Scordata: 6 dicembre 1907
Monongah, la Marcinelle degli Usa dimenticata
di Fabrizio Melodia (*)
Nella cittadina di Monongah (West Virginia) alle 10,30 del 6 dicembre 1907, il suolo fu squassato da una scossa terribile, avvertita anche a 30 chilometri: le baracche in legno dei lavoratori furono completamente distrutte e tutto nei dintorni divenne frana e maceria. Non fu un terremoto naturale ma un’esplosione avvenuta nella miniera di carbone della Fairmont Coal Company, di proprietà della Consolidated Coal Mine of Baltimore. Una strage come quella di Marcinelle in Belgio.
Quel giorno, la deflagrazione coinvolse le gallerie 6 e 8, che si trovano sulle sponde opposte del fiume West Fork, collegate da un tunnel che passava sotto al corso d’acqua e da un ponte con un impianto di carico e scarico del minerale.
Gli effetti peggiori dell’esplosione si ebbero alla galleria 8, con un pezzo del tetto di cemento del locale motori scagliato sulla riva opposta del fiume (oltre 150 metri di distanza); la stessa sorte subì l’impianto di areazione, proiettato dal lato opposto del West Fork, impantanandosi nel terreno mentre pietre, fanghiglia e carrelli della miniera ostruirono completamente la possibilità di rifornire d’aria i minatori rimasti intrappolati.
Dalle testimonianze si venne a sapere che la vampata dell’esplosione raggiunse e superò i 30 metri d’altezza.
Con gli ingressi delle gallerie 6 e 8 completamente ostruiti dai detriti, i primi soccorsi furono portati dai minatori del turno successivo e dai parenti di quelli sotto le macerie: nel campo si respirava una coltre di fumo acre e pesante, dovuta alle polveri sottili dell’esplosione che aveva causato anche una violenta ondata dal fiume, colpendo e interrompendo la linea ferroviaria.
Non ci volle molto tempo che i lavoratori delle miniere vicine affluissero a portare aiuto ai compagni sepolti, mentre i proprietari della miniera si fecero vedere da lì a poco.
L’eco della sciagura fece accorrere medici da ogni parte e i giornalisti arrivarono sul luogo della tragedia: a tutti parve chiaro che non sarebbe stato facile prestare i soccorsi. Solo rendere praticabile l’entrata di una galleria avrebbe richiesto molte ore di lavoro, poiché i soccorritori potevano lavorare al massimo 15 minuti, per mancanza di adeguati respiratori, e poi dovevano lasciare il posto alla squadra successiva.
Non ci fu nulla da fare.
Quasi inutile l’apporto dei medici visto che una buona parte dei corpi ritrovati risultò essere carbonizzata e orribilmente straziata.
Quel giorno a Monongah trovarono una morte orribile 362 persone: cifra “ufficiale” desunta dalla commissione Amos incaricata dai proprietari della miniera di indagare sulle cause del disastro. Cifra non veritiera, poiché all’epoca – come anche adesso negli Stati Uniti e altrove – i minatori si avvalevano dell’aiuto di amici, figli e parenti per il loro lavoro, con i quali poi dividevano la paga da fame. Secondo un’indagine condotta in tempi più recenti le vittime furono circa 960.
Le vittime accertate – di cui 135 non identificate a causa delle condizioni dei corpi – furono seppellite in una fossa comune: 171 morti erano immigrati italiani provenienti dal Molise (circa un centinaio), dalla Calabria (una quarantina) e dall’Abruzzo (una trentina).
La Commissione Amos si occupò delle indagini ma gli esiti non portarono a nulla, in quanto il medico legale E. S. Amos e i suoi collaboratori confermarono l’ipotesi di una esplosione la cui causa rimaneva “ignota”: nessun colpevole.
Alcuni cercarono di addossare la colpa agli inesperti minorenni che di solito, senza essere registrati regolarmente, prestavano servizio in miniera: uno di loro poteva aver fatto scaturire inavvertitamente una scintilla che avrebbe causato l’esplosione. Un’altra ipotesi ventilava la possibilità che un carrello sfuggito al controllo avesse tranciato un filo elettrico, il quale avrebbe provocato la scintilla fatale.
La mancanza di superstiti rese pressoché impossibile stabilire la reale dinamica dell’incidente anche se la tipologia della deflagrazione fa decisamente propendere per il famigerato grisù, il “gas delle miniere”. Infatti lo scoppio di tale gas è caratterizzato dalla rapidissima liberazione di notevoli quantità di energia e ha spesso conseguenze gravissime. Questa ipotesi sarebbe confermata dal fatto che la miniera, il 4 e 5 dicembre sarebbe rimasta chiusa per le festività, festeggiando prima Santa Barbara, patrona e dei minatori, e poi San Nicola, con la presenza massiccia di immigrati italiani, ungheresi e neri americani, molto devoti.
