Scor-date: dal 27 giugno al 1 luglio
27 giugno 1986
Dopo quasi 30 anni gli haitiani mettono fine alla dittatura della famiglia Duvalier e pochi giorni dopo le Filippine festeggiano la cacciata di Marcos. Il 1986 è un ottimo anno per chi combatte le dittature. Ma è anche un anno straordinario per chi denuncia uno strano incrocio che si potrebbe chiamare «democratura» (il termine è nato in America latina come «democradura») ovvero quella democrazia formale e limitata che somiglia alla dittatura pur se si svolgono elezioni (più o meno truccate).
A sostenere le «democradure» sono gli Stati Uniti che quando invece vedono un Paese votare “male” lo destabilizzano con l’arma dell’economia o con l’economia delle armi. Per esempio l’ex attore che divenne un presidente, Ronald Reagan, è ossessionato dal piccolo Nicaragua che resiste alle sue manovre.
Ma il 27 giugno 1986 un evento storico piomba sulla testa del falco Reagan: dopo due anni di indagini, la Corte internazionale di giustizia dell’Aja giudica gli Usa colpevoli di «uso illegale della forza» cioè di terrorismo ai danni del Nicaragua. Il verdetto sanziona che la guerra strisciante è condotta dagli Stati Uniti con metodi terroristici e che i Contras vengono finanziati e addestrati da Washington. In spregio all’autorità della Corte – e ovviamente sapendosi colpevoli – gli Usa avevano ritirato i loro avvocati all’Aja fin da 1985. Suhttp://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=nicaragua86potete leggere una ricostruzione molto interessante.
Curiosamente (o no?) è difficilissimo trovare traccia di questa sentenza nei libri di storia, nell’archivio (o nella memoria) dei giornalisti e persino in rete. Solo certi “discoli” – a esempio la trasmissione di Raitre «Report» – osano ricordare che ogni tanto, fra molti pesci piccoli, i tribunali internazionali hanno condannato anche il grande squalo.
28 giugno 1945
«Memorandum sui presunti “movimenti reazionari” nell’Italia del nord». Così si intitola un documento segreto, datato 28 giugno 1945, del Dipartimento di Stato Usa che venne pubblicato sul quotidiano «il manifesto» il 18 aprile 1974. Vale citarne qualche brano: «Rocco Piaggio, armatore e proprietario della fabbrica di sapone Mira Lanza e di grandi zuccherifici […] Durante l’incontro è stato deciso che il comunismo sarà combattuto: a) con una intensa campagna di propaganda che includa la condanna di leader comunisti e scrittori comunisti; b) con le armi […] Della distribuzione delle armi e dell’organizzazione di gruppi armati per la reazione è stato incaricato Zaniboni […] Rocco Piaggio ha versato 15 milioni dicendo che sotto il fascismo era schiavo al 50 per cento, sotto il comunismo diverrà schiavo al 100 per cento». Quando «il manifesto» scova questo documento un altro Piaggio (Andrea Maria) è incriminato per la «Rosa dei venti». All’ epoca non si sapeva che la «Rosa dei venti» era una filiazione di Gladio con di mezzo un tal Kossiga. I documenti segreti statunitensi che vengono regolarmente de-secretati e resi pubblici (grazie a una legge nota come Freedom Act) oggi danno un quadro ben più impressionante dei legami fra padroni italiani, servizi segreti di Usa e Inghilterra, vecchi fascisti che si stanno riarmando ma anche delle complicità con il piano Odessa (inventato, sul finire della guerra, dal colonnello tedesco Otto Skorzeny) per assicurare una via di fuga a uomini – e soldi – del nazismo sconfitto.
Quando nel 1975 pubblicai (con la Coines) «Agenda nera: 30 anni di neofascismo in Italia» non avevo la possibilità di consultare i documenti (ex) segreti dei servizi statunitensi eppure trovai molte conferme a stabili legami fra padroni e fascisti dall’immediato dopoguerra agli anni ’70. Anche l’ex partigiano (bianco) Enrico Mattei, leader dell’Eni, pensava che in nome dell’anti-comunismo tutto fosse lecito. Gli viene attribuita una frase chiarificante: «Mi servo anche dei fascisti, quando occorre, ma allo stesso modo in cui uso il tassì: finita la corsa, pago e scendo».
