Se sparisce la Palestina, rimarremo tutti orfani *
articoli e video di Gideon Levy, Yvonne Ridley, Green Girls, Ali Abunimah, Tamara Nassar, Adam Raz, Amira Hass, Umberto De Giovannangeli, Richard Silverstein, Mahmoud Soliman, Ahmad Melhem, Stanley L. Cohen, Mohammed Moussa, Benay Blend, Rajaa Natur, Vera Pegna, Rania Muhareb, Bram Wispelwey, Mads Gilbert, Grazia Parolari, Basman Derawi, Yael Lotan, Miko Peled, Azad Essa, Jonathan Cook, Nadim Nashif, vignette di Carlos Latuff. Con “1948” documentario di Mohammad Bakri e l’intervista a Ghaidaa Qudaih delle Green Girls
Sommario-commento di qualche articolo riportato, ma non solo
di Francesco Masala
Albert Einstein, che capiva molte cose, usava la parola criminali per chi stava per fondare lo stato di Israele (ma, si sa, Einstein era un antisionista, e un antisemita).
Ebrei israeliani estremisti amano i nazisti, strani i salti mortali (per i palestinesi) della storia.
Borges se avesse saputo dell’esistenza delle ragazze che coltivano nella Striscia di Gaza avrebbe scritto che “Queste persone, che noi ignoriamo, stanno salvando il mondo”.
Israele e territori occupati, un ossimoro, ben prima del 1967.
Ricordo di Mohammed Saeed Hamayel, l’ennesima vittima innocente del Golia israeliano.
I piloti israeliani cantano in coro la loro missione: distruggere, distruggere, distruggere.
Scrive Basman Derawi: Che tipo di resistenza / faresti / se la tua casa fosse stata rubata / se la tua vita fosse solo argilla / nelle mani di qualcun altro? / Qualcuno che dice che il suo dio / gli ha promesso la tua terra?
I rabbini riscrivono la Bibbia, Abramo e Mosè forse non esistono, Dio non pervenuto, chi glielo dice al governo israeliano? (anche se lo sapevano dall’inizio).
Cambio di mandante al governo in Israele, Golia sostituisce Golia: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Ritrovati i rotoli della Costituzione dello Stato d’Israele, l’articolo 1 recita: “La proprietà è un furto”.
Se sparisce la Palestina, rimarremo tutti orfani *.
La caduta “finale” di Israele era stata predetta da Einstein – Yvonne Ridley
Lo scienziato ebreo più famoso della storia sapeva fin dalla sanguinosa fondazione di Israele che uno stato creato e gestito da zeloti di destra armati non era praticabile. Non ci voleva un genio per dircelo, ma così è successo.
La lettera di Einstein
Non ci vuole un genio per vedere che il fallito progetto sionista chiamato Israele sta andando in pezzi. Fu un genio, tuttavia, che predisse la fine del nascente stato, quando gli fu chiesto di aiutare a raccogliere fondi per le sue cellule terroristiche.
Dieci anni prima che lo stato dichiarasse nel 1948 la sua “indipendenza” su una terra rubata al popolo palestinese, Albert Einstein descrisse la proposta creazione di Israele come qualcosa che era in conflitto con “la natura essenziale dell’ebraismo”. Essendo fuggito dalla Germania di Hitler e alla fine diventato cittadino americano, Einstein non aveva bisogno di lezioni su cosa fosse il fascismo.
Uno dei più grandi fisici della storia, supportato da altri intellettuali ebrei di alto profilo, Einstein individuò i difetti e le linee di faglia di Israele nel 1946 quando si rivolse al Comitato d’Inchiesta anglo-americano sulla questione palestinese. Non riusciva a capire perché lo stato di Israele fosse necessario. “Credo che sia un male”, disse.
Due anni dopo, nel 1948, lui e un certo numero di accademici ebrei inviarono una lettera al New York Times per protestare contro una visita in America di Menachem Begin. Nella lettera ben documentata, denunciavano il partito Herut (Libertà) di Begin, paragonandolo a “un partito politico strettamente affine per organizzazione, metodi, filosofia politica e richiamo sociale ai partiti nazista e fascista”.
Herut era un partito nazionalista di destra che divenne il Likud guidato da Benjamin Netanyahu. Come leader del gruppo terroristico sionista Irgun, nato da una scissione della più grande organizzazione paramilitare ebraica, l’Haganah, Begin era ricercato per attività terroristiche contro le autorità del Mandato Britannico. Anche quando divenne primo ministro di Israele (1997-1983) non osò mai visitare la Gran Bretagna, dove era ancora nella lista dei ricercati.
Fu la violenza nel periodo precedente la nascita di Israele a ripugnare particolarmente ad Einstein, e senza dubbio questo era il suo primo pensiero quando rifiutò l’offerta di diventare presidente di Israele. L’offerta gli fu fatta nel 1952 dal primo ministro fondatore dello stato, David Ben-Gurion. Per quanto gentile fosse il suo rifiuto, Einstein credeva che quel ruolo sarebbe stato in conflitto con la sua coscienza di pacifista, oltre al fatto che avrebbe dovuto trasferirsi in Medio Oriente dalla sua casa di Princeton, nel New Jersey, dove si era stabilito come rifugiato tedesco.
Durante la mia ricerca sulle opinioni di Einstein mi sono imbattuta in un’altra delle sue lettere, meno conosciuta ma probabilmente molto più rivelatrice di qualsiasi altra da lui scritta sull’argomento della Palestina. Per quanto breve – solo 50 parole – contiene il suo avvertimento sulla “catastrofe finale” che stava per affrontare la Palestina nelle mani dei gruppi terroristici sionisti.