Per risparmiare elettricità, i proprietari avrebbero ordinato di tenere spenti gli impianti di areazione, causando così un ristagno di gas e polveri sottili di carbonio le quali, una volta riaperta la miniera, a contatto con l’ossigeno esterno avrebbero causato la violenta esplosione.
Questo spiega la fretta con cui i proprietari avrebbero tentato di “risolvere” la questione, vedendosi già con l’acqua alla gola con i risarcimenti alle famiglie se riconosciuti responsabili. L’insabbiamento fu facilitato dal fatto che le vittime erano immigrati di vari Paesi e all’epoca erano considerati più o meno al rango di bestie da lavoro.
Non è strano se si pensa che l’immigrazione massiccia dei lavoratori italiani (e non solo) in terra statunitense sarebbe iniziata proprio con l’abolizione della schiavitù nel 1865, con la promulgazione del XIII emendamento della Costituzione Americana, che portò l’abbandono delle piantagioni da parte degli schiavi. I proprietari reagirono prontamente importando manodopera dalla Cina e dalla Scandinavia ma il tentativo fallì per le terribili condizioni nelle piantagioni. Si tentò allora di importare lavoratori a basso costo da Spagna e Portogallo ma i due governi dopo poco posero il veto e richiamarono i propri lavoratori, denunciando le condizioni di vita intollerabili.
Di avviso diverso fu il governo del Regno d’Italia, che inviò manodopera, soprattutto meridionale, per lavorare principalmente nelle piantagioni nei pressi di New Orleans e poi in altri “inferni” come le miniere.
Fu il più grave disastro minerario avvenuto negli Usa, facendo così apparire una “piccola tragedia” quella avvenuto il 29 gennaio dell’anno prima con 80 morti.
Per le 250 vedove e i mille orfani dei minatori ci fu solo il servizio assistenziale della “Monongah Mines Relief Committee”. Il 27 dicembre i duemila quotidiani statunitensi promossero una raccolta fondi mentre il magnate Andrew Carnegie contribuì con la somma (consistente per l’epoca) di 17.500 dollari.
Non risulta invece che il governo italiano abbia contribuito in qualche modo, nonostante la tragedia fosse la più dura che mai avesse colpito la comunità italiana: allora… e anche in futuro (nel 1956 a Marcinelle vi furono 262 morti di cui 136 italiani).
Le vittime italiane di Monongah venivano dalle cittadine molisane di Frosolone (14 vittime), Duronia (36), Roccamandolfi, Bagnoli del Trigno, Torella del Sannio, Vastogirardi; da quelle calabresi di San Giovanni in Fiore (una trentina i morti), San Nicola dell’Alto, Falerna, Strongoli, Gizzeria, Castrovillari; dalle abruzzesi Atri, Civitella Roveto, Civita d’Antino, Canistro; e dalla lucana Noepoli.
L’ennesima tragedia annunciata: le condizioni di sicurezza negli Usa erano a zero, i lavoratori trattati da schiavi. E gli immigrati che si organizzavano sindacalmente erano aggrediti e spesso uccisi da polizie private, squadracce padronali e crumiri: come i tre italiani che nel 1879 furono linciati per avere organizzato lo sciopero dei minatori a Eureka, in Nevada.
La tragedia di Monongah portò a istituire, nel 1910, il Bureau of Mines, cioè l’ ispettorato delle miniere: una scatola vuota che solo dopo il 1941 ebbe possibilità di controllo e prevenzione.
Questa sciagura dimenticata da molti tornò alla ribalta negli Usa grazie al reverendo cattolico Everett Francis Briggs, il quale, dal 1956, cercò di dare un nome ai tanti corpi non identificati. Nel 1961 Briggs fondò la casa di riposo Santa Barbara’s Memorial Nursing Home, dedicata ai minatori di Monongah: di fronte fu innalzata una statua intitolata a Santa Barbara, che commemora le vittime identificate (di cui viene riportato l’elenco) e quelle rimaste senza nome.
Recentemente alcune testate giornalistiche destinate agli italiani all’estero hanno contribuito a riportare alla luce questa terribile pagina di storia e a diffondere i risultati delle ricerche sulla catastrofe di Monongah, confermando che il numero delle vittime sarebbe assai più alto di quello ufficiale e i soli minatori italiani morti più di 500.
Un impressionante monumento naturale è la Collina del Carbone, eretta dalla vedova di uno dei minatori morti: la povera donna portò via dal luogo in cui era rimasto intrappolato il marito un secchio di carbone al giorno – per alleviare il peso che riteneva gravasse su di lui – svuotandolo vicino alla propria casa.
