Scor-data 31 ottobre 1892
Escono «Le avventure di Sherlock Holmes»
di Mauro Antonio Miglieruolo (*)
Colgo al volo l’occasione di una scor-data (31 ottobre 1892, data di pubblicazione di Le avventure di Sherlock Holmes) per, una tantum, condividere con gli amici del blog la contrarietà con la quale mi affliggo ogni volta che incontro uno scrittore di successo (o dovrei dire mi scontro?). Spero non si tratti di invidia, sospetto che di tanto in tanto mi si presenta alla mente.
Ma poi ripenso al rispetto, che spesso sconfina in una sorta di adorazione, per i grandi e grandissimi del Novecento (João Guimarães Rosa; Céline, Borges), e entro nella concretezza vera di ciò che quella contrarietà ispira: il timore che gli equivoci che nascono dall’incensamento di alcuni (con le centinaia di migliaia di copie, se non milioni, che le loro opere vantano) finisca per creare equivoci e diffidenze intorno a ciò che può essere definito “una buona lettura”; poiché accade spesso vengano definite tali, buone letture, proposte letterarie che in nessun caso possono essere ragionevolmente incluse nella categoria dei buoni libri. Non mi preoccupo a caso: il bassissimo livello di “consumo” di libri in Italia (pochissimi quelli che leggono anche un solo libro l’anno) è in funzione anche di questo equivoco (oltre che di dissennate decennali politiche editoriali): che si spaccia per ottima lettura ciò che al massimo costituisce un modo per perdere il proprio tempo, o al massimo ha valore contingente, assolutamente transitorio.
Per non produrre fraintendimenti: comprensibile che gli editori utilizzino determinati libri per pure considerazioni di bilancio; dissennato dare a intendere che sono editate per il loro valore intrinseco.
La verità è che quei libri sono dati (e osannati) oltretutto per inconfessabili ragioni ideologiche (1). Ma l’inganno, le riserve mentali, le furberie, considerate obbligatorie nella pubblicità e nel commercio, quando si tratti di cultura producono solo danni. E danni permanenti.
Tra i libri che ritengo siano frutto dell’interesse secondo degli editori (oltre a rappresentare un omaggio alla grande corrente “giudiziaria” dell’ideologia borghese: ne parlerò) mi pregio inserire quelli del “grande” Conan Doyle. Mi riferisco in particolare ai testi dedicati alle avventure del famoso investigatore Sherlock Holmes (gli unici dei quali ho qualche conoscenza); o per meglio dire, alla coppia di personaggi protagonista dei suoi libri, Holmes-Watson. Coppia inscindibile, poiché costituiscono la motivazione di un unico della narrazione: Holmes esiste in funzione della sua spalla, il dr. Watson; e Watson a sua volta in funzione del suo domino, Holmes. Come qualcuno visto in uno specchio, il quale specchio ripete l’immagine, ma rovesciandola, mostrando caratteri opposti l’uno all’altro.
Ecco quanto a proposito di Sherlock Wikipedia riporta:
Holmes incarna la perfezione assoluta immaginata dalla Regina Vittoria: è il suo perfetto suddito, impassibile, efficiente, silenzioso molto intelligente ma, quando serve, anche molto cordiale.
Incarnazione del modello della regina Vittoria, mi sta bene. Ma Holmes è molto di più (come lo sono i romanzi che ne descrivono le avventure). Holmes, a parte le caratteristiche “nuove”, superomistiche, con cui Doyle ne accentua i fascini, possiede i connotati ottimali per dare sostegno all’ideologia borghese, che è ideologia del diritto, dei diritti umani e diritti civili, di questa mascheratura e abbellimento della realtà della violenza continua e sproposita esercitata sulle masse; violenza che assume le più diverse forme, di cui la più comune è il ricatto tramite disoccupazione, strumento principe con cui la borghesia domina – ai fini dello sfruttamento – il proletariato. Non a caso la tendenza “piccolo borghese”, che si manifesta anche nei partiti a tendenza comunista, è di superare le contraddizioni interne alle organizzazioni non utilizzandole per la crescita complessiva dell’organizzazione medesima, ma giudicando e sanzionando (tramite sospensioni, espulsioni e isolamento). Non a caso, inoltre, i problemi sociali vengono sistematicamente tradotti in problemi di ordine pubblico e il trionfo dell’ipocrisia borghese è proprio nei Tribunali, nei quali più che in ogni altra sede vigono le norme non scritte della disuguaglianza, norme coperte da quella scritta sull’uguaglianza (solo formale) dei cittadini davanti alla legge.
