Scor-data: 5 maggio 1818
Nasce Karl Marx
di Mauro Antonio Miglieruolo (*)
Scrivere questa scor-data per celebrare la nascita di Karl Marx (5 maggio 1818, Treviri, in Germania)? No, grazie: per celebrare la nascita della Scienza della Storia, se mai…
Anticipo subito che questa artificiosa contrapposizione che mi sono concesso non è data per sottrarmi alla scia di tutti coloro che mi hanno preceduto, per fare l’originale, ma per meglio onorare Marx adoperando, nel celebrare la ricorrenza, su di lui i concetti da lui stesso elaborati per arrivare a definire il punto di approdo a cui gli stessi ci hanno portato.
Inizio ricordando che ciò che noi definiamo (o definivamo) marxismo, è un metodo di analisi che, a causa del sovrapporsi di infiniti altri apporti e dell’iniziativa rivoluzionaria di milioni di uomini, è diventato qualcosa che merita un nome diverso e più consono al suo statuto; una cosa in cui certo Marx potrebbe riconoscersi, riconoscendo che è sua ma non più completamente sua, essendo ormai patrimonio del Movimento Operaio nel suo insieme.
È però vero che a Marx spetta la primogenitura. È lui il padre che ha dato avvio alla ricerca teorica e ai grandi movimenti sociali che dai frutti di quella ricerca sono conseguiti. Ed è sempre a causa sua, per la sua voce che si è levata alta e forte, tanto chiara da coprire tutte le altre, che noi continuiamo a definire “marxismo” quello che “marxismo” non è più; e che forse non lo era sin dall’inizio. Se infatti guardiamo bene “nelle carte”, cioè nei documenti storici, non possiamo fare a meno di notare che ciò che attribuiamo con esclusività a Marx, era già andato sviluppandosi embrionalmente all’interno della classe operaia per mezzo di un certo Dietzgen. Il che ci costringe a formulare una prima fondamentale constatazione: essere stato il “marxismo” una necessità storica che comunque si sarebbe concretizzata, anche senza Marx, sia pure con tempi e modalità differenti, probabilmente meno favorevoli da quelle che poi si sono effettivamente prodotte.
Dobbiamo allora imparare a vedere Marx stesso come una necessità storica, catalizzatore di altre necessità, che di uomo in uomo, intellettuale in intellettuale, dirigente rivoluzionario in dirigente rivoluzionario, sono giunte fino a noi, fino a ciò che, in un secolo di rivoluzioni, è diventato Scienza della Storia.
Celebrare Marx dunque sì, mi muovo in questo specifico senso. Mi ci muovo in quanto questo che è solo un “ebreo tedesco”, è anche una delle pietre miliari del lungo fluire della storia umana, persona più che degna di essere celebrata; ma celebrarlo senza pagare lo scotto di inquinarne in nessuna delle sue parti il grande messaggio che ha lasciato in eredità; un messaggio che non ignora il ruolo delle individualità nei processi di trasformazione sociale, ma neppure esita nell’individuarne i limiti (a differenza dell’ideologia borghese, che questi limiti tende a cancellare). Non sono gli uomini che fanno la storia, ma le lotte tra le classi (che si pongono alla guida delle masse indifferenziate). Non l’individuo ma gli agglomerati sociali, che si muovono condizionati dallo sviluppo, o dal ristagno, dei rapporti di produzione, i quali rapporti di produzione sono stati a tutt’oggi (Unione Sovietica inclusa) rapporti di sfruttamento, d’oppressione e d’alienazione.
Né lo si può celebrare a costo dell’impoverimento della complessità storica. All’interno della quale non basta la sottrazione di un solo elemento, per quanto importante, per alterarne il corso (come al contrario viene spesso ipotizzato in tanta letteratura di fantascienza): non certo almeno per quanto attiene ai suoi movimenti fondamentali, movimenti che in ultima analisi dipendono da disfunzioni nella totalità sociale, le quali modificano in un senso o nell’altro le scelte di milioni e miliardi di esseri umani.
