Scor-data: 7 febbraio 1986
A Dakar muore Cheikh Anta Diop, «l’onore di pensare»
di Pier Maria Mazzola (*)
Nel 1987, a un anno dalla scomparsa, a lui venne intitolata l’Università di Dakar. Un riconoscimento alla sua statura di scienziato che non è stato sempre riconosciuto nel corso di un’esistenza che oggi ci pare troppo breve – 63 anni – per il patrimonio di conoscenze, ricerche e attività anche politiche da lui messe in campo.
Se oggi non ci sorprendiamo troppo all’udire che la civiltà egizia fu prettamente negro-africana, lo dobbiamo anche e soprattutto a lui. Una teoria che si scontrò a lungo con l’intellighenzia dell’egittologia tradizionale, per la quale fatta salva la “dinastia nera” – la XXV (750-656 a. C.) – l’Egitto era sostanzialmente “bianco”. Quando, nel 1951, il ventottenne senegalese tenta di ottenere il dottorato all’Università di Parigi, la tesi gli viene rifiutata; ce la farà quasi dieci anni dopo. Nel frattempo ha pubblicato (è il 1954) i due tomi di «Nations nègres et culture» (mai usciti in italiano) che accendono il dibattito. Bisognerà aspettare il 1974 per vedere la sua tesi sostanzialmente accettata dalla comunità scientifica.
Mi concedo un flash autobiografico. Era il 1980, sei anni dopo quel convegno scientifico dell’Unesco al Cairo che “promosse” il nostro Diop: padre Alex Zanotelli, direttore del mensile «Nigrizia», era da poco rientrato da un viaggio in Africa quando mi affidò la traduzione e cura della sua intervista a Cheikh Anta Diop. Fu il mio primo compito di redattore di primo pelo e… la prima volta non si dimentica mai. Ricordo anche di qualche missionario, esperto di cose africane e in particolare di quella regione in riva al Nilo, che storse il naso davanti al titolo (e non solo quello) troppo apodittico: «I faraoni sono neri».
Non sto a ripercorrere la biografia di Cheikh Anta Diop; internet offre senz’altro molte informazioni, ma sono ancora decisamente rare le pagine in italiano a lui dedicate (anche quella di Wikipedia avrebbe forse bisogno di una revisione, e almeno integrata almeno quanto a impegno politico e bibliografia). Mi limito a sottolineare il suo sapere mirandolesco – era fisico e chimico (suo il primo laboratorio di datazione al carbonio 14 in Africa e sua la traduzione della «Teoria della relatività di Einstein» in wolof) oltreché antropologo, linguista, storiografo… – e a sottolineare l’intenzione “politica” della sua opera.
A padre Alex che gli chiedeva a che pro tanto affaticarsi sul passato (sottinteso: con tutte le problematiche del pane quotidiano che l’Africa deve affrontare), rispondeva: «Non si tratta di dilettarci nel passato per dimenticare le prove che subiamo nel presente». Quello che conta, per un popolo, è «ritrovare la sua creatività. Questo non può esistere senza il recupero di se stessi, senza la riconciliazione cioè della civiltà africana attuale con il suo passato. Ciò permetterà agli africani di aver fiducia in se stessi e di apportare quindi un maggior contributo all’umanità».
Tale era il suo impegno per il presente e l’avvenire che Cheikh Anta Diop si diede anche all’attività politica vera e propria. Fu un aperto oppositore, con la creazione di due successivi partiti, di Léopold Sédar Senghor, il presidente del Senegal (che era pur sempre il vate della «negritudine»). Ma Cheikh Anta Diop aveva una visione più radicale della dignità del suo continente, della sua vocazione federalista panafricanista e del suo ruolo nel mondo. Non per nulla viene spesso preso a vessillo dagli “afrocentristi” americani.
Le circostanze mi hanno portato di nuovo, a trent’anni da quell’intervista, a occuparmi di Cheikh Anta Diop. Si è trattato, questa volta, della traduzione di un libro1 su di lui (a mia conoscenza esiste solo un altro titolo in italiano)2. Ne è, anzi fu, autore un’altra grande mente africana, tendenzialmente enciclopedica come quella dello scienziato wolof. Infatti Jean-Marc Ela – scomparso nel 2008, prete e sociologo camerunese forse l’unico vero teologo della liberazione africano e al contempo studioso “laico” capace come pochi altri di valorizzare l’africanità – aveva dedicato a Cheikh Anta Diop un saggio militante, quasi un pamphlet, scritto pensando ai giovani africani. Un libro appassionato (ne ha scritto anche Daniele su questo blog) in cui – ricorrendo ad ampie mani a citazioni di Diop – Ela vuole (di)mostrare tutta l’attualità e la necessità del suo pensiero/azione per l’oggi (scriveva un quarto di secolo fa ma abbiamo la sensazione che molto rimanga di valido anche per il 2014 e anche per i non africani). Perché l’Africa non ha solo “bisogni”, soprattutto ha urgenza di recuperare un proprio pensiero (che la aiuterà, di riflesso, pure a risolvere i bisogni primari). Un pensiero di cui, peraltro, ha già fatto dono al mondo in altri eoni. «Siamo realisti» conclude Jean-Marc Ela parafrasando Cheikh Anta Diop (… e riferendosi anche a certi graffiti cancellati dai muri ma non dalle memorie): «è l’impossibile che accade. Quando l’Africa ritroverà la sua capacità di pensare, allora si rimetterà in piedi, libera e fiera».
Jean-Marc Ela, L’africa a testa alta di Cheikh Anta Diop, Emi, Bologna, 2012; titolo originale: Cheikh Anta Diop ou l’honneur de penser (L’Harmattan, Paris 1989).
Diagne Pathé, Cheikh Anta Diop e l’Africa nella storia del mondo, L’Harmattan Italia, Torino 2012.
(*) Trovate qui L’Africa rimossa cioè la mia recensione citata da Pier Maria Mazzola. Questa di oggi su Cheik Anta Diop è in un certo senso la «scor-data delle scor-date» perchè la rimozione che perdura sulle sue ricerche è di fatto la cancellazione (soprattutto a livello della cultura “media” e dell’immaginario diffuso) della storia africana e del contributo dell’Africa – delle molte Afriche bisognerebbe forse dire – alla civiltà comune. Ignoranza che in qualche misura alimenta l’afro-pessimismo da una parte e il razzismo dall’altra.
Ricordo – per chi si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili ma sinora sempre evitati) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo – postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”. Talvolta il tema è più leggero che ogni tanto sorridere non fa male, anzi.
Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 7 febbraio fra l’altro avevo ipotizzato: «il falò delle vanità» (1497) di Savonarola; il processo a Galileo; la morte di Dostoevski (1897); 1905: la nascita di Paul Nizan 81905) e quella di Helder Camara (1909); l’uscita del film «La dolce vita»; l’ arresto di Leonard Peltier (1976); l’uscita dell’album «The Wall» (1980)… E chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.
Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”.
Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su www.radiazione.info.
Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… vi aggiorneremo. (db)