L’essere esclusivamente formale dei concetti inerenti alla democrazia e al diritto, a cui i cittadini sono soggetti, produce una spropositata necessità di conoscere i meccanismi veri che determinano questa subordinazione: le segrete cose del modo di produzione capitalistico (necessità alla quale il capitale va incontro con i suoi cantori, le sue storie, i suoi idola). Essa è ispirata oltre che dalla curiosità, dalla necessità di comprenderne, sia pure semplificati, i meccanismi; nella segreta speranza che, conoscendoli, si possa arrivare a individuare eventuali vie di fuga. Naturalmente il prodotto cercato (il di più che si aggiunge alla lettura d’evasione), non è dato, non lo potrebbe, allo stato bruto, con la descrizione empirica dei dati (vi sono anche questi, una manualistica pressoché infinita), ma essi sono dati in pasto alle masse e dalle masse accettati nella forma di belle favole sulla giustizia che comunque finirà con il trionfare. Nella forma dell’evasione, mentre si instilla timore e soggezione per gli appariti repressivi che la “forma” si guarda bene dal nascondere. E sono dati in pasto attraverso l’instancabile ripetizione (proprio come avviene nella politica) dei luoghi comuni e delle fantasie (sull’uguaglianza e sulla giustizia), così tanto ripetuti da renderne la sostanziale falsità, parte del senso comune; al punto che non è solo possibile spacciarli, ma sono essi stessi elementi di attrazione, necessari perché vengano accettati e consumati.
Holmes dunque, oltre a essere antesignano di tutti gli investigatori che poi seguiranno, fino almeno all’avvento di più validi narratori della saga borghese Hammett e Chandler, questi ultimi validi anche in quanto scrittori, oltre che affabulatori apologeti critici dell’esistente (la restaurazione dell’ordine violato e il bene che finisce con il trionfare), è personaggio icona, eroe borghese a tutto tondo. Ne porta tutte le caratteristiche. È privo di dubbi sulla sua missione e cieco rispetto alle cause vere della violazione dell’ordine costituito: violazione che non è violazione, ma risposta disordinata, individuale, al disordine organizzato della società. È in queste sua modalità di esistenza che trae origine il suo successo, non dalle opere in sé. Perché Holmes è eroe domestico, sperimentato, le cui motivazioni sono facilmente assimilabili. Sono di tutti, l’eliminazione del pericolo, il suggerimento che la paura che ininterrottamente l’ideologia borghese alimenta, alimentando la precarietà universale, può essere acquietato, c’è chi è in grado di venire a capo d’ogni problema (l’Uomo della Provvidenza che è insisto in ogni politico al servizio della classe dominante). Lo fa certo trovando soluzione al problema dell’individuazione dell’assassino, ma il simbolo è trasparente: la “cerca” di Holmes costituisce un avallo della potentissima società borghese, che crea i problemi che poi si offre di risolvere (uguale a un pessimo romanziere di gialli), senza però rappresentare il resto, la creazione di più ampi e vasti problemi da risolvere.
Non siamo ancora con Conan Doyle nel tempo della crisi generale del sistema capitalistico, dell’apparire anche nei romanzi “popolari” del tema del marciume morale che inquina la società, marciume diffuso in modo particolare nei cedi medio-alti, ma leggendo in trasparenza ciò che l’autore neppure sospetta, si può già vedere la trama lisa di questa sistema, la povertà dei suoi eroi (un anticipo del cerebralismo del novecento), la caduta di ogni ideale nel buco nero dell’ideale giudiziario. Holmes, insomma, insieme al buonista e bonario Watson (riflesso maggiore, non minore di Conan Doyle), porta con sé il tranquillizzante messaggio che se la giustizia non funziona non è in quanto ingiusta, giustizia di classe, ma a causa delle carenze proprie agli attori che si muovono sul palcoscenico permanente (una recita in una commedia-tragedia infinita) degli apparati di repressione giuridico-polizieschi.
