Scorie e fossili: per una visione alternativa
Due articoli di Mario Agostinelli
Pressocchè negli stessi giorni, ad inizio di un anno cruciale per non ripetere errori passati, siamo chiamati ad una doppia responsabilità: individuare con razionalità una soluzione di maggior sicurezza per le scorie – rafforzando così la fuoriuscita dal nucleare – e, nel contempo, indirizzare fuori dai fossili il programma energetico che ENI ed ENEL vorrebbero ancorare al vecchio modello basato su un potenziamento degli stoccaggi e della produzione a gas nei nostri territori. Si tratta di mettere in campo una coerente visione alternativa: quella di lasciarci definitivamente alle spalle un sistema centralizzato che ha messo fortemente a rischio le popolazioni e che da ora potrebbe trovare soluzioni con la promozione delle fonti rinnovabili, dello stoccaggio elettrico, delle comunità energetiche, rese sufficienti sul terrritorio con la partecipazione dei cittadini. Si tratta di un impegno di lunga lena, che si deve avvalere dei Fondi Europei per una cura della salute degli abitanti e del pianeta, non per trucchi e sgambetti all’interno delle coalizioni di governo o delle manovre di opposizione. Qui sotto due testi pubblicati su «Il fatto quotidiano» (on line) e su «Pressenza». Riguardano sia la mappa delle scorie nucleari portata alla discussione pubblica, sia l’insensato progetto di rafforzare la struttura nazionale dei fossili con la costruzione sul litorale tirrenico di nuove centrali a gas. [Mario Agostinelli]
foto di Blackcat
L’EREDITA’ DEL VECCHIO NUCLEARE E QUELLA DEL NUOVO GAS
E’ fuor di dubbio che l’evocazione del nucleare ad oltre 30 anni dal referendum che chiuse gli impianti in Italia ed a10 anni dalla reiterazione di una volontà popolare che ha sottratto il nostro Paese ad una colonizzazione tecnocratica che continua a costare assai cara a molti paesi europei, porta a considerazioni che non sono riservate solo agli specialisti, ma entrano in sintonia con la riflessione che l’accelerazione del cambiamento climatico e l’esperienza della pandemia ha indotto in grandi strati del sentire popolare. “Quanto tempo manca” è la domanda che tocca ora non solo le nuove generazioni, ma chiunque riscopra il legame fragile tra uomo e natura, che è stato rotto con un assalto complessivo e su più fronti da parte di un sistema di produzione e consumo che sta riducendo le possibilità di sopravvivenza.
Credo che le prime avvisaglie di un cambiamento netto di fase, che quotidianamente possiamo riscontrare nella devastazione operata su una natura resa ostile e nel ritrarsi di quella amica, siano apparse all’orizzonte proprio con l’era nucleare. Una tecnologia che intrinsecamente sfugge ad un pieno controllo sociale e, nel contempo, supera artificialmente i limiti imposti dai tempi biologici e della riproduzione della vita. La scansione di catastrofi come Hiroshima, Chernobyl, Fukushima, sono lì a ricordare che quando la forza dell’industria umana diventa più potente delle forze geologiche e naturali, può entrare in gioco la sopravvivenza. Proprio con il nucleare l’umanità ha cominciato, ancor prima che l’aumento di gas climalteranti producessero devastazioni sul Pianeta, a doversi prendere in carico l’incertezza del futuro delle nuove generazioni. Non è banale dover intrecciare due grandi emergenze – quella climatica e quella nucleare – con un’urgenza che si fa sempre più pressante.
Pertanto, la prima cosa che balza all’attenzione in questi giorni in cui viene presentata la mappa dei depositi nucleari è il peso di un’eredità pesantissima, che si tende a rimuovere, ma che va risolta ora senza scaricarla sulle prossime generazioni. Ma, dato che questo è il tempo della pandemia e del riscaldamento irreversibile del Pianeta, dobbiamo convincerci che senza una svolta nelle politiche energetiche, potremmo lasciare eredità perfino più esiziali di quella su cui si apre la discussione sulla mappa, pompando e consumando fossili che la scienza del clima esige siano lasciati sottoterra. Lo dico perché non si troverà facilmente una soluzione al problema del deposito delle scorie se ENI, ENEL e governo rimarranno nel frattempo appesi a piani e progetti che potenziano un sistema elettrico centralizzato, reiterato con uno strategico e rinnovato ricorso al metano, anziché decentrato e alimentato dalle rinnovabili. Se questo avverrà, l’Europa non ci rimprovererà più solo il ritardo nell’individuazione del deposito delle scorie nucleari!
Su questo tema riprendo la notizia dal blog del Fatto quotidiano del 5 gennaio e dal 1 del 5 gennaio (https://amp24.ilsole24ore.com/pagina/ADQX2XBB).