Questa particolare lettera è stata scritta meno di 24 ore dopo che erano filtrate le notizie sul massacro di Deir Yassin a Gerusalemme Ovest nell’aprile 1948. Circa 120 terroristi dell’Irgun di Begin e della banda Stern (guidati da un altro terrorista che è poi diventato primo ministro di Israele, Yitzhak Shamir), entrarono nel villaggio palestinese e massacrarono tra 100 e 250 uomini, donne e bambini. Alcuni morirono per i colpi delle armi da fuoco, altri per le bombe a mano lanciate nelle loro case. Altri abitanti del pacifico villaggio furono uccisi dopo essere stati portati in una grottesca parata attraverso Gerusalemme Ovest. Ci furono anche segnalazioni di stupri, torture e mutilazioni.
Un mese dopo, gli Inglesi terminarono il loro Mandato di governo in Palestina e nacque Israele. La legittimità rivendicata dai suoi fondatori era la Risoluzione di Spartizione delle Nazioni Unite del novembre 1947, che proponeva la divisione della Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme amministrata indipendentemente da entrambe le parti.
La lettera dattiloscritta di Einstein era indirizzata a Shepard Rifkin, il direttore esecutivo di American Friends of the Fighters for the Freedom of Israel, con sede a New York. Questo gruppo era stato originariamente lanciato per promuovere le idee anti-britanniche della banda Stern e raccogliere fondi in America per acquistare armi per cacciare gli inglesi dalla Palestina. Rifkin era stato nominato direttore esecutivo, anche se in seguito si definì “il capro espiatorio”. Gli era stato detto da Benjamin Gepner, un comandante ebraico in visita negli Stati Uniti, di rivolgersi a Einstein per chiedere il suo aiuto. Rifkin obbedì, ma sulla scia del massacro di Deir Yassin ricevette una risposta feroce dal fisico, contenuta in sole 50 parole:
Caro Signore,
Quando una catastrofe reale e definitiva dovesse capitarci in Palestina, il primo responsabile sarebbe la Gran Bretagna e il secondo responsabile sarebbero le organizzazioni terroristiche sviluppatesi [l’autrice dell’articolo aggiunge qui un “sic” perché Einstein fa un piccolo errore di inglese e scrive ‘build up’ invece che ‘built up’ NdT.] nei nostri stessi ranghi. Non sono disposto a incontrare nessuno che sia associato a quelle persone fuorviate e criminali.
Sinceramente suo,
Albert Einstein.
La lettera è stata autenticata e venduta all’asta quando è riemersa e da allora è stata descritta come uno dei documenti antisionisti più schiaccianti attribuiti al genio.
Questa lettera non potrebbe essere più diversa nel tono e nel contenuto dalla lettera che aveva scritto al Manchester Guardian nel 1929, in cui lodava i “giovani pionieri, uomini e donne di magnifico calibro intellettuale e morale, che spaccano pietre e costruiscono strade sotto i raggi ardenti” del sole palestinese” e “i fiorenti insediamenti agricoli che spuntano dal suolo da tempo deserto… lo sviluppo dell’energia idrica… [e] l’industria… e, soprattutto, la crescita di un sistema educativo… Quale osservatore… può non essere afferrato dalla magia di un risultato così straordinario e di una dedizione quasi sovrumana?”
Einstein basava le sue opinioni sulla sua visita di 12 giorni in Palestina nel 1923, in cui aveva tenuto lezioni all’Università Ebraica di Gerusalemme. Quella finì per essere la sua sola e unica visita in Terra Santa.
Essendo stato un pacifista per tutta la vita, si rese caro ai movimenti per la pace di tutto il mondo quando scrisse il “Manifesto agli Europei” per chiedere la pace in Europa attraverso l’unione politica di tutti gli stati del continente. Non c’è da stupirsi che non abbia mai visitato lo stato di Israele, che s’era formato dalle canne di fucile, dalla dinamite e dal sangue dei Palestinesi.
Ci sono stati molti “Deir Yassin” da quando il premio Nobel Einstein ha condannato apertamente quello che vedeva come terrorismo ebraico. Oggi, con Gaza ancora fumante per l’ultima brutale offensiva militare di Benjamin Netanyahu contro la popolazione civile in gran parte disarmata, il futuro dello stato sionista non è mai stato più precario.
Ci viene detto che tutte le carriere politiche finiscono con un fallimento, e quella di Netanyahu è solo un esempio. Ci viene anche detto che il collasso della società è inevitabile con la continua caduta dei governi e con l’aumento della violenza spesso causata da guerre e catastrofi.
In poco più di due anni, Israele ha tenuto quattro elezioni generali che non sono state in grado di produrre un governo stabile. Il modo usato da Netanyahu per mantenere la sua presa sul potere è stato dimostrare di essere l’uomo forte di cui il Paese ha bisogno per “difendersi” dai “terroristi” palestinesi.
Inoltre, è sotto il suo controllo che è stata approvata la Legge sullo Stato Nazione Ebraico, legge che contraddice l’affermazione che Israele è una democrazia liberale.
Non c’è da stupirsi, quindi, che un numero crescente di Ebrei di tutto il mondo – nel cui nome Israele afferma di esistere e agire – siano, come lo era Einstein, respinti dalla filosofia politica “nazista e fascista” di Herut che sembra essersi reincarnata sotto il Likud e i partiti che sono ancora più a destra nello spettro politico. In effetti, le persone oneste di tutte le fedi, o di nessuna, sono sconvolte dal fatto che l’estremismo di destra sembra essere sul punto di inghiottire tutta insieme la società israeliana.
https://www.middleeastmonitor.com/20210604-the-final-downfall-of-israel-was-predicted-by-einstein/
Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina
Gisha: video delle Green Girls tra bombardamenti, interruzione di energia elettrica, meloni e carote . Non si arrendono
“Durante i bombardamenti israeliani, ero pervaso da una paura profonda e intensa. Avevo paura per la mia incolumità, per la mia vita, per la distruzione degli appezzamenti di meloni e carote che avevamo piantato con grande fatica, per le enormi perdite che avremmo subito, per il fatto di non avere più nulla per cui vivere una volta che tutto fosse finito”.