Recentemente è stato realizzato il film-documentario «Monongah, Marcinelle americana» che ha attinto immagini storiche fornite dal Museo dell’ immigrazione di Ellis Island di New York, e da materiale italiano fornito dal Museo dell’emigrazione di Gualdo Tadino, dall’Istituto storico Ferruccio Parri di Bologna e dal Museo etnografico di Bomba.
A Frosolone (Isernia) un’epigrafe ricorda i 14 morti. In Calabria la tragedia ebbe un tale effetto che ancor oggi, quando si vuole indicare un avvenimento particolarmente drammatico, si usa dire che “è una minonga”; a San Giovanni in Fiore tuttora si utilizza l’espressione “non vado mica a minonga” per dire che non si ha intenzione di scomparire senza lasciare traccia.
Nel dicembre 2007, nel centenario della tragedia, la Regione Molise ha donato alla città di Monongah una campana commemorativa. E il 1º maggio 2009 il presidente Giorgio Napolitano ha conferito la Stella al merito del lavoro alla memoria dei lavoratori morti a Monongah.
Ma 100 anni dopo quel che sarebbe più importante – assicurare cioè sicurezza a chi lavora in miniera e altrove – non viene fatto. In questo Usa e Italia oggi vanno d’accordissimo. E infatti nell’aprile 2010 nella miniera Upper Big Branch – in West Virginia, non lontano da Monongah – vi furono 29 morti (un’altra “tacca” nel lungo elenco di stragi che costellano le miniere in Usa, Cina, Ucraina, Russia, Turchia….). Quest’ultima strage in Virginia è targata Massey Energy, fra i 5 maggiori produttori statunitensi del carbone… con profitti d’oro: al solito sulla pelle di chi lavora. Quangto agli omicidi bianchi in Italia è purtroppo cronaca di ogni giorno.
(*) Altre tragedie delle miniere sono state raccontate in blog: per esempio nella Scor-data: 10 marzo 1906 o nel post I mostri del sottosuolo. Rimando anche a «Doppio cielo», un bel romanzo di Giulio Angioni ambientato nelle miniere sarde.
Ricordo – per chi magari si trovasse a passare da qui per la prima volta – il senso di questo appuntamento quotidiano in blog. Dall’11 gennaio 2013, ogni giorno (salvo contrattempi sempre possibili) troverete in blog a mezzanotte e un minuto una «scordata» – qualche volta raddoppia o triplica, pochi minuti dopo – postata di solito con 24 ore circa di anticipo sull’anniversario. Per «scor-data» si intende il rimando a una persona o a un evento che per qualche ragione il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna dimenticano o rammentano “a rovescio”.
Molti i temi possibili. A esempio, nel mio babelico archivio, sul 6 dicembre avevo fra l’altro queste ipotesi: 1866: battaglia di Nuvola Rossa; 1961: muore Frantz Fanon; 1965: Fabrizio Fabbrini obietta al servizio militare; 1977: muore Follerau; 1989: “la pantera”; 1990: strage a Casalecchio… e chissà a ben cercare quante altre «scordate» salterebbero fuori.
Molte le firme (non abbastanza forse per questo impegno quotidiano) e assai diversi gli stili e le scelte; a volte troverete post brevi: magari solo una citazione, una foto o un disegno. Se l’idea vi piace fate circolare le «scordate» o linkatele ma ovviamente citate la fonte. Se vi va di collaborare – ribadisco: ne abbiamo bisogno – mettetevi in contatto (pkdick@fastmail.it ) con me e con il piccolo gruppo intorno a quest’idea, di un lavoro contro la memoria “a gruviera”.
Ogni sabato (o quasi) c’è un riassunto di «scor-date» su Radiazione (ascoltabile anche in streaming) ovvero, per chi non sta a Padova, su http://www.radiazione.info .
Stiamo lavorando al primo libro (e-book e cartaceo) di «scor-date»… è un’impresa più complicata del previsto, vi aggiorneremo. (db)
segnalo un gran film di minatori in lotta in West Virginia negli anni ’20:
http://markx7.blogspot.it/2013/06/matewan-john-sayles.html
grazie Ismaele, anche io dò un consiglio.
Non è ambientato in Virginia (ma nel Kentuchy) però c’è un film che davvero tutte/i dovrebbero vedere. Si chiama HARLAN COUNTY USA e lo girò Barbara Kopple nel 1977. Temo che nonostante l’Oscar – per il miglior documentario – in Italia lo abbiano visto poche decine di persone; invece all’estero è giustamente molto conosciuto. Da vedere per capire la vita dei minatori (e delle minatrici) ieri e oggi ma anche come si fa cinema.