La mappa non dice il punto in cui bisognerà costruire il deposito. Delinea invece tutti i 67 luoghi in cui ci sono le “condizioni tecniche” e indica in 12 siti le candidature più solide (due in provincia di Torino, cinque in provincia di Alessandria, cinque in provincia di Viterbo).
Se andiamo indietro nel tempo, potremmo ricordare la lunga lotta delle popolazioni del metapontino attorno a Scanzano per respingere nel 2003 il tentativo di Carlo Jean, commissario di Governo, di costruire un deposito sotterraneo, geologico, definitivo, anche per rifiuti ad altissima radioattività. (v. https://www.sergioferraris.it/nucleare-scanzano-scorie-tese/ ). Il giornale di Confindustria ad inizio 2021 mette insieme quel ricordo con le sollevazioni delle popolazioni della Valsusa contro l’alta velocità e nel Salento contro il metanodotto Tap. Un’operazione sottile di discredito delle lotte sul territorio, per far capire che, al di là di tutto, poi e comunque si procede. Non si tiene affatto conto che non si tratterà di un gioco a rimpiattino tra i diversi campanili individuati, ma di un atto di corresponsabilità nazionale, rimandato ad oggi dopo essere rimasto nei cassetti della Sogin, che forse ha pensato bene che, con la testa presa dal vaccino, la discussione sul sito del deposito sarà più distratta. E non basterà certo – come testualmente afferma l’autorevole quotidiano citato – “cercare di convincere i Comuni ricompresi nella mappatura a farsi avanti: ci sono incentivi, occasioni di crescita, prospettive di lavoro e di benessere, soprattutto nelle aree marginali che si stanno spopolando”. Con questo criterio di scambio, tutto sommato volgare, il gioco, pur essendo necessario, non varrebbe la candela.
Oltre che rendere trasparenti le misure di sicurezza, le modalità per affrontare la gestione con il massimo rigore e con i massimi livelli di garanzia sanitaria e ambientale, accettando – come chiede il WWF – il fondamentale principio di reversibilità nel caso la situazione subisca modificazioni, occorre un passo ulteriore. In definitiva, senza la certezza di una svolta profonda – oggi! – nelle politiche energetiche del Paese verso la neutralità climatica, l’ultima fase dell’uscita dal nucleare risulterebbe meno risolutiva e, perciò, meno convincente per farsene carico.
Per questo ho fatto un collegamento tra due grandi questioni in apparenza tra loro disgiunte. La discussione va aperta in un contesto chiaro e aggiornato.
Quanto tempo ancora dovrà passare perché da Saluggia e Trino, che hanno oggi la più grande quantità di materiali radioattivi di tutta Italia e i più pericolosi, vengano trasferite e messe in sicurezza tutte le scorie che hanno destato le più profonde preoccupazioni nelle popolazioni locali? E come si svolgerebbe una discussione sul deposito di scorie a Montalto di Castro, quando si potrebbero quasi vedere con un cannocchiale le nuove torri del turbogas da 1,8 MW di Civitavecchia?
Civitavecchia: no al gas, un caso nazionale
Mentre l’UE sta finalmente decidendo di produrre gas rinnovabile, la politica energetica italiana insiste nel potenziamento della struttura del gas fossile, importato, legato ad interessi di guerra, micidiale per mantenere il livello dei consumi e delle emissioni ben lontane dalla neutralità zero al 2050 e far dipendere i territori da forniture centralizzate, la cui stabilità e profittabilità viene garantita dal prelievo sui contribuenti.
Vale la pena di confutare da subito le motivazioni con cui Enel prova a giustificare la riconversione a gas della centrale a carbone di Torrevaldaliga Nord a Civitavecchia, di cui ci occupiamo in questa nota: 1) inquina meno del carbone; 2) è l’unico combustibile in grado di consentire la transizione energetica fin quando le nuove tecnologie, ad esempio l’idrogeno, saranno competitive e in grado di garantire la stessa potenza installata; 3) la riconversione viene fatta in ottemperanza alle disposizioni del Piano Nazionale Italiano Energia e Clima (PNIEC), varato dal Parlamento italiano nel gennaio 2020.
Una grossolana articolazione di un ragionamento che l’emergenza climatica e le risposte che cominciano a pervenire anche sul piano europeo ed internazionale smentisce fino a lasciare isolato il nostro Paese all’interno dei piani e della programmazione assunta nell’ultimo anno, non da qualche ambientalista cocciuto, ma dai Paesi e dalle economie industriali meno imprevidenti al di fuori dei nostri confini. L’Europa francese, tedesca, olandese e del nord si prenderà la grande fetta dei 1.000 miliardi del piano Green Deal per disinteresse italiano e interesse al gas, spinto nei mastodontici tubi dei gasdotti.