Ghaidaa Qudaih, una delle tre fondatrici di Green Girls, un’impresa agricola indipendente nell’est della Striscia, ha ricostruito alcuni dei momenti di terrore vissuti durante l’ultimo attacco israeliano a Gaza: “I carri armati israeliani hanno bombardato un’area proprio accanto al perimetro della recinzione, vicino ai terreni agricoli. Il quinto giorno dell’attacco, lì è scoppiato un incendio. Io abito lì vicino. Continuavo a sbirciare dalla finestra verso il nostro terreno , mi si stringeva il cuore”. Qudaih , Aseel Alnajjar e Nadin Rock, non sono stati in grado di accedere alla terra durante gli undici giorni di ostilità per innaffiare le carote. I genitori di Qudaih, e quelli di Rock hanno approfittato dei momenti in cui i bombardamenti sembravano essere più lontani, una volta ogni due o tre giorni circa, per innaffiare almeno i meloni.
Un video prodotto da Gisha diversi mesi fa, con le ragazze dell’impresa agricola mostra come la chiusura di Israele, le sue continue restrizioni all’ingresso dei materiali necessari, l’irrorazione aerea di erbicidi vicino alla recinzione e le sue incursioni militari, ostacolino la piccola impresa avviata da Aseel, Ghaidaa e Nadin.
Ora devono fare i conti con i gravi danni causati dai bombardamenti israeliani alle infrastrutture idriche ed elettriche di Gaza, nonché con le continue restrizioni israeliane all’ingresso di carburante per la centrale elettrica di Gaza, in vigore dall’11 maggio. Quando abbiamo parlato con Qudaih, i residenti ricevevano corrente per non più di 4 ore consecutive, seguita da un’interruzione di 16 ore. Ad oggi i residenti ricevono tra le 6-8 ore di alimentazione seguite da interruzioni di 8 ore. “Molti giovani a Gaza hanno perso del tutto i loro affari, quindi ci sentiamo fortunati”, ci ha detto. “Ora stiamo cercando di innaffiare i raccolti ogni giorno, ma non possiamo pompare acqua quando non c’è elettricità”.
“Oggi siamo noi i nazisti,” afferma il membro di un gruppo israeliano di ebrei estremisti – Ali Abunimah e Tamara Nassar
Ebrei israeliani estremisti hanno utilizzato servizi di messaggistica istantanea per organizzare milizie armate con lo scopo di attaccare palestinesi di cittadinanza israeliana.
Messaggi vocali, sms e altro indicano che hanno coordinato attacchi in città dove i palestinesi vivono in stretta vicinanza con gli ebrei – quali Haifa, Bat Yam e Tiberiade a nord, Ramla e Lydd – Lod in ebraico – al centro fino a Beersheba [Be’er Sheva in ebraico, ndtr] nel sud di Israele.
Agli attacchi coordinati si sono uniti anche coloni di insediamenti coloniali ebraici in Cisgiordania, sembra con la conoscenza e collusione di funzionari israeliani.
La comunicazione è avvenuta tramite WhatsApp e Telegram, oltre a gruppi Facebook.
In molti casi gli estremisti organizzatori hanno detto di avere contato sul sostegno attivo o passivo delle autorità israeliane.
Gli organismi di ricerca israeliani Fake Reporter e HaBloc hanno intercettato dei messaggi di alcuni gruppi e hanno riferito le loro scoperte alla polizia israeliana definendole una “bomba ad orologeria.”
“E’ triste sapere che nonostante i nostri sforzi, si sia fatto concretamente pochissimo,”, ha dichiarato Fake Reporter.
“Nessuna autorità competente potrebbe sostenere di non avere saputo,”, ha dichiarato HaBloc.
“Siamo noi i nazisti”
Fake Reporter ha pubblicato schermate dove membri di quei gruppi discutevano quali armi usare e decidevano dove incontrarsi per attaccare palestinesi e bruciare moschee. Animati da violento razzismo, impegnati nelle provocazioni contro i palestinesi.
Tali messaggi venivano diffusi contestualmente a recenti attacchi di estremisti ebrei israeliani contro i palestinesi, le loro case e imprese, e mentre Israele nell’ultima settimana intensificava gli attacchi contro Gaza e la Cisgiordania occupata.
“Non siamo più ebrei oggi,” scriveva un utente di un gruppo Telegram che si definisce “Il popolo di Holon, Bat Yam e Rishon Lezion scende in guerra.”
“Oggi siamo nazisti.”
Questi paesi si trovano nella cintura meridionale di Tel Aviv.
I video postati da HaBloc, che sembra siano stati girati il 12 e 13 maggio, mostrano persone già presenti a Bat Yam o che lo stanno raggiungendo, ed alcuni di loro scandiscono “morte agli arabi.”
Il 12 maggio una gran folla di ebrei israeliani ha trascinato fuori dalla macchina un palestinese e lo ha brutalmente percosso mentre l’aggressione veniva trasmessa dal vivo in televisione.
La vittima, Said Musa, è rimasto gravemente ferito prima di venire trasportato in ospedale.
“Mi hanno chiesto se fossi arabo, credevo che avessero bisogno di aiuto e ho detto: sì, posso aiutarvi?” ha raccontato Musa ad un giornalista israeliano.