Una volta però che siano stati fatti salvi questi principi, non è per noi irrilevante la circostanza che i nostri destini teorici siano stati presi nelle mani di un uomo come Marx, che lui sia nato e abbia elaborato quella sua gigantesca costruzione intellettuale che fin qui abbiamo definito “marxismo” ma che già oggi non è più totalmente sua, in quanto si avvale degli apporti di uomini del calibro di Lucacks, Gramsci, Althusser, Bettlheim, Mao, Lenin ecc.; apporti tali da rendere doveroso utilizzare un nome nuovo in grado di alludere al cammino percorso e al suo attuale punto di approdo. E dunque la definizione alla quale ho accennato: “Scienza della Storia”. Quella che in effetti che le è più propria. In quanto il “marxismo” è storia ed è scienza: è scienza in quanto rifiuta di essere generica storia di uomini, teoria generale dei comportamenti e decisioni umane, per diventare storia delle successione dei modi di produzione, avendo indicato le specifiche leggi che queste successioni governano; ed è storia (diventa prassi) in quanto permette di dare avvio alla particolare storia sul modo da tenere per realizzare il passaggio dal capitalismo al comunismo. Con le conseguenze che possiamo leggere nei grandi avvenimenti che hanno caratterizzato il Novecento.
E non è neppure irrilevante che “comunque è andato in questo modo”, considerazione che piace molto agli hegeliani adoratori del reale che sarebbe sempre razionale, di coloro che la riproducono in politica per sostenere che le loro scelte sono le uniche possibili e ammissibili. A noi uomini dell’era della meccanica quantistica invece piace considerare che nel modo in cui è andata, è andata meglio di quanto invece diversamente sarebbe stato se non avessimo avuto la possibilità che invece abbiamo avuto (buon per noi) di, con un certo anticipo, merito dell’ingegno di Marx, prendere atto della reale natura della società in cui vivevamo e di utilizzare i buoni strumenti ricevuti per tentare di cambiarla; sapendo che, con l’atto stesso di tentare di cambiarla, fornivamo a noi stessi la possibilità di costringere, per mezzo di grandi lotte, i padroni a ripartire in modo meno ineguale la ricchezza sociale prodotta e della quale loro si impossessavano e continuano a impossessarsi (1).
A tal fine non è neppure indifferente, che lo specifico uomo del quale mi sono assunto la responsabilità di parlare, abbia dimostrato capacità particolari tali da poter essere considerato il primo ad avere iniziato a adoperare, allo stato pratico, concetti che è difficile non definire quantistici. Quali ad esempio il concetto (ripreso più tardi da Lenin) di “porsi dal punto di vista del proletariato”, per poter non solo concepire una scienza della storia, ma anche per poter estrarre da essa e praticare gli strumenti di lotta anticapitalistica che tenacemente offriva (vedi, nella meccanica quantistica, il punto di vista dell’Osservatore, che determina i risultati dell’esperimento); o il concetto di caduta tendenziale del saggio di profitto, che esprime, all’interno di determinati processi in atto, una possibilità non deterministicamente regolata o regolabile (sto facendo riferimento all’aspetto filosofico del concetto, non a quello economico, il cui approfondimento affido ad altri). Come non è indifferente che la storia abbia condensato personaggi del calibro di Marx e non altri; personaggi che con la loro audacia intellettuale, l’intraprendenza e il genio sono riusciti a imprimere svolte che se non alterano il corso generale della Storia, permette alle storie di milioni di esseri umani di avere un corso diverso da quello che avrebbero avuto senza quell’intervento.
Della sostanziale verità di questo assunto abbiamo la controprova nell’imprescindibilità del “discorso marxista” presso gli stessi intellettuali organici alla borghesia, nemici suoi (e nostri) mortali, ma costretti a continue prese d’atto dell’importanza di questo discorso: se non per accettarlo, per poterlo confutare. Con i miserabili e pur poderosi mezzi che offre loro il pensiero borghese, pensiero teso alla dissimulazione degli scopi, alla cancellazione della verità, alla falsificazione delle effettive pratiche sociali, essi non fanno altro che ripetere la medesima azione: la confutazione del marxismo, una confutazione lunga un secolo e mezzo, attraverso la quale perpetuare l’inganno in merito alla natura di classe dell’attuale sistema; e ai margini di manovra che la borghesia è disposta a concedere al suo antagonista di classe (2). Ma invano: Marx li ha smascherati una volta per tutte. Dipenderà dalle lotte di masse se la caduta di questa maschera sarà sostituita da altra equivalente o se i cantori delle delizie della borghesia non avranno più voce in capitolo.
