Scuola: garantire il diritto allo studio?
di Daniela Pia
Torno a parlare di scuola. Sulla didattica a distanza credo di aver già detto: io a scuola e gli studenti a casa in un dialogo spesso surreale ma in contatto.
Sennonché mentre mi accingevo a riprendere le fila del «dialogo educativo-didattico» in quel di gennaio (esattamente il tredici) mi sono esibita in un triplo volo carpiato giù per un pianerottolo di scale. La farò breve: ambulanza, Pronto Soccorso, malattia.
Appena tornata a casa, dopo sei ore di osservazione, ho chiesto ai miei “badanti” di inviare alla scuola il certificato di malattia (venti giorni salvo complicanze) supplicando che fosse nominato un/a supplente. Mi preoccupavo per le classi con numerosi studenti diversamente abili e per la quinta che dovrà sostenere l’esame di Stato.
La supplica poi è stata inviata ai coordinatori di classe (perché sollecitassero in tal senso) e finanche alla RSU.
Abbiamo svolto tutti i nostri compiti nel caldeggiare la presenza – in praesentia o ab spatium – di un/a collega che proseguisse con l’azione didattica, viste le gravi difficoltà che la DAD ha evidenziato nel tenere studenti e studentesse vicini.
Nonostante ciò, nessuna nomina è stata fatta; ho interagito, compatibilmente con l’immobilità del braccio destro (tramite Wattsapp) con le mie classi, in occasione della Giornata della memoria, inviando loro alcune sollecitazioni.
Ho vissuto con un ingiustificato senso di colpa – vaglielo a spiegare all’inconscio – questa mia prigionia casalinga che mi sottraeva al lavoro e sono adirata, delusa, mortificata della finzione di cui la scuola spesso si ammanta nel dichiarare (nei suoi PTOF, RAV e acronimi vari ) che «il Ministero dell’Istruzione garantisce il diritto allo studio su tutto il territorio nazionale (Il comma 181 punto f della legge 107 del 2015)… Il Ministero definisce i livelli essenziali delle prestazioni, cioè sia i servizi alla persona, in special modo per le condizioni di disagio, sia i servizi strumentali».
Parole che spesso si scontrano con inadempienze ingiustificabili a meno che non si sia “figli di qualcuno” che prontamente sappia far valere le sue ragioni come accade spesso nei licei d’élite.
Nelle scuole come la mia, alberghiero e grafico, spesso studenti/esse sono, loro malgrado, figli di un dio minore: se rimangono senza il docente per un mese non importa a nessuno, ci si rassegna e si accetta tutto come fosse un fatto ineludibile Ma così non è. Non deve e non può essere.
Per questo mi sono sentita di raccontare la mia indignazione: per tutelare il loro diritto ad avere una guida soprattutto in un momento così difficile come quello che stiamo attraversando.
Perché insegnare educazione civica – come ci viene chiesto con gran proclami – non deve essere solo un esercizio teorico ma una pratica, frutto di un patto di corresponsabilità che non riguardi solo la relazione docente/discente ma tutta l’istituzione scolastica, quella che spesso si premura di sbrigare pratiche di ordinaria amministrazione, dimenticando i bisogni essenziali di ragazzi/e.
«Sognavo di poter un giorno fondare una scuola in cui si potesse apprendere senza annoiarsi, e si fosse stimolati a porre dei problemi e a discuterli; una scuola in cui non si dovessero sentire risposte non sollecitate a domande non poste; in cui non si dovesse studiare al fine di superare gli esami». (Karl Popper)