In un gruppo WhatsApp che si chiama “Gruppo di combattimento – Morte agli arabi di Haifa”, i partecipanti avevano ricevuto istruzioni di portare bandiere israeliane e di trovarsi mascherati all’ingresso della città vecchia di Acri.
In un altro gruppo WhatsApp denominato “Fanculo gli arabi, sede di Afula, morte agli arabi” che conta 165 membri, uno ha postato la foto di una fiocina.
Sempre lo stesso ha scritto, “bottiglie molotov, ecco l’arma per oggi.”
Un video postato nello stesso gruppo mostra due uomini mascherati, uno dei quali impugna due grandi coltelli e dice, “coltellate in testa, oggi terrore.”
In un altro messaggio per i membri del gruppo La Familia, una persona incita a dar fuoco ad una moschea a Lydd.
La Familia è il famigerato gruppo di ultrà del Beitar Jerusalem, la squadra di calcio che dall’anno scorso è proprietà congiunta di un membro della famiglia reale di Abu Dhabi.
I tifosi del club sono tristemente noti per le violenze ai danni dei palestinesi, generalmente accompagnate da cori di “morte agli arabi.”
La polizia “ci darà man forte”
Adalah, gruppo che sostiene i diritti dei palestinesi in Israele, è venuto in possesso di messaggi vocali e comunicazioni interne fra estremisti ebrei che concertavano aggressioni contro i palestinesi.
Tutti i messaggi vocali pubblicati da Adalah sono del 13 maggio, serata che numerosi osservatori hanno paragonato ad un pogrom.
“La polizia non ci farà nulla, ci darà man forte e farà finta di niente,” dice un israeliano in un messaggio vocale ad altri attivisti ebrei di estrema destra.
“Le regole non valgono più. Tutto brucia,” dice una persona.
“In marcia con le armi, in marcia con quello che ti pare,” dice un altro.
“I tizi di Yitzhar, loro sono già arrivati, arrivati con sei pullman,” dice un altro in un diverso messaggio vocale.
Yitzhar è una colonia costruita su centinaia di acri di terra rubati ad Urif e ad altri villaggi palestinesi nella Cisgiordania occupata.
E’ abitata da coloni estremamente violenti, che attaccano sovente sia i palestinesi sia le loro greggi, frutteti e proprietà.
“Sei pullman vuol dire 380 persone, 380 persone tutte armate, raga. Tutti mascherati,” aggiunge.
“Ognuno di loro, raga, non vede l’ora di ammazzare gli arabi, raga. Vogliono ammazzare gli arabi.”
L’Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele (High Follow-Up Committee for Arab Citizens of Israel) ha dichiarato che “le autorità di polizia conoscono bene questi gruppi” e “risulta che proteggano i giustizieri ebrei israeliani e i gruppi dei coloni.”
L’Alto Comitato di Controllo, formato da rappresentanti eletti, dirigenti di partito e rappresentanti della comunità, è l’organismo rappresentante de facto dei palestinesi di cittadinanza israeliana.
Con l’approvazione delle autorità
Ci sono ulteriori prove che le autorità israeliane non solo ne fossero al corrente, ma che addirittura abbiano sostenuto le premeditate violenze di massa.
Un video diffuso il 12 maggio da alcuni giornalisti israeliani mostra Yossi Harush, vicesindaco di Lydd, mentre dice a diversi parlamentari di primo piano che centinaia di coloni stavano arrivando dalla Cisgiordania per “proteggere” le case degli ebrei.
“Il consiglio che darei a tutti i cittadini arabi è di non lasciare le proprie case,” dice Harush.
Ha poi detto che i coloni si erano “offerti volontari” per “incrementare la sicurezza.”
Un video in possesso di Adalah mostra una dozzina di auto in sosta con diverse persone intorno e un uomo che parla in ebraico.
“Questa è gente della Giudea e Samaria,” dice, usando i nomi con cui Israele chiama la Cisgiordania occupata.
“Fucili a canna corta M-16, chiunque voglia venire a proteggere lo Stato è il benvenuto,” dice.
“Oggi gli spacchiamo le ossa.”
Adalah ha annunciato che avrebbe proceduto per vie legali contro le autorità israeliane per non avere impedito le aggressioni contro i palestinesi da parte di queste bande di ultranazionalisti.
In diverse schermate di messaggi Telegram e WhatsApp postate da israeliani e utenti di social media si vedono tattiche e istigazioni simili.
Il gruppo israeliano di diritti umani B’Tselem ha rivelato che gruppi di coloni, quali l’organizzazione di estrema destra Regavim e un’altra chiamata My Israel, stavano costituendo milizie armate per recarsi in città miste all’interno di Israele il 13 maggio.
My Israel ha chiamato a raccolta “veterani militari armati”, “proprietari di mezzi corazzati” e “diplomati a corsi per ufficiali di combattimento” perché si coalizzassero.
Le bande ultranazionaliste sono state di parola: la scorsa settimana hanno devastato città, distrutto imprese commerciali palestinesi, marchiato case di palestinesi e aggredito cittadini palestinesi nelle strade.
Morti e feriti
I palestinesi di cittadinanza israeliana hanno protestato nelle strade in solidarietà con i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania occupata.
Sono stati segnalati i casi di una sinagoga di Lydd data alle fiamme e di aggressioni ad israeliani, poliziotti e militari compresi.
Lunedì scorso Yigal Yehoshua, un ebreo di 56 anni, è deceduto per una ferita alla testa che sembra sia stata causata da un mattone scagliato contro la sua macchina durante una rivolta palestinese avvenuta a Lydd il martedì precedente.