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Per meglio illustrare e onorare il grande Marx occorre però andare di là dal ruolo scientifico svolto e mettere in evidenza l’uomo. Del quale conosciamo i limiti, non il movente che lo spinge a diventare quel che è diventato. Del movimento fondamentale che fa di Marx il capostipite di tutti i dirigenti della rivoluzione mondiale sappiamo poco e quel poco imperfettamente. Su determinati aspetti della sua attività e umane ragioni, filosofi e politici che si sono cimentati nell’impresa di comprenderlo, e magari portarlo avanti, erano e sono a tutt’oggi troppo presi dai problemi relativi alla lotta di classe, a quell’incessante lotta di classe che il capitale non smette mai di promuovere contro il lavoro e che produce nei “marxisti” difficoltà a mantenere le posizioni teoriche acquisite, per dargli il rilievo necessario e opportuno. Non protendo, nel mio piccolo, di farlo io ora, di dare conto dell’uomo Marx; posso però soffermarmi sulla motivazione fondamentale(almeno su quella) che lo ha spinto in direzione di se stesso.
Partiamo da una domanda (una domanda chiave). Perché Marx, al termine della grande sollevazione europea del 1848-49, opera la scelta apparentemente contraddittoria (o rinunciataria, come a qualcuno potrebbe sembrare) di interrompere ogni attività politica per dedicarsi a una meramente intellettuale, da topo di biblioteca: studiare lo scibile umano dei suoi tempi?
Non si tratta di una decisione di corto respiro. È una decisione che “dura a lungo”: un intero decennio. Nel corso del quale svolge un lavoro di acquisizione critica che produrrà i concetti fondamentali all’opera nel Capitale (la sua più conosciuta) e della quale solo il primo libro verrà dato alle stampe. Da quel momento riprende alacremente l’attività quasi del tutto interrotta e fonda giornali, associazioni operaie (la Prima e la Seconda Internazionale), si impegna nell’agone politico come giornalista ecc. manifestando una energia e una determinazione ammirevole.
C’è da chiedersi allora, spingendo avanti il nostro interrogativo, come abbia potuto un uomo pieno di cotanto fervore, rallentare così tanto la sua attività di rivoluzionario, e per così tanti anni!
Marx ha avuto la possibilità di conoscere da vicino gli operai dei quali si occupa. Li ha avuto al fianco sulle barricate. Ha avuto prove innumerevoli delle qualità: coraggio, solidarietà, intelligenza politica, fedeltà alla causa ed infiniti episodi di generosità e fratellanza. Eppure quegli stessi uomini, non può fingere di non vedere, sono spesso portatori, nella vita quotidiana, di brutture che non è facile spiegarsi. Essi combattono per rovesciare Re e Imperatori (per dare un nuovo corso ai destini del mondo), e nello stesso tempo opprimono i loro simili, picchiano le mogli, sono servili nei confronti del dispotismo padronale, si ubriacano, mostrano nell’anima insomma (e anche nel corpo) tutti i segni di una profonda degradazione. L’anelito alla dignità e alla libertà è accompagnato della sottomissione e della disperazione.
Come ha potuto questa umanità, si chiede Marx, che ha saputo affrontare la morte sulle barricate, ridursi a quell’infima condizione? Un’umanità che se sollecitata può dimostrarsi migliore del più decoroso borghese, ma che accetta di vivere nella più vile delle condizioni (3).
Dopo dieci anni di lavoro arriva la risposta: quegli uomini non sono altro che ciò che di loro si è voluto fare; uomini assoggettati con varie forme di violenza, inclusa l’ideologia (l’ideologia è anch’essa una forma di violenza: di sopraffazione); uomini vittime di strutture che funzionano a “degrado” così come le automobili funzionano a “benzina”.
