Se l’utopia diventa un incubo di privilegi
I ricchi stanno rimodellando gli spazi urbani trasformandoli in domini privati esclusivi. Il futuro delle nostre città non deve essere ceduto alle élite che lottano per costruire enclave fortificate.
In California, un gruppo del settore tecnologico e finanziario sta lavorando a un progetto segreto per costruire una città nella contea di Solano, vicino a San Francisco. Si trovano ad affrontare l’opposizione e le critiche locali per le solite ragioni: manovre sgradevoli, atteggiamento aggressivo e pensieri utopici che, secondo gli oppositori, faranno più male che bene. Il gruppo che dirige il progetto si chiama California Forever, cosa che da sola basterebbe a motivare le critiche, anche perché sembra uscito da un film di James Bond che ha un indice di gradimento del 64% su Rotten Tomatoes.
In Honduras, un gruppo noto come Próspera Inc. sta costruendo una città libertaria, definita da Reason «un esperimento radicale di governo privato». Zach Weissmueller scrive infatti che il cofondatore e Ceo dell’azienda, Erick Brimen, afferma che la città, chiamata Próspera Village, «non è un luogo» ma piuttosto «una piattaforma di governance come servizio in collaborazione con i governi dei paesi ospiti che crea un quadro giuridico che consente l’emersione del partenariato pubblico-privato».
Nel loro insieme, queste imprese stravaganti dei ricchi assomigliano davvero alla trama di un film di James Bond. Un po’ come Quantum of Solace, con un tocco alla Ayn Rand.
Ma questo paragone nasce solo perché i progetti sembrano fumettistici e donchisciotteschi. Nella migliore delle ipotesi, evocano gli imbrogli del cattivo di Bond. Nella peggiore, tuttavia, ricordano la distopia del film di Matt Damon, Elysium, in cui le élite si sono trasferite in un lussuoso habitat spaziale, lasciando il resto dell’umanità a faticare e morire su una Terra inquinata e degradata.
L’élite fugge dall’apocalisse
A Toronto, la disputa sui tentativi di Sidewalk Labs di sviluppare una «città intelligente» lungo la riva del lago della città ha rappresentato la battaglia con chi difende lo spazio pubblico e si preoccupa della privacy dei dati da un lato, e Google e la sua cerchia, punta di lancia tecnologica libertaria, dall’altro. Il giornalista Josh O’Kane ha descritto in dettaglio l’ascesa e la caduta del progetto in Sideways: The City Google Couldn’t Buy.
È una storia incredibile.
Queste nuove iniziative fanno parte di una tendenza dei ricchi a intraprendere grandi progetti, costruendo enclave o avamposti attraverso i quali portare avanti un’agenda radicale che viene definita in termini di sviluppo e bene comune.
Paseo Cayala in Guatemala è un altro esempio e, sebbene non sia una novità, l’impulso a separarsi dallo spazio pubblico per sogni utopici quasi pubblici (di fatto privati) sta diventando, in modo allarmante, sempre più evidente, con un’iper-attenzione alla tecnologia: sensori, intelligenza artificiale, algoritmi, intelligente-questo e intelligente-quello.
Che si tratti di libertariani, di fratelli progressisti della finanza tecnologica o di coloro che si trovano a metà strada – liberal modestamente statalisti finché l’azione del governo non si estende oltre i confini della tassazione o della regolamentazione accettabile – i loro sogni tendono ad assumere forme orribili. I loro opuscoli e diapositive spesso pubblicizzano l’innovazione, lo spirito pubblico e il fare del bene facendo meglio, ma queste visioni quasi sempre si fondono in una sorta di mostruoso ibrido tra Galt’s Gulch e la città aziendale.
I sogni dei ricchi
Da quando Thomas More – Sir Thomas o Saint Thomas, a seconda delle vostre preferenze – scrisse la sua Utopia, il sogno della città perfetta là fuori all’orizzonte ha acceso la speranza che qualcosa oltre l’ordinario fosse realizzabile. Non qualcosa che si accontenti di essere migliore. Qualcosa di idilliaco. Perfetto, addirittura. Chi non lo desidera?
In pratica, la realizzazione delle promesse utopiche spetta agli esseri umani – esseri umani caduti in disgrazia, se siete tra coloro che preferiscono San Tommaso a Sir Tommaso. E in effetti siamo in disgrazia. Al giorno d’oggi, coloro che hanno i mezzi per perseguire visioni utopistiche sono i ricchi. E le loro visioni dell’Arcadia non sono visioni egualitarie collettive. I ricchi sognano qualcosa di meglio, ma il sogno non è per tutti.