Secondo quanto riferito da Sheikh Yusef al-Bazz, l’imam locale, Yehoshua sarebbe stato aggredito da ebrei israeliani che lo avevano scambiato per un arabo.
La causa della ferita mortale di Yehoshua non è stata ancora chiarita.
La sera prima che Yehoshua rimanesse ucciso, Moussa Hassouna, palestinese con cittadinanza israeliana, era stato colpito a morte da abitanti ebrei di Lydd, che avevano invocato la “legittima difesa”, secondo il Times of Israel.
Secondo quanto scritto dal giornale, l’inchiesta iniziale aveva evidenziato che “Hassouna si trovava a decine di metri dagli ebrei indiziati quando è stato colpito dallo sparo.”
Le autorità israeliane hanno arrestato per poi rilasciarli quattro ebrei sospettati del crimine.
E a Giaffa un dodicenne palestinese ha riportato gravi ustioni dopo che la sua casa è stata attaccata con bombe incendiarie. Anche la sorellina di dieci anni ha riportato ferite, seppur meno gravi, nel corso dell’attacco.
Sembra che le videocamere di sorveglianza abbiano ripreso prima dell’attacco due uomini incappucciati in un vicolo contiguo.
La polizia ha arrestato un sospetto arabo. Ma secondo Haaretz, il padre dei bambini “stenta a credere che chi ha aggredito la sua famiglia fosse un arabo, e che la polizia abbia fatto un errore di identificazione.”
Infatti la sua casa era decorata con mezzelune per il Ramadan – anche se le luci delle decorazioni non funzionavano.
In un discorso del 15 maggio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha esortato i cittadini ebrei e palestinesi di Israele ad astenersi dall’uso della violenza. Il suo linguaggio, però, rifletteva il razzismo sistemico dello Stato di Israele.
“Non lasceremo che i nostri cittadini ebrei vengano linciati o minacciati da bande di arabi assassini,” ha dichiarato Netanyahu, che contestualmente si è limitato ad ammonire i cittadini ebrei a non “farsi giustizia da soli e aggredire arabi innocenti, o linciare un arabo innocente.”
Minimizzando la portata della violenza degli ebrei israeliani, Netanyahu ha dichiarato che “si era in effetti verificato un caso simile.”
Adalah ha affermato che Netanyahu “continua a rimarcare che la polizia israeliana, che agisce con brutale violenza nei confronti dei cittadini palestinesi, otterrà il pieno sostegno politico alle sue azioni.”
I palestinesi con cittadinanza israeliana sono i sopravvissuti e discendenti della Nakba, la pulizia etnica della Palestina perpetrata dalle milizie sioniste prima e dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948.
A differenza dei milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, essi godono di qualche diritto civile, quale il diritto di voto. Sono però soggetti a radicate forme di discriminazione sancite da decine di leggi.
“La certezza del diritto non vale quando si tratta di palestinesi” e questo riguarda l’intera Palestina storica, aggiunge Adalah. Come affermato all’inizio dell’anno da B’Tselem, la “supremazia ebraica” è “l’unico principio guida” di Israele.
“I cittadini palestinesi, a livello collettivo, temono per la propria vita,” ha dichiarato domenica l’Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele, appellandosi alla comunità internazionale perché intervenga per aiutare a proteggerli “sia dallo Stato sia dai privati.”
Tamara Nassar è direttore associato e Ali Abunimah è direttore esecutivo di The Electronic Intifada.
traduzione dall’inglese di Stefania Fusero
Israele ha affermato che le sue conquiste di terre del 1967 non erano state pianificate. I documenti declassificati rivelano altrimenti – Adam Raz
Per anni, la maggior parte della storiografia israeliana ha sostenuto che i politici del paese sono stati colti di sorpresa dai frutti della vittoria, raccolti alla velocità della luce nel giugno 1967. “La guerra”, ha detto il ministro della Difesa Moshe Dayan, tre giorni dopo la sua conclusione, ” si è sviluppata su fronti che non erano previsti e non erano stati pianificati da nessuno, in ciò includo anche me”. Sulla base di queste e altre affermazioni si è radicata l’opinione che la conquista dei territori fosse una nuova realtà che nessuno voleva.
Tuttavia, la documentazione storica conservata negli Archivi di Stato israeliani , negli archivi delle forze di difesa israeliane e dell’establishment della difesa negli ultimi anni richiede di mettere in dubbio la credibilità di tale visione. Le informazioni qui citate costituiscono solo una piccola parte di un’ampia documentazione presente negli archivi governativi relativa alla conquista dei territori che rimane riservata. È stata necessaria un’ostinata perseveranza a lungo termine per effettuare la declassificazione di alcuni dei documenti sui quali si basa questo articolo.
I documenti descrivono i dettagliati preparativi, fatti nelle forze armate negli anni precedenti al 1967, per organizzare in anticipo il controllo di territori che l’establishment della difesa valutava – con grande certezza – sarebbero stati conquistati nella prossima guerra. Un’analisi delle informazioni indica che l’acquisizione e il mantenimento di queste aree – la Cisgiordania dalla Giordania, la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza dall’Egitto, le alture del Golan dalla Siria – non erano un sottoprodotto dei combattimenti, ma la manifestazione di un approccio strategico e di preparativi preliminari.
I meticolosi preparativi dell’IDF per conquistare i territori erano già iniziati all’inizio degli anni ’60. Erano, in parte il prodotto della breve e amara esperienza israeliana della conquista – e successiva evacuazione – della penisola del Sinai e della Striscia di Gaza nella guerra del Sinai del 1956. È in questo contesto che va inteso il documento intitolato “Proposta per organizzare il governo militare”, scritta dal capo delle operazioni, il colonnello Elad Peled, nel giugno 1961, e presentata al capo di stato maggiore Tzvi Tzur. Sei anni prima della Guerra dei Sei Giorni, la proposta consisteva in una dettagliata pianificazione iniziale delle forze necessarie per governare quelli che sarebbero diventati i territori occupati.