Il successo del libro, o meglio, del protagonista del libro, allora e quasi tutto da attribuire alla preziosa funzione svolta da quest’ultimo; che mentre viene incontro al desiderio di evasione e di consolazione delle masse, svolge il prezioso ruolo di propagandista del “naturale” assetto di potere (della “naturale” inciviltà) di cui il potere ha assoluto bisogno.
Il suo miracolismo comunque, anche mascherato da intelligenza, se copre gli intenti di fondo, tuttavia non è in grado di far scomparire la mediocrità della scrittura. L’inconsistenza delle stesse storie, degna della Settimana Enigmistica, che però è più degna perché sincera. I lettori però lo stesso vanno a lui e comprano i libri che ne parlano e quelli che ne imitano le avventure. Cosa di cui meravigliarsi, certo, come io mi meraviglio, ma fino a un certo punto. Fino a un certo punto conta la legnosità della prosa, la rozza rappresentazione dei coprotagonisti, l’antipatia stessa del personaggio. Quel che più conta è la soluzione tramite l’intelligenza. Con l’uso di esso Holmes assolve il capitale dalla responsabilità di ogni sua malefatta: è la carenza di intelligenza o, come insinuava Kennedy, il far poco per lo stato, all’origine di tanti problemi. Colpa dei burocrati, dei cattivi funzionari, dell’umana stupidità, del basso livello di “spirito civico” delle masse (quando mai si sono preoccupati di elevarlo?), mai del colpevole vero, il Capitale.
Io però sconti al Conan Doyle di Sherlock Holmes, nonostante l’intelligenza costruita ad hoc e sfacciatamente esibita, non intendo farli. E non perché il suo autore è un moderato, difensore acritico del governo inglese; ma perché mi sembra che continuare a diffondere tali noiosità (è sempre a fatica che sono riuscito a completare un suo testo; nessuno di essi ha lasciato in me un qualche ricordo significativo della vicenda) non possa che essere di danno per il prestigio della lettura. Nel mentre infatti che soddisfa determinate esigenze, spinge a mal considerare ciò che dovrebbe essere un libro: non un ragguaglio dell’ideologia corrente, ma esposizione della condizione umana. Non un mero gioco di prestigio intellettuale, ma un qualcosa che ti prende, ti affascina e come una droga ti fa desiderare di averne dell’altra (vedi certa fantascienza; o i già citati “giallisti” Hammett e Chandler; o, su un piano minore, il nostro Scerbanenco).
Oltre che naturalmente e prima tutto forma. Cioè stile, leggibilità, struttura.
Elenco, per concludere, i titoli dei racconti presenti nella raccolta, la prima opera che presenta il nome di Sherlock Holmes nella titolazione:
- Uno scandalo in Boemia
- La Lega dei Capelli Rossi
- Un caso di identità
- Il mistero di Boscombe Valley
- I cinque semi d’arancio
- L’uomo dal labbro spaccato (noto anche come L’uomo dal labbro storto)
- L’avventura del carbonchio azzurro
- L’avventura della fascia maculata
- L’avventura del pollice dell’ingegnere
- L’avventura del nobile scapolo
- L’avventura del diadema di berilli
- L’avventura dei Faggi Rossi
(1) Colgo l’occasione per stabilire una linea di demarcazione tra buoni criteri di selezione dei libri e criteri disutili. Non è legittimo ad esempio, ed è invece fuorviante e sbagliato, fondare distinzioni tra capolavoro e libro di consumo, tra opera d’arte e opera popolare, distinzioni quasi impossibili da rendere universali, e pure pericolose; perché tra questi libri ve ne sono di quelli che il lettore ordinario considera stucchevoli. E d’altra parte come stabilire un limite che occorre oltrepassare (diciamo, la quantità discreta di capolavorismo immanente in un libro) per essere ammessi nel gotha della grande scrittura? Su tali distinzioni può esercitarsi la critica, quando la critica produce cultura; non un bibliotecario, un editore, o un giornalista chiamato a rendere conto di una novità editoriale. Oppure ancora un intellettuale che svolga la medesima funzione. I testi (e gli autori) il cui valore è quasi universalmente ammesso sono molto rari. La soggettività ha un ruolo nella lettura che non è possibile ignorare. Non è questione di leggere poco o tanto. Io stesso che sono un forte lettore, un lettore compulsivo, di quelli che occorre si reprimano per non gettare un’occhio indiscreto nella scollatura di un quotidiano tenuto bene aperto da una persona seduta vicino, quantunque quel quotidiano abbia pure letto! io stesso dunque soffro nella lettura di autori (Mann ad esempio) ai quali mi è oneroso avvicinarmi; autori che altri però, stimate persone di mia conoscenza, portano in palmo di mano.
