gandhi girò tutta la regione insieme a Khan. Questi riconosceva che la collera dei pathan era solo repressa, ed era turbato dalla quantità di rivalità fra tribù e famiglie. Ora bisognava esercitare i volontari nel Programma costruttivo, la nonviolenza positiva: filare e tessere, l’igiene, l’educazione di base, l’indostano come lingua nazionale unificante.
1939, seconda guerra mondiale: l’India è coinvolta senza consenso. Il Congresso delibera che un’India libera e democratica sosterrebbe volentieri le altre nazioni libere contro l’aggressione, ma non senza un chiarimento, che però gli inglesi rinviano a dopo la guerra. Intanto, essi scavano divisione fra indiani indù e musulmani, per dominarli meglio. Il Congresso voleva l’indipendenza, la Lega musulmana lo status di dominion entro l’impero. Nel 1940 Alì Jinnah proponeva uno Stato musulmano. Richiesto di unirsi alla lotta, in quanto musulmano, contro il “dominio indù”, Badshah Khan rifiutò. Invitò la Lega a cacciare gli inglesi e poi vivere insieme, indù e musulmani, come avevano fatto per secoli. Quelli della Lega chiamarono Khan indu.
Davanti all’ipotesi di attacco esterno all’India, il Congresso si allontanò da Gandhi e dalla nonviolenza, ma Khan fu duro nel riaffermare il metodo di «servire Dio e l’umanità offrendo le proprie vite senza ucciderne alcuna». Intanto continua l’ addestramento attivo nel Programma costruttivo, avvia scuole femminili, cosa rara tra i musulmani. Racconta come da giovane aveva tendenze violente e, sull’insegnamento di Gandhi, abbia dovuto “rifare se stesso”. Simili trasformazioni, talora faticose, aveva indotto anche in altri, come nel fuorilegge omicida Murtaza Khan, che, scontata la condanna, era diventato un comandante dei khudai khidmatgar. Poi fini’ di nuovo in prigione, ma questa volta come “servo di Dio”, per la libertà della sua gente.
Nel luglio 1942 Gandhi rivolge agli inglesi una sola richiesta: «Quit India» (lasciate l’India). Viene arrestato. Khan e il fratello parlano contro lo sforzo bellico. Alla fine dell’anno sono in prigione 60.000 indiani. Con i leaders del Congresso in prigione, esplode la violenza in tutta l’India, ma non nella Frontiera.
Dopo la guerra, l’Inghilterra si avvia a riconoscere l’indipendenza, ma c’è contrasto fra Congresso e Lega musulmana, su chi dovrà avere il potere. Gravi violenze scoppiano fra indù e musulmani. Gandhi e Khan, addolorati, si recano nelle regioni più infuocate per pacificare gli animi con la preghiera e il digiuno per dimostrare la fratellanza reciproca. La violenza contagia ora anche la Frontiera, dove 10.000 khudai khidmatgar proteggono indù e sikh con la loro presenza disarmata. Il Congresso si rassegna alla richiesta della Lega di uno Stato musulmano separato.
Solo Khan e Gandhi si opposero, con ragione perchè la violenza segnò ancora l’agosto 1947, quando si incrociarono due migrazioni di quindici milioni di persone, con violenze che fecero 500.000 morti. Rimase una eredità di violenza e paura. Khan e i suoi soldati della nonviolenza resteranno in balia dei ministri musulmani, che da anni li ostacolavano.
Gandhi promette di andare in Pakistan, senza riconoscere la frontiera, a costo della vita. Di Khan dice: «La sua agonia interiore mi spezza il cuore».
Nel maggio ’47, Gandhi aveva tentato, parlando con tutti, di evitare la spartizione. Frena gli indù eccitati, difende la bontà dell’Islam distinguendola dai musulmani violenti. Prega con una preghiera tratta dal Corano. Khan è con lui, angosciato per il futuro. Si separano quando Gandhi parte per Calcutta, Khan per la Frontiera.