Due anni dopo, nell’agosto del 1963, lo Stato Maggiore Generale dell’IDF ,allora guidato da Yitzhak Rabin, elaborò una direttiva ampiamente diffusa sull’organizzazione del governo militare nei territori. Questo ordine getta luce, nelle sue parole, sulle “previste direzioni di espansione” di Israele, che, nella valutazione del personale di sicurezza ,sarebbero state al centro della prossima guerra. Questi territori includevano la Cisgiordania, il Sinai, le alture siriane ,Damasco e il Libano meridionale fino al fiume Litani.
L’ordine dell’agosto 1963 fu preparato a seguito di una valutazione, due mesi prima, da parte dell’unità del governo militare che controllava la vita degli arabi in Israele . Nella corrispondenza interna suggeriva che la futura organizzazione del governo nei territori sarebbe stata eseguita “in fretta” e “non soddisfa completamente tutte le esigenze”.
Il documento, chiamato” Governo militare in stato di emergenza”, affermava che “la spinta dell’IDF a trasferire la guerra nei territori del nemico avrebbe portato necessariamente all’espansione [in] e alla conquista di aree oltre i confini dello stato”. Basandosi sull’esperienza israeliana nel periodo successivo alla campagna del Sinai, sottolineava che sarebbe stato necessario installare rapidamente un governo militare, perché “queste conquiste potrebbero durare solo poco tempo e dovremo evacuare i territori a seguito delle pressioni internazionali o a un accordo”. La parte successiva invece, era destinata a coloro che sarebbero stati incaricati di amministrare il governo militare nella futura area occupata .Lo sfruttamento di quella “conveniente situazione” rendeva infatti necessaria la meticolosa organizzazione delle modalità di governo militare nei territori occupati. Di conseguenza l’IDF ha dedicato attenzione all’addestramento e alla preparazione delle unità e degli organi amministrativi che avrebbero governato la popolazione palestinese. Avevano ampie responsabilità: dalle questioni legali relative all’occupazione dei territori, alla raccolta di informazioni sulla popolazione e alle infrastrutture in Cisgiordania.
Nessuno all’interno dell’establishment della difesa ha contestato il potere superiore dell’IDF e la sua capacità di conquistare rapidamente i territori dell’ Egitto, della Giordania e della Siria . Prima del 1967 gli ufficiali del governo militare ,che esisteva all’interno di Israele ,erano preoccupati per la preparazione delle unità che avrebbero governato nei territori. Insieme alla dottrina militare che prevedeva lo spostamento dei combattimenti in territorio nemico, esisteva una dottrina relativa al governo dei civili, basata sul riconoscimento che in seguito a tale acquisizione, Israele avrebbe controllato una popolazione civile occupata e ciò avrebbe richiesto l’istituzione di una burocrazia governativa militare.
Il colonnello Yehoshua Verbin, nella sua qualità di comandante del governo militare in Israele fino al 1966, con una vasta esperienza nell’operare i meccanismi di supervisione e controllo sui palestinesi di Israele, ha svolto un ruolo centrale nei preparativi per istituire un governo militare in i territori conquistati. In un momento di franchezza, nel dicembre 1958, ammise in un comitato ministeriale che si era riunito per discutere il futuro del governo militare all’interno di Israele: “Non ho nemmeno deciso se stiamo facendo loro più male o bene”. Tuttavia, in qualità di alto ufficiale comandante, nel giugno 1965, avvertì il suo superiore, Haim Bar-Lev, che le strutture di comando dell’amministrazione per governare i territori occupati non erano sufficientemente qualificate per svolgere la loro futura missione. “Sono stati fatti pochissimi progressi su questo argomento”. Ha aggiunto: “Sembra che i comandi dell’amministrazione nei territori occupati non saranno adatti a svolgere i loro compiti”. Il governo militare ,imposto ai palestinesi di Israele dal 1948 costituiva il modello per governare i territori che sarebbero stati conquistati in guerra. Nel 1963, le unità del governo militare avevano già 15 anni di esperienza nell’imporre “ordine” e supervisione su cittadini palestinesi, attraverso un rigido regime di permessi.
Tuttavia, dopo la guerra del 1967, il ministro della Difesa Dayan respinse la proposta del capo dei servizi di sicurezza dello Shin Bet ,Yosef Harmelin, di replicare nei territori le forme di controllo del governo militare israeliano (posizione che per anni fu citata per dimostrare la presunta visione illuminata di Dayan ). Sebbene Dayan si sia generalmente astenuto dal nominare ex governatori militari all’interno di Israele come governatori dei territori conquistati, la normalizzazione dell'”occupazione illuminata” aveva un carattere simile a quello del governo militare imposto all’interno di Israele. Di conseguenza, quanto più vaga era la temporaneità dell’occupazione, tanto più cruda e violenta diventava.
Per illustrare la linea diretta che collegava il governo militare esistente in Israele (fino al dicembre 1966) a quello operante nei territori dopo la guerra del giugno 1967, è sufficiente guardare alla metamorfosi che subirono i suoi rami ufficiali. Nei mesi successivi alla guerra, l’unità che aveva gestito il governo militare in Israele fu ribattezzata “dipartimento dell’amministrazione militare e della sicurezza territoriale”. Oggi è conosciuto con un nome diverso e più accattivante: “Coordinatore delle attività di governo nei territori”.