29 giugno
«A capo della donna è l’uomo» perchè «l’uomo è a gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna ma la donna dall’uomo; nè l’uomo fu creato per la donna ma la donna per l’uomo». E ancora: «l’uomo non deve coprirsi il capo (…) la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza». Per essere ancora più chiari: «le donne nelle assemblee tacciano», «stiano sottomesse», «se vogliono imparare qualcosa, interroghino a casa i loro mariti». Se state pensando a un imam siete fuori strada: sono citazioni di san Paolo, dagli «Atti degli apostoli» (se volete controllare:XI e XIV) che non è proprio un’opera minore per i cristiani.
Ignoranza, razzismo e strumentalizzazione politica attribuiscono oggi all’Islam un antico disprezzo per la donna mentre i cristiani rimuovono le loro fortissime radici anti-femministe. Così ebbe gioco facile una intellettuale araba (mi perdonerete se non ricordo il nome) qualche anno fa ad esordire, nelle sue conferenze nel Nord Italia, con le frasi suddette e altre simili sull’inferiorità e la sudditanza della donna raccogliendo applausi dalla parte più leghista del pubblico, certa che stava parlando dell’Islam. Salvo poi urlare alla «provocazione» quando la conferenziera svelò che le citazioni venivano del cristianissimo san Paolo.
Oggi lo si ricorda (assieme a Simon Pietro). Strana storia: non c’è alcunacertezza che i due apostoli sian morti contemporaneamente ma solo che il 29 giugno 258 le loro salme vennero trasportate nelle catacombe di San Sebastiano. Fondatori del cristianesimo senza dubbio: infatti la festa liturgica di Pietro e Paolo viene istituita addirittura prima del Natale.
Saulo (o Paolo) è un «pentito» o se preferite un convertito. Prima applaude all’uccisione dei cristiani. Poi, sulla famosa via di Damasco, vede «una luce accecante» – ed era storicamente troppo presto perchè si trattasse di qualche missile statunitense – così muta idea.
Sono irriverente? Beh, anche all’epoca questa conversione – ma pure il successivo fanatismo, speculare al precedente – risultò sospetto. Come ricorda Piergiorgio Odifreddi (in «Perchè non possiamo essere cristiani») «l’esperienza del soprannaturale è solo uno dei nomi della malattia mentale, così come non è necessario essere antichi per creder che nell’estasi gli squilibrati comunichino con Dio». Non entro nel merito di un giudizio storico su Saulo-Paulo ma ricordo che, per i suoi metodi spicci, Antonio Gramsci lo definì «il Lenin del cristianesimo».
Visto che oggi è il suo giorno voglio invece accennare (un po’ di corsa) all’intreccio di religioni e tradizioni popolari, con le ovvie forme di sincretismo, che resistono nel nome di Paolo.
E’ protettore dei cordai e dei cestai. Viene invocato contro le tempeste di mare, la cecità e i morsi dei serpenti (ne fu vittima a Malta, si dice). Ma in molti riti popolari – dal Lazio alla Sicilia – è raccontato invece come un “mago” che controllava il morso dei serpenti. Tuttora ogni 29 giugno, nella chiesa di san Paolo a Galatina, si svolge la cerimonia di esorcismo delle tarantolate, cioè le donne (solo loro) morse da un ragno venuto da Taranto e che induce effetti isterici da cui la danza epilettica che poi prese il nome di tarantella. Su questo si legga l’affascinante viaggio antropologico «La terra del rimorso» di Ernesto De Martino (per fortuna ristampato pochi anni fa).
Attributo di Paolo-Saulo è la spada: perchè fu lo strumento del suo martirio si dice ma è una valutazione ambigua in quanto il santo fu un combattente della fede.
E’ patrono di Roma, Aversa, di Malta e della Grecia ma anche dei vescovi, dei missionari e dei giornalisti. E se quest’ultimo riferimento vi suggerisce un collegamento con I morsi dei serpenti… beh io non potrei in alcun modo sottoscriovere questa vostra malizia perchè da anni sono tesserato (pur se disoccupato) dell’Ordine dei giornalisti.
30 giugno 1934
La parola d’ordine è convenuta da tempo: «kolibrì». Dopo lunghe esitazioni, il 29 giugno del 1934, Adolf Hitler la pronuncia e la notte successiva si scatena la caccia.
