Scuola di (ri)educazione per giornalisti, ovvero le parole sono importanti
di Francesco Masala
Il 16 di novembre su repubblica.it c’era questo titolo:
Zouheir e Safer, quei musulmani eroi di Francia – La guardia che ha sventato la strage nello stadio e il cameriere che ha salvato due donne (qui)
Non mi tornava, poi ho capito che è un titolo razzista, mi sono ricordato quando negli anni ’80 mi è capitato di vivere per motivi di studio in una città delle Marche, e qualcuno mi diceva qualcosa sul mio essere sardo, che non ero come si immaginavano.
Parlare di musulmani eroi è come dire che quelli citati nell’articolo sono eccezioni, che lombrosianamente parlando, i musulmani sono assassini potenziali, esattamente come, negli anni ’70 e ’80, i sardi (di una certa zona, e io sono di quella certa zona) erano, lombrosianamente parlando, potenziali delinquenti e potenziali sequestratori.
Quanto può la stampa e la televisione modellare l’immaginario, quanta responsabilità hanno i giornalisti quando hanno ripetuto, e continuano a ripetere le parole, e solo quelle, di chi fa scoppiare le guerre?
Qualcuno spiega ai futuri giornalisti il peso delle parole? E a quelli presenti non faranno un corso di rieducazione?
O, come dice qualcuno, scrivono quello che dicono loro di scrivere, poi diranno, ma non capivo, oppure, e come potevo fare altrimenti?
Che fossero cristiani, animisti o musulmani non era importante, scrivere la religione è utile, per qualcuno, ma dipende, i soldati di Abu Grahib nessuno li ha chiamati pessimi cristiani, erano solo esseri umani e soldati di merda, e basta. È che a volte si dice una cosa per far intendere altro.
Quando arrivò negli Stati Uniti gli impiegati dell’ufficio immigrazione chiesero ad Albert Einstein di indicare su un modulo a quale razza appartenesse. Einstein scrisse: «umana».