Scor-data: 25 settembre 2003
Come Amina si salvò dalla lapidazione
di Daniela Pia (*)
Amina Lawal Kurami oggi ha 41 anni: dei suoi quattro figli l´ultima è Wassila, nata nel 2001, e fu la causa del clamoroso processo che la vide condannata alla lapidazione per adulterio. Colpevole di aver concepito una figlia fuori dal matrimonio. Eppure quella condanna, oltre a violare i più elementari diritti umani, era incompatibile con la Costituzione nigeriana, con gli impegni internazionali per la difesa dei diritti umani firmati dalla Nigeria stessa e con la Carta africana dei diritti umani e dei popoli.
La sentenza fu emessa il 22 marzo 2002 dal tribunale di Bakori, nello Stato di Katsina, dove dall’inizio del 2000 era stata reintrodotta la “sharia”, un antico sistema normativo dichiarato incostituzionale dal governo nigeriano. Grazie alla mobilitazione internazionale Amina riuscì a evitare una fine assurda e terribile: morire lapidata, il che avrebbe significato agonizzare lentamente e fra mille sofferenze dopo essere stata sotterrata fino al collo in una grande buca e presa a sassate in testa. Piccoli sassi. In modo che le ferite fossero più dolorose e la pena più lunga. Amina fu capace di opporsi al suo destino di donna e provò a raccontare ai giudici del tribunale quella che pensava fosse la verità: che il padre di sua figlia era Sahyaya, un uomo che la corteggiava e con il quale aveva fatto l´amore. L’ uomo però, temendo di dover pagare la sua parte di “colpa”, quando fu convocato dai giudici negò di essere il padre della bimba affermando di non aver neppure sfiorato la donna. Il tribunale gli credette, lui lo giurò sul Corano, e questa fu condizione più che sufficiente ad applicare la Sharia. A quel punto i giudici suggerirono ad Amina di compiere una ulteriore “ricerca” sulla paternità, essendoci trenta giorni di tempo per fare appello. Lei capì così di avere sbagliato a raccontare la sua verità, l’ uomo mentiva e non si era assunto le sue responsabilità, era stato liberato subito e sulla parola mentre a lei restava l’ onere di raccogliere nuove prove e molti testimoni.
«Mi sono spaventata» raccontò: «ne ho parlato a casa, con mia madre e suo marito, visto che mio padre è morto. E loro mi hanno convinta ad andare dal marabou, la guida religiosa del nostro villaggio. Il marabou mi ha ascoltata, ha riunito i suoi consiglieri e tutti sono giunti a una conclusione precisa: la piccola Wassila era figlia del mio ex marito. Hanno fatto un calcolo e hanno visto che quando avevo scoperto di essere incinta mi ero lasciata con lui da soli tre mesi». Nonostante questi tentativi di ricostruzione della paternità di Wassila, la condanna di Amina fu ratificata, sino a quando la valanga di proteste internazionali non costrinse il tribunale di Bakori alla revoca della condanna per giungere all’assoluzione in via definitiva il 25 settembre 2003.
Per una donna che si salva, però, tante passano per lo stesso calvario senza che di loro ci giunga notizia, senza che possano evitare la barbarie. Per dar conto della dimensione di questo fenomeno, basti un dato, quello che riguarda il solo Kurdistan iracheno dove – dal 1991 al 2007 – 12.500 donne sono state assassinate per motivi di «onore» o si sono suicidate. Storie di solitudine e crudeltà nei loro confronti , storie di atrocità rimaste impunite. Come quelle che furono raccontate nel sito on-line della tv saudita al Arabiya dove si metteva in luce quanto accaduto nel settembre 2008 in Pakistan quando cinque donne furono sepolte vive dagli abitanti di un villaggio sperduto nella frazione di Jaafarabad nella provincia di Belugistan. Le notizie riportavano la denuncia di un deputato pachistano Sardar Asrarallah il quale sottolineava il fatto che «le donne accusate di avere leso all’onorabilità della tribù erano tre adolescenti fra i 16 e 18 anni che, sfidando le tradizioni vigenti, avevano espresso il desiderio di scegliere liberamente il compagno della loro vita». Ecco perché la storia di Amina assurge a simbolo di chi non può scegliere: storia di troppe donne che soggiacciono a leggi inumane e che vivono nel terrore di amare e concepire, nell’incubo di essere e rimanere umane.
(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo – postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.
Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 25 settembre avevo, fra l’altro, queste ipotesi: 1555: pace di Augusta; 1644: nasce Roemer; 1906: apre «la Mangiagalli»; 1964: in Mozambico inizia la lotta contro i portoghesi; 1967: ultima sparatoria Cavallero-Notarnicola; 1973: imprigionato Omar Venturelli [già in blog un anno fa]; 1979: ucciso Terranova; 2005: ucciso Federico Aldrovandi. E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.
Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it ) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”.
Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su http://www.radiazione.info .
Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… è un’impresa più complicata del previsto, vi aggiorneremo. (db)