(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia, pochi minuti dopo – di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.
Molti i temi possibili. Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”. (db)
Questa anomala «scor-data«» (ma quasi tutte le «scordate» un po’ anomale sono?) farà arrabbiare molti holmesiani.
C’è un punto sul quale però l’incalzante argomentare di Mam (Mauro Antonio Miglieruolo) mi lascia in dubbio.
Scrive infatti Mam: «… Hammett e Chandler, questi ultimi validi anche in quanto scrittori, oltre che affabulatori apologeti critici dell’esistente (la restaurazione dell’ordine violato e il bene che finisce con il trionfare)…». La lunga frase – ah le subordinate – e l’apparente ossimoro (apolegeti critici) può far sospettare che Hammett e Chandler siano più apologeti che critici, in qualche modo anche loro più o meno consci fans dell’ordine violato e dunque del “bene” come lo concepisce chi comanda. Non credo che Mam intendesse questo ma gliene chiedo conferma perchè io invece sono convinto che i due – ognuno a sua modo (e Hammett è molto spesso marxiano) evidentemente – raccontino un’altra “arte del delitto”, un ben altro “raccolto di sangue” dove i rapporti di potere sono spesso palesi e non celati dall’investigatore, sia esso spremitore delle sue meningi o fracassatore di altrui teste. (db)
Felice della richiesta di chiarimenti mi affretto a fornirli. Apologeti critici: critici perché lo sono, perché chiunque li legge è in grado di stabilire la differenza tra il taglio dei racconti di Hammett e Chandler rispetto a quelli della stragrande maggiornza degli scrittori di gialli (critici: termine limitativo; perché i loro lavori vanno oltre la semplice critica dell’esistente, in quanto, accedendo al letterario partendo dal genere, compiono l’impresa straodinaria di restare nel genere, pur trascendendolo. Operazione che solo i grandi possono fare).
Apologeti invece è termine sbagliato (sbagliato nel contesto) in quanto può far pensare, come noti, che il termine sia riferito ai due. Il termine invece faceva riferimento alla funzione complessiva del “giallo”, funzione opposta a quella svolta dalla fantascienza. Funzione svolta NONOSTANTE Hammett e Chandler.
Per meglio comprenderci: la fantascienza ha di suo che lancia un occhio critico sulla società, che risulta difficile – non impossibile – piagare a intenti celebrativi. Il giallo ha invece una vocazione intimamente celebrativa – direi costituzionale – che è problematico utilizzare a fini di disvelamento dei meccanismi di oppressione e di denuncia delle storture del sistema. Lo si può fare, gli scrittori bravi possono riuscirvi in maniera efficace, ma qualcosa della spudorata commedia del diritto borghese resta comunque appiccicata all’autore che se ne occupa. Resta la rappresentazione dell’onnipotenza dell’apparato repressivo, l’intimidazione implicita in esso, più il problema in sé della presenza del delitto, trattabile e trattato come “caso giudiziario”, quale problema inerente il diritto; mentre invece è solo il segno della malattia sociale, che abbisogna di medicine sociali. Curata la società il delitto non scompare, ma diventa tutt’altra cosa. Non violazione dell’ordine esistente o emergenza oscura del male, ma problema etico e di assistenza al soggetto che ne è protagonista: problema di tutti, non di quell’uno. Il colpevole.