Adam Raz è un ricercatore presso l’Akevot Institute for Israel-Palestinian Conflict Resea
UNA FONTE D’ACQUA, DUE MILIONI DI PERSONE: GAZA DEVE ESSERE LIBERATA DALLA SUA COSTRIZIONE – AMIRA HASS
La Valle di Jezreel misura 350 chilometri quadrati, poco meno dell’area della Striscia di Gaza. Jezreel ospita 40.000 israeliani. I 365 chilometri quadrati di Gaza ospitano due milioni di palestinesi. Molti discendono da persone nate ad Ashkelon (Majdal) e Ashdod (Isdud), città appena a nord di Gaza, e nei villaggi che divennero le comunità ebraiche vicino al confine di Gaza.
Facciamo un confronto con Israele. Ha una popolazione di 9,3 milioni di abitanti, compresi i coloni in Cisgiordania, Gerusalemme Est e sulle alture del Golan. Compreso il Golan e Gerusalemme Est, conquistati nel 1967, Israele ha una superficie di 22.000 chilometri quadrati. A ciò si aggiunge circa la metà della Cisgiordania occupata dai coloni e dalle loro milizie (l’IDF e la gioventù delle colline), e arriva a 25.000 chilometri.
Quindi, una popolazione palestinese equivalente a un quinto della popolazione israeliana vive in un’area grande appena l’uno e mezzo per cento.
Un’altra statistica relativa alla densità della popolazione dimostra quanto sia instabile questa situazione. Gli israeliani vivono in un territorio con una densità di popolazione di 372 persone per chilometro. A Gaza, la densità è di 5.479 persone per chilometro quadrato, che è 15 volte superiore. Questo, come il deliberato sovraffollamento nelle città palestinesi in Israele, non ha il potenziale per relazioni di buon vicinato.
Parliamo ora dell’acqua. Nel 1947, circa 80.000 palestinesi vivevano nelle città e nei villaggi che divennero la Striscia di Gaza. Avevano a disposizione una falda acquifera, che produceva 60 milioni di metri cubi di acqua all’anno. Questo è bastato anche per gli ulteriori 200.000 palestinesi che furono espulsi a Gaza nel 1948 e divennero rifugiati.
Oggi, questa unica falda acquifera, con la stessa capacità, dovrebbe fornire acqua a due milioni di persone. Il pompaggio eccessivo è iniziato 35 anni fa, quando non c’era altra scelta. Perché? Perché Israele si rifiuta di includere la Striscia di Gaza nell’economia idrica del Paese e le impone di accontentarsi di ciò che produce il segmento della falda acquifera costiera che ricade nel suo territorio, indipendentemente dalle dimensioni della popolazione. Il risultato: più del 95% dell’acqua di Gaza non è potabile e deve essere depurata dalle acque reflue e dall’acqua di mare che vi penetrano.
Più di 800.000 abitanti di Gaza, il 43% della popolazione, hanno meno di 14 anni. La fascia di età 15-24 anni rappresenta il 21% della popolazione.
I quindicenni hanno attraversato quattro guerre, ma la maggior parte non sa che aspetto abbia una collina. Israele non gli permette di uscire dall’enclave per visitare le colline della Cisgiordania, figuriamoci le montagne della Galilea. Non sanno cosa significhi bere l’acqua direttamente dal rubinetto. Per loro l’acqua potabile è quella nei contenitori che il padre porta a casa.
Il 75% degli abitanti di Gaza sono rifugiati originari di villaggi e città che ora si trovano all’interno di Israele. Israele può inasprire le restrizioni alla loro mobilità, ma il loro legame con il resto della loro patria non diminuisce. Più dure e severe sono le condizioni della loro prigionia, più l’abilità e la volontà di vivere degli abitanti di Gaza sorprendono e ispirano.
Israele è riuscito a far pensare alla maggior parte degli israeliani alla Striscia di Gaza come un’enclave politica separata. Anche il sito web della CIA la mostra come un “paese” separato. I governi di Hamas e dell’Autorità Palestinese hanno talvolta dato una mano a creare questa illusione.
Ma i confini artificiali di Gaza inevitabilmente imploderanno. Lo vediamo nelle acque reflue che fluiscono non trattate da Gaza direttamente nel mare, perché Israele non lascia entrare a Gaza carburante o materie prime, senza le quali gli impianti di depurazione non possono funzionare. Il liquame tuttavia non distingue il confine marittimo e raggiunge le spiagge di Ashkelon.
Anche la memoria collettiva va oltre i confini. E anche Hamas, soprattutto quando opera come uno stato separato, attraversa il confine con i suoi audaci razzi. Se non apriamo questa stretta gabbia e liberiamo le persone imprigionate lì a vita, il terribile divario tra le condizioni disumane per i palestinesi e la loro voglia di vivere continuerà a esploderci contro proprio come una raffica di razzi.
In memoria di Mohammed Saeed Hamayel, un ragazzo di Palestina – Umberto De Giovannangeli
Aveva 15 anni Mohammed Saeed Hamayel. Quindici anni e una vita davanti a sé. Una vita che è stata spezzata oggi, Mohammed Saeed Hamayel, quindicenne palestinese è rimasto ucciso in scontri da militari israeliani nel villaggio di Beita, a Sud-Est di Nablus, in Cisgiordania. Lo ha riportato l’agenzia di stampa palestinese Wafa, citando la Mezzaluna Rossa palestinese. Il ministero della Salute palestinese ha confermato il decesso dell’adolescente. Negli stessi scontri sono rimasti feriti altri sei palestinesi dopo che i militari hanno iniziato a sparare; tutti e sei sono stati ricoverati presso l’ospedale di Nablus mentre decine di altri protestanti sono stati intossicati dai lacrimogeni. Gli scontri sono scoppiati mentre i palestinesi protestavano contro la creazione del nuovo avamposto non autorizzato di Evyatar vicino Nablus.