È l’approdo finale dell’umanità alla società borghese che determina la natura degli uomini che ha osservato. Una società, quella borghese, che si dice libera ed egualitaria, ma nella quale alcuni uomini (i privilegiati), dominano gli altri; e gli altri (gli svantaggiati) che sono costretti a immolare le loro vite sull’altare delle esigenze dell’accumulazione. Alla guerra permanente di classe condotta dai padroni (coloro che svolgono le funzioni del capitale, soldati della guerra del Capitale contro il Lavoro), per salvarsi i proletari non hanno che una unica via: rispondere con una analoga guerra, che inizialmente sarà di difesa, ma che dovrà necessariamente sfociare nell’assunzione di responsabilità che comporta la costruzione di un nuovo stato di cose: una società effettiva di uguali, una società in cui non esistono sfruttati perché non esistono sfruttatori. Compiendo in questo modo una sorta di miracolo, cioè un insospettato che pur sempre presente nei valori del movimento operaio ha bisogno di essere periodicamente ricordato: che per liberare se stesso occorre che i lavoratori liberino l’intera umanità.
La classe operaia, in buona sostanza, vista in un’altra angolatura, vive questa contraddizione formidabile: che non può liberare se stessa se non libera anche coloro che la sfruttano e la opprimono, coloro che per sottrargli l’umanità, hanno costruito un sistema che la nega anche a loro stessi. I proletari dunque devono aprire, con un medesimo processo, uguali possibilità d’emancipazione a tutti gli uomini, anche a coloro che nel tempo presente appaiono e sono escrescenze parassitarie dannose, delle quali è urgente liberarsi.
Compito immane, difficile persino da concepire e che infatti non tutti, dentro il movimento operaio concepiscono. Era anche per affermare questo che Mao, contro i metodi adottati in Russia, soleva ripetere, una testa tagliata è una testa che non può essere cambiata. Ed è anche per questo che occorre ribadire che “odio di classe” non è un sentimento, non un incitamento alla vendetta (il Movimento Operaio non conosce vendette, conosce giustizia e libertà), ma consapevolezza del ruolo nocivo svolto dai capitalisti, che costituiscono l’ultima barriera storica che si oppone all’affrancamento del proletariato, come preludio alla redenzione umana.
Compito imprescindibile, il sogno di sempre, vagheggiato per millenni, da quando alla fine della preistoria si è iniziato a frantumare l’antica unità comunitaria, mai più ricostituita. Se non per piccoli tentativi (piccoli fino a Marx e al Capitalismo), tutti inevitabilmente falliti che lasciavano di sé solo piccole cicatrici sulla superficie della storia. Compito pericoloso, anche. Della cui natura (stragi immense) per altro i proletari sono consapevoli. Tant’è che ancora oggi, dopo la millesima dimostrazione che il capitale non è in grado di risolvere nessuno dei problemi che lui stesso crea, continuano a tergiversare, a temporeggiare, a cercare ogni pur impossibile via diversa per arrivare al proprio riscatto; perseverando anche in quella perversa di confidare nelle istituzioni che li opprimono quale mezzo per liberarsi dalla neo servitù apparecchiata per loro.
Prima o poi però (speriamo prima, che sia cioè nel tempo breve delle nostre vite), dovranno risolversi ad assumere la responsabilità del proprio destino: ad assumerla in prima persona per sé e per interposta persona per l’umanità tutta. Altrimenti, Marx è chiaro su questo, sarà la barbarie. Quell’avanzare della barbarie a cui quotidianamente assistiamo. E più decenni la palingenesi tarderà ad arrivare, più evidenti saranno i segni di questa barbarie.
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Domani, 194esimo anniversario della nascita di Marx, potremo fare insieme un bilancio. Spero avverrà per mezzo dei commenti che vorrete lasciare.
Il mio, che inizio subito, è molto poco confortante. Riflettendo su ciò che è seguito alla caduta del Muro di Berlino, evento epocale che ha scosso tutti e per il quale molti cuori si sono aperti alla gioia, vedo ciò che ne è conseguito: l’orgia di guerre, di stragi, pulizie etniche promosse dal capitale per celebrare il suo trionfo. Insieme all’aumento iperbolico dello sfruttamento, con la povertà che torna a campeggiare anche nei paesi che pareva l’avessero definitivamente accantonata. Vedo il moltiplicarsi delle ingiustizie sociali, la barbarie paventata da Marx essere alle porte. E mi chiedo: possiamo permetterci di aspettare ancora? Di alimentarci ulteriormente di rinvii e di vane speranze?
E se sì, quanto altro ancora?