Va subito affermato che bruciare metano anziché carbone a livelli di potenza elevatissimi significa per almeno altri 20 anni emettere CO2 ben oltre i limiti fissati dal parlamento europeo e sforati già nel 2030, cioè domani. Le tecnologie rinnovabili sono già più che competitive e lo stoccaggio in idrogeno lo diverrà assai prima del tempo di ammortamento e di esercizio per cui è prevista una nuova centrale. Infine, è risaputo che, dopo le decisioni assunte dal parlamento europeo, il PNIEC andrà completamente rivisto e il nodo di Civitavecchia diventerà estremamente esposto e tra i primi da riconsiderare.
La soluzione è a portata di mano ed è adattabile ai singoli territori che puntano ad una riconversione non solo delle fonti energetiche, ma di tutto il tessuto occupazionale e manifatturiero in armonia con l’ambiente naturale e con un approccio sociale ed anche culturale che sostituisce la cura della Terra alla sua predazione, spinta ormai fino all’estinzione del vivente. Si tratta di un’opzione matura anche se chiaramente alternativa in cui qualsiasi finanziamento per il gas verrebbe completamente eliminato per concentrarsi invece sull’elettricità e sulle reti intelligenti, con una produzione esclusiva da rinnovabili assistite da stoccaggio in loco in idrogeno verde o attraverso pompaggi.
Attorno a questa proposta si sta muovendo nell’Alto Lazio un autentico movimento, che ha saputo convertire la forza di un diniego netto al progetto fossile in una proposta che rende autosufficiente il territorio, decentrando così la fornitura da grandi impianti che da 70 anni vulnerano la popolazione della città ed il suo mare.
Un movimento che si sta rafforzando: è partito dai comitati locali, si è esteso a personalità di riconosciuto prestigio attorno cui si è organizzata una raccolta firme, si sono mobilitati studenti, forze politiche e le istituzioni locali e regionali, si è creata una coalizione di parlamentari. Insomma: la situazione è scossa e nell’ultimo mese sono entrati in campo anche il sindacato e le associazioni degli imprenditori e degli artigiani. Ora occorre andare al sodo, mentre Enel, Eni e Terna cercano di guadagnare tempo in una disgustosa prospettiva di crisi di governo che potrebbe dar loro spazio per una deriva burocratica entro cui infilare l’approvazione del loro progetto. Sarebbe un colpo duro, ma credo che quella che è in corso non sia una contesa ordinaria e tantomeno fuori dalla drammaticità e dal senso di un futuro da riscrivere, che tocca al tempo presente. Per questo bisogna parlarne, farne oggetto di priorità politica anche sul piano nazionale e non lasciare isolato questo tentativo molto realistico, concreto, lungimirante.
Non sarà facile nemmeno giocare a carte coperte. Il Primo Cittadino, dopo la presa di posizione contro il gas del Consiglio Comunale, definisce quella della riconversione “una emergenza nell’emergenza” e di voler conoscere esattamente quali sono le progettualità vere proposte, mettendo nero su bianco cosa rappresentano sia dal punto di vista ambientale che da quello occupazionale”. Per fare un passo avanti il Sindaco ha convocato a Gennaio una riunione di tutti i Sindaci del comprensorio per valutare prospettive che non possono restringersi a circoli decisionali ristretti. Se il Sindaco mettesse in fuga dubbi e perplessità e decidesse di chiamare alla mobilitazione, assolutamente pacifica, i cittadini per ribadire con forza il diritto alla tutela della salute pubblica; la difesa di un luogo meritevole del massimo rispetto e di non soggiacere a soprusi; la salvaguardia dei posti lavoro senza innescare l’odiosa guerra tra poveri, utile esclusivamente ai poteri forti che vogliono disporne a proprio piacimento, sarebbe il protagonista di un evento epocale: darebbe il segnale straordinario che con la forza della determinazione, dell’appartenenza e della coesione anche le lobby (multinazionali e politiche) che si sentono giganti invincibili potrebbero scoprire, improvvisamente e incredibilmente, che i tempi sono mutati e che il bene comune è oggi ben rappresentato solo da uno sguardo oltre il presente.
Ovviamente, si tratta di una partita alle sue prime battute e tutt’altro che nelle mani solo degli attori locali. Quando però si pongono problemi come questi, è bene che i movimenti, i cittadini, le associazioni, anche a livello il più ampio possibile, non guardino da un’altra parte, continuando a sentirsi tagliata l’erba di sotto ai piedi. Anche a Civitavecchia vale che locale è globale e viceversa.
Si tratta, in definitiva, di una vertenza nuova, giocata in alleanze non tradizionali, ma con un profondo senso del legame tra giustizia climatica e sociale. Una battaglia che, comunque, verrà ricordata come emblematica di una fase storica da cui è impossibile cancellare con un colpo di spugna le emergenze che si sono accumulate e si stanno accumulando, non solo per le generazioni ora in gioco, ma anche per quelle di là da venire. Una battaglia che può anche andare persa, ma, in questo caso, gli eventuali vincitori vanterebbero un successo inutile o effimero, dove il vincitore formale ne esce sostanzialmente con un vantaggio temporaneo per sé, ma senza benefici duraturi che ricadano sulla comunità.