Il 15 agosto 1947 avveniva in pace e amicizia il passaggio delle consegne fra l’ultimo vicerè inglese, Lord Mountbatten, e il nuovo governo indipendente dell’India, guidato da Nehru. Gandhi e quanti lo seguirono avevano realizzato il prodigio storico di trattare gli avversari con rispetto, e anche amore, nel tempo stesso in cui rifiutavano caparbiamente il loro dominio. Avevano combattuto senza armi e avevano conquistato la libertà e la pace. Ma purtroppo non c’era la pace interna. Le violenze fra indù e musulmani spinsero Gandhi a un digiuno “fino alla morte” nel gennaio 1948: la paura degli indiani di perdere “Bapu”, il Mahatma, ottenne la cessazione dei massacri. Gandhi voleva andare a piedi in Pakistan, attraverso il Punjab, la regione che aveva visto le maggiori violenze. Ma fu ucciso, con una Beretta italiana, nel pomeriggio del 30 gennaio, da un fanatico indù.
Un referendum, nella Frontiera, doveva scegliere fra Pakistan e India. Badshah Khan, per evitare violenze e divisioni tra i villaggi per generazioni, consigliò ai khudai khidmatgar di astenersi, così la Frontiera andò al Pakistan. I khudai khidmatgar assicurarono la loro lealtà al nuovo Stato. Khan chiese un’autonomia per la regione dei pathan, ma per questo fu accusato di tradimento e condannato a tre anni di carcere duro, prolungati a sette, e poi subito di nuovo incarcerato. I khudai khidmatgar furono messi al bando e distrutte le loro sedi.
Ucciso Gandhi, incarcerato Khan: i due più grandi uomini di Dio di tutta l’India erano stati sacrificati in nome della religione. Khan, in un intervallo di libertà, fondò il primo partito socialdemocratico del Pakistan. Egli trascorse in carcere trent’anni, un terzo della sua vita, e sette in esilio, ospite politico del governo afghano, ma non cessò mai di sostenere i princìpi dell’amore e del servizio, senza rancore per nessuno.
Alla sera della sua vita si accingeva a ricostruire ciò per cui aveva vissuto e che aveva visto distruggere da dietro le sbarre della prigione.
Diceva che non cercava riposo in questa vita. «Si impara molto dalla scuola della sofferenza. Mi chiedo cosa sarebbe stato di me se avessi avuto una vita facile e non avessi avuto il privilegio di gustare le gioie della prigione e tutto ciò che essa significa» (pag. 231).
Easwaran paragona talvolta questi uomini a Francesco d’Assisi: come Francesco, alla fine della vita, vide vacillare e dissolversi ciò che aveva avviato spendendosi totalmente, movimento che però in seguito continuò a scuotere il genere umano, così è dell’opera di Gandhi (la cui alternativa nonviolenta risalta sempre più, a fronte dei fallimenti pazzeschi della politica violenta) così è anche di Badshah Khan, che va dimostrando la profonda consonanza dell’Islam vivo e in ripresa, con la nonviolenza. Ciò che Gandhi ha fatto nell’induismo e Martin Luther King nel cristianesimo, Abdul Ghaffar, Badshah Khan, sta facendo nell’Islam, lungo le linee profonde di cammino degli spiriti e della storia umana.
(*) Questo articolo di Enrico Peyretti è uscito sulla rivista «Azione nonviolenta» nel 2008.
Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili ma sinora sempre evitati) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo – postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.
Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 20 gennaio fra l’altro avevo ipotizzato: 1697: processo per stregheria a Caterina Ross; 1720: muore G. M. Lancisi; 1852: Cesena, massacro delle truppe papali; 1893: Caltavuturo, 13 morti; 1925: nasce Ernesto Cardenal; 1927: il fascismo riduce i salari delle donne; 1942: varata «soluzione finale» contro gli ebrei; 1948: nasce «l’età dello sviluppo»; 1973: ucciso Cabral; 2009: regolamento Clp per sostanze chimiche. E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.
Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”.
Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su www.radiazione.info.
Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… vi aggiorneremo. (db)
Ricordo di aver visto Badshah Khan una volta a nuova Delhi, probabilmente era intorno al 1965-66. Era venuto ad un incontro presso la sede del partito socialista. Ero un bambino e mi annoiavo, mi ricordo che mi avevano sgridato perché disturbavo. Mi ricordo il suo sorriso così gentile e la sua altezza, mi sembrava un gigante!
Grazie Daniele per aver riproposto questo articolo.