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(1) che sia vero, tristemente vero, lo verifichiamo in negativo in questo periodo di offuscamento del messaggio marxista, in particolare l’offuscamento dell’idea di cambiamento. Le conseguenze immediate di questo offuscamento sono l’accentuarsi delle ineguaglianze, la perdita dei diritti acquisiti con grandi sacrifici, il restringersi degli spazi di democrazia, l’esclusione della classe operaia, per mezzo di numerosi artifici, dalla possibilità di esercitare una qualche influenza sulle decisioni dei governi, governi sempre più emanazione dei settori finanziari del padronato, e senza più seri tentativi di ricerca dell’avallo popolare!
(2) ) Assillati da una sorta di segreto rimorso non possono fare altro che o nominarlo per contestarne la validità; o per prendere a prestito questo o quel concetto e, dopo averlo ripulito per bene da possibili scorie rivoluzionarie, utilizzarlo CONTRO la struttura concettuale per la quale era stato concepito.
Marx ha sempre dominato il rimosso degli intellettuali non organici al proletariato. Non a caso tra di essi ha avuto grande successo sia la caricatura di comunismo che dagli anni Trenta in poi è diventato l’esperimento Sovietico; sia la caricatura della caricatura costituita da ciò che a puro fine di propaganda, i media definivano “comunismo reale”. Cioè quella sorta di comunismo irreale, che ha svolto il ruolo di punta di diamante dell’anticomunismo più reazionario.
Questo è solo un piccolo esempio di come questi signori si servivano dei termini del materialismo storico per neutralizzare il materialismo storico; come ancora oggi si servono di Marx per tentare di neutralizzare Marx.
(3) Come si vede la gigantesca impresa intellettuale di Marx ha origine non da un bisogno dell’intelletto (bisogno di conoscere e sceverare), ma da un moto del cuore. Leggendo Marx e i marxisti, non dovremmo mai dimenticare questa constatazione: che il marxismo è nato per l’uomo e non l’uomo per un partito (più o meno marxista).
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(*) Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili ma sinora sempre evitati) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo – postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.
Molti i temi possibili. Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”.
Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su www.radiazione.info.
Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… vi aggiorneremo. (db)
Insomma, Miglieruolo, ha decretato la fine del marxismo e la nascita della scienza della storia. Verra’ ascoltato?
Grazie fancescocecchini, mi fai troppo onore. Temo per altro che tu sia l’unico che mi segue con costanza su questo blog. Grazie anche di questo, del tempo che mi dedichi. Ma non è me che bisogna ascoltare, bensì leggere nella produzione teorica degli ultimi 50-60 anni. Di Scienza della Storia infatti si parlava già nel pieno della rivoluzione del ’68. La quale Scienza della Storia non decreta la fine del marxismo ma il suo inveramento in qualcosa che non solo il marxismo comprende, ma che ne è la base costitutiva, l’humus intellettuale. Con in più la riflessione sul fatto che 150 anni non sono passati invano; e che il marximo non è un oggetto così fragile che debba essere custodito sotto una campana di vetro.
Di più: il marxismo è tale che gli stessi concetti che enuncia applica a se stesso, esige di essere letto criticamente, in modo da poter distinguere tra ciò che in esso è contingente e ciò che è permanente. Succede di frequente nella storia. Che un fondatore poi sia inverato da una sintesi più larga in grado di realizzarne i fini ultimi. La teoria della gravitazione universale non nega l’opera di Galileo che anzi ne costiuisce la premessa necessaria, ma la realizza e completa.
Il rispetto che dobbiamo a Marx non deve farci dimenticare il dovere che abbiamo di portare avanti il suo lavoro. Marx non farebbe meno di quel che altri pensatori hanno fatto: avrebbe preso questo lavoro, lo avrebbe riletto, espunto le parti che riteneva superate, ripulito da un po’ di “metafisica influente” e ammesso francamente: su questo punto avevo visto giusto su quest’altro invece sono stato influenzato dall’ideologia corrente ai miei tempi.
Basti pensare all’introduzione alla critica dell’economia politica, nel quale fissava la famosa successione (storicista) dei modi di produzione, uno schemino che la ricerca ha dimostrato errato e del quale ci siamo innamorati tutti (io incluso).
Marx non è il vangelo, ma il fondatore di una scienza in formazione. Onoriamolo aiutandolo a realizzare il grande progetto di rivoluzionare il pensiero per rivoluzionare la società (Gramsci).