«Kolibrì» vuol dire che il già potente Hermann Goring (ministro della Propaganda del regime nazista) e Heinrich Himmler, alla testa delle Ss, hanno poteri assoluti per gestire quella che poi passerà alla storia come «Nacht der Langen Messer» ovvero «La notte dei lunghi coltelli». Infatti nelle 24 ore successive inizia la resa dei conti fra il regime nazista e le Sa, le «squadre d’assalto», cioè quelle «camice brune» che pure avevano sostenuto l’ascesa al potere di Hitler.
Non ha torto Sergio De Santis a chiedersi perché tanto disinteresse storico per una pagina storica così importante: ma il suo «La notte dei lunghi coltelli» (Avverbi 2008: 208 pagine per 14 euri) reca come sotto-titolo «la vera storia delle Sa» come a suggerire subito che il problema è lì.
Il conteggio dei morti della «Nacht der Langen Messer» è incerto; i 200 ammessi dai nazisti, i 400 dichiarati dagli oppositori o i 1076 citati (con un conteggio frettoloso, secondo De Santis) alla fine della guerra durante il processo di Norimberga? Un numero spaventoso specie se si aggiungono «almeno altre duemila persone» che il 30 giugno del 1940 o nei giorni successivi finirono «nei campi di concentramento, soprattutto a Dachau». Eppure questo crimine dei nazisti oggi non desta orrore, forse perché appare quasi un’inezia rispetto ai massacri successivi oppure perché lo scontro definitivo fra le Sa e il partito di Hitler ai nostri occhi sembra una faida, uno scontro interno fra gangster nel quale diventa difficile provare simpatia per le vittime.
Il libro di De Santis ci invita a guardare quella pagina della storia con occhi più attenti. Sì, fu «un regolamento di conti all’interno del regime hitleriano» ma alcune domande possono inquietarci e meritano una ricerca ulteriore: perchè gli storici anti-nazisti si accodano subito alle versioni del regime sulla «purga»? Com’è possibile che non esistano indagini accurate sulle Sa – «un movimento arrivato a inquadrare parecchi milioni di tedeschi» – e sul suo capo (pur «ripugnante», come lo definisce de Santis) Ernst Rohm? Era possibile un esito diverso dello scontro fra due anime, Sa e Ss appunto, del nazionalsocialismo? E cosa sarebbe cambiato? Così l’autore ci invita ad «abbandonare il rassicurante terreno delle definizioni nette e delle etichette in bianco a nero» per addentrarci in una zona più crepuscolare, «con fenomeni contraddittori e verità imbarazzanti».
Nel prologo De Santis ripercorre i primi passi del movimento nazista dal 1918, in un Paese che «al momento della resa ha perso quasi 7 milioni di uomini fra caduti, feriti, dispersi e prigionieri» e che viene condannato a pagare pesantissimi «danni di guerra». In questa fase Hitler muove i primi passi sempre in compagnia di Rohm abilissimo nell’arruolare «malavita, sottoproletariato, lavoratori disoccupati e giovani borghesi declassati».
Poi, fra il 1924 e il ’32, si consuma l’«Atto primo» della tragedia ovvero «la resistibile ascesa» al potere. Sono le Sa a «condurre nelle strade e nelle piazze quella permanente campagna di pressione, intimidazione, aggressione che Hitler ha loro affidato; e nel corso degli scontri con i “rossi” hanno pagato un non indifferente tributo di sangue». Esistono nel movimento nazional-socialista diverse anime che non è semplice etichettare con il metro attuale. Hitler sembra prevalere, soprattutto come capo assoluto, mistico e non certo in quanto stratega visto che la sua «linea politica» muterà più volte. In questa fase Rohm sparisce, addirittura nel 1926 lascia la Germania e accetta di riorganizzare l’esercito boliviano. Non è certo il solo leader dei nazisti a pensare, all’inizio degli anni ’30, che «la rivoluzione nazional-socialista» sia incompiuta e che Hitler sbagli ad allearsi con i grandi industriali e il vecchio ceto militare prussiano. Mentre il dissenso interno ai nazisti cresce, con una mossa a sorpresa Hither richiamerà Rohm che «ai primi di gennaio del 1931 può reinsediarsi nel suo vecchio posto di comando».