C’è una differenza tra il progetto di Próspera Village e quello di California Forever. Il primo sembra più discutibile, più esclusivo, più fedele al Vangelo di Rand. Ma le questioni di fondo sono le stesse. Ci sono sforzi che intraprendiamo collettivamente, come pubblico per il pubblico, vincolati da regole che sono ampiamente concepite e applicate democraticamente: queste spiegano qualunque ricchezza pubblica di cui ancora godiamo. E poi ci sono gli sforzi intrapresi privatamente, per pochi, non vincolati dalla volontà collettiva e disinteressati alle condizioni che accompagnano l’autogoverno democratico. Questi progetti sono in linea con la tradizione storica delle enclosure in Inghilterra nel XVI secolo: l’appropriazione di beni comuni per guadagni privati.
Il problema fondamentale di Próspera Village, la città di California Forever, e la città intelligente sul lungomare di Toronto, nata morta, è che dividono la città dalla sua natura pubblica, trasformando quello che è fondamentalmente uno spazio pubblico in spazi privati e quasi-privati. Queste imprese inefficienti, spesso esclusive, non sono quindi molto diverse dall’istruzione privata o dall’assistenza sanitaria. Inoltre, comportano un cambiamento nel potere e nel modo in cui concepiamo la convivenza.
Più la città è privata, più il potere è concentrato e gli interessi sono separati dal bene comune. Dopotutto, perché preoccuparsi di creare queste enclave se non per fuggire, per essere qui e non lì. Per la definizione stessa di «enclave» devono esserci due territori, uno interno e uno esterno. L’interno è separato dall’esterno. Il primo è quello buono, desiderabile, sicuro. È l’Eliseo. Il secondo è cattivo, indesiderabile, pericoloso. È ciò da cui l’enclave cerca di fuggire e di tenersi fuori. Di conseguenza, l’enclave ha bisogno del potere per stabilire le proprie regole, sorvegliare i propri confini e, soprattutto, decidere chi è dentro e chi è fuori.
Contrastare l’oligarchia
Una volta che l’approccio dell’enclave diventa accettabile, tutte le scommesse vengono annullate. Ci saranno vincitori e vinti. Insider e outsider. E questi ultimi saranno molto più numerosi dei primi. Coerentemente con la visione libertariana e la logica petulante e avara di Rand e dei suoi simili, i ricchi abitanti di queste enclavi porteranno con sé le loro risorse, privando la collettività del loro denaro e, in alcuni casi, delle competenze. Pertanto, i progetti utopici concepiti secondo lo stampo privato agiscono come prosciugatori delle casse pubbliche sottraendo loro risorse. In alcuni casi, come la smart city di Google, stabiliscono un costo per la prossimità, trasformandosi in spazi quasi pubblici con un prezzo in dollari, dati, privacy o una combinazione di questi.
Man mano che i nostri problemi collettivi, come il cambiamento climatico, peggiorano, i ricchi sono sempre più tentati di fuggire. E con l’intensificarsi della concentrazione della ricchezza, aumenta anche la spinta dei ricchi a dettare i termini su come progettiamo i nostri spazi condivisi o semi-condivisi. La combinazione di questi due fenomeni crea una doppia pressione che limita lo spazio e le risorse pubbliche, allontanando ulteriormente i molti e i pochi, i ricchi e i lavoratori.
Dovremmo tracciare confini netti.
Invece di permettere ai potenti di ritagliarsi delle enclave o di rifugiarsi nelle loro utopie, dobbiamo chiarire che le imprese pubbliche restano sforzi collettivi. Nei decenni a venire, costruire solidarietà e impegnarsi in programmi e infrastrutture pubbliche sarà più importante che mai mentre guardiamo con attenzione il cambiamento climatico e altre sfide. Dopotutto, gli spazi pubblici egualitari e dotati di risorse adeguate costituiscono di per sé delle utopie. Soprattutto sono realizzabili, se siamo disposti a intraprenderli tutti insieme.
*Tratto da Jacobin Italia.
David Moscrop è uno scrittore e commentatore politico. Conduce il podcast Open to Debate e ha scritto Too Dumb For Democracy? Why We Make Bad Political Decisions and How We Can Make Better Ones (Goose Lane Editions, 2019).
Questo articolo è uscito su JacobinMag. Traduzione a cura della redazione di Jacobin Italia.
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