In questo quadro, parte quello che De Santis definisce «l’atto secondo» ovvero il primo gabinetto di Hitler dove però il peso dei nazisti è ancora debole. Tre date importanti: il 30 gennaio ‘33 Hitler è nominato cancelliere del Reich, neanche un mese dopo (il 27 febbraio) c’è l’incendio – mai chiarito, quasi certamente una provocazione nazista – del Reichstag, cioè il parlamento, un ottimo pretesto (non passano neppure 24 ore) per sospendere le libertà costituzionali. Il 24 marzo Hitler assume pieni poteri. Il nazismo ha vinto. Ma nel 1934, un anno dopo dunque, il pericolo viene dagli oppositori interni, soprattutto dalle Sa dove circola lo slogan «fare la seconda rivoluzione», quella sociale. La risposta di Hitler è stringere un patto di ferro con i capi delle Forze armate in aprile. Rohm insiste sulla necessità di uno «sbocco rivoluzionario». L’atto terzo è appunto il 1934, «Verso il massacro» mentre l’atto quarto racconta la notte dei lunghi coltelli e l’atto quinto «quel che accadde dopo».
1 luglio 1916
«Sono nato a Paluzza, in frazione Naunina. Una delle zone più povere della montagna friulana» così racconta (ho sintetizzato) Silvio Ortis. Contadino e montanaro Ortis incontra lo Stato italiano nel 1911: quando la Patria (maiuscola) chiama, si sa, bisogna rispondere. Silvio Ortis viene spedito in un bel suol d’ amore, la Libia. «L’unico viaggio della mia vita». Torna a casa dopo due anni: una medaglia e la malaria. Un paio d’anni di quiete e la (ri)-Patria lo ri-chiama a vestire il grigioverde e dopo un po’ Silvio Ortis si ritrova al fronte.
Fra tanti orrori incontrerà un ufficiale che è il classico concentrato di arroganza, stronzaggine, ignoranza (della montagna) e malafede il quale decide di mandare un po’ di alpini ad assaltare – così, come una passeggiata – l’agguerrito Monte Cellon. Sarebbe un massacro, fra i tanti. Ma gli alpini si ribellano. Tutto un reparto viene messo agli arresti. Poi Silvio e altri 3 «istigatori» vengono processati (senza garanzie) e, poche ore dopo, fucilati a Cervicento. E’ il 1 luglio 1916. Ci vorranno 82 anni perchè Silvio e gli altri vengano riabilitati con un monumento “riparatore” dell’ingiustizia.
Questa storia è raccontata – in una prima persona, inventata ma efficacissima – da Maria Rosa Calderoni in «La fucilazione dell’alpino Ortis» (edito da Mursia nel 2000). Ma tanti altri Silvio Ortis aspettano giustizia dalla vigliaccheria degli ufficiali. Li mandavano a morire mentre loro invece stavano «con le mogli nei letti di lana» (così un verso della canzone «Oh Gorizia tu sei maledetta») con poche armi e tanta grappa per stordirli ma con il “fuoco amico” che era mirato su di loro se… indietreggiavano. Se poi i reparti si ammutinavano ecco le esecuzioni sommarie e le decimazioni. Antonio Gibelli in «La grande guerra degli italiani» (Sansoni) racconta che non c’era tempo e voglia di cercare i responsabili delle rivolte: di solito si estraevano a sorte alcuni appartenenti al reparto «dove si fossero verificati incidenti». A proposito di lapidi e monumenti anti-retorica Gibelli racconta che dopo la guerra ne sorsero tanti ma il fascismo li smantellò uno per uno.
Casi isolati? Di certo, durante il “grande macello” risultano (la fonte è ancora Gibelli) 4028 condanne a morte «per diversi tipi di reati» nell’Ufficio statistico del ministero della Guerra. Ma furono probabilmente di più. I pochi libri che raccontano alcune di queste storie sono introvabili ma in una buona biblioteca potete rintracciare «Plotone d’esecuzione» di Enzo Forcella e Alberto Monticone (Laterza) e «Le fucilazioni sommarie della prima guerra mondiale» di Marco Pluviano e Irene Guerrini (Gaspari editore) e da lì risalire ad altri testi che raccontano cosa davvero accade quando la Patria chiama.
UNA PICCOLA NOTA
Care e cari, da quando è nato IL DIRIGIBILE (www.ildirigibile.eu) tengo una rubrica quotidiana (salvo sabato e domenica) di scor-date. Eccone qualcuna … se ve la siete persa. Quella di oggi, 4 luglio, dunque è sul “Dirigibile” o presto lo sarà. (db)