Cosa pensereste di un regime che permette di sparare ai bambini, che li rapisce nel sonno, che distrugge le loro scuole? E come può spacciarsi come “l’unica democrazia del Medio Oriente” quel Paese che permette di tenere un minorenne spogliato nudo, rinchiuso per 22 giorni in una cella umida e piena di topi. O che obbliga i bambini arrestati a stare per lunghi periodi in piedi, senza vestiti?
Questo Paese è Israele. Che ha dichiarato guerra ai bambini palestinesi.
Il racconto di un giornalista coraggioso
Per chi ha ancora dei dubbi, Globalist offre il reportage dell’icona del giornalismo israeliano, firma storica di Haaretz: Gideon Levy. Un reportage di un anno fa, ma che mantiene una stringente, tragica attualità. “La settimana scorsa – scrive – eravamo nel campo profughi di Al-Arroub, alla ricerca di uno spazio aperto in cui sedersi, per paura del coronavirus. Non ce n’era uno. In un campo in cui la casa tocca la casa, i cui vicoli sono larghi quanto un uomo e disseminati di spazzatura, non c’è nessun posto dove sedersi fuori. Si può solo sognare un giardino o una panchina, non c’è nemmeno un marciapiede. Qui è dove vive Basel al-Badawi. Un anno fa i soldati hanno sparato a suo fratello, davanti ai suoi occhi, senza motivo. Due settimane fa, Basil è stato strappato dal suo letto in una notte fredda e portato via, a piedi nudi, per essere interrogato. Ci siamo seduti nella casa angusta della sua famiglia e ci siamo resi conto che non c’era nessun “fuori” da cui andare. Mentre eravamo lì, i soldati israeliani hanno bloccato l’ingresso del campo, come fanno di tanto in tanto, in modo arbitrario, e il senso di soffocamento non ha fatto che crescere. Questo è il mondo di Basil e questa è la sua realtà. Ha 16 anni, un fratello in lutto, che è stato rapito dal suo letto nel buio della notte dai soldati. Non ha nessun posto dove andare, tranne la scuola, che è chiusa per una parte della settimana a causa di Covid-19. Basilea è libera ora, più fortunata di certi altri bambini e adolescenti. Circa 170 di loro sono attualmente detenuti in Israele. Altri bambini vengono fucilati dai soldati, feriti e talvolta uccisi, senza distinzione tra bambini e adulti – un palestinese è un palestinese – o tra una situazione di pericolo di vita e un ‘disturbo pubblico’.
Venerdì hanno ucciso Ali Abu Alia, un ragazzo di 15 anni. È stato un colpo letale all’addome. Nessuno poteva rimanere indifferente alla vista del suo volto innocente nelle fotografie, e della sua ultima foto – in un sudario, con il volto esposto, gli occhi chiusi, mentre veniva portato alla sepoltura nel suo villaggio. Ali, come ogni settimana, andava con i suoi amici a manifestare contro gli avamposti selvaggi e violenti che spuntavano dall’insediamento di Kokhav Hashahar, impadronendosi della restante terra del suo villaggio, al-Mughayir. Non c’è niente di più giusto della lotta di questo villaggio, non c’è niente di più atroce dell’uso della forza letale contro i manifestanti e non c’è alcuna possibilità che sparare ad Ali nell’addome possa essere giustificato. In Israele, naturalmente, nessuno ha mostrato interesse nel fine settimana per la morte di un bambino, un altro bambino. Fino all’anno scolastico in corso, circa 50 bambini della comunità di pastori di Ras a-Tin hanno studiato nella scuola di al-Mughayir, il villaggio del ragazzo deceduto. Dovevano camminare per circa 15 chilometri al giorno, andata e ritorno, per partecipare. Quest’anno i loro genitori, con l’aiuto di un’organizzazione umanitaria della Commissione Europea con sede in Italia, hanno costruito per loro una scuola modesta e affascinante nel villaggio. L’amministrazione civile israeliana minaccia di demolirla, e nel frattempo tormenta gli alunni e gli insegnanti con visite a sorpresa per verificare se i servizi igienici sono stati, Dio non voglia, collegati a un tubo dell’acqua – in un villaggio che non è mai stato collegato alla rete elettrica o alla rete idrica. I bambini di Ras a-Tin devono aver conosciuto Ali, il loro ex compagno di classe, ora morto. I bambini non conoscevano Malek Issa, di Isawiyah, a Gerusalemme Est. Il bambino di 9 anni ha perso un occhio dopo essere stato colpito da un proiettile con la punta di spugna sparato da un agente di polizia israeliano. Giovedì il dipartimento del Ministero della Giustizia che esamina le accuse di cattiva condotta della polizia ha annunciato che nessuno sarebbe stato accusato della sparatoria, dopo 10 mesi di intense indagini. È bastato che i poliziotti coinvolti dichiarassero che erano state scagliate loro delle pietre, forse una di esse ha colpito il ragazzo. Ma nessun video mostra che siano state lanciate pietre, né ci sono altre prove di questo. Anche gli assassini di Ali possono dormire in pace: Nessuno li perseguirà. Tutto quello che hanno fatto è stato uccidere un bambino palestinese. Questi e molti altri incidenti si verificano in un periodo tra i più tranquilli della Cisgiordania. Questo è il terrore che si sta verificando, commesso dallo Stato. Quando sentiamo parlare di questi incidenti in dittature feroci – bambini che vengono strappati dal loro letto nel cuore della notte, un ragazzo a cui hanno sparato in un occhio, un altro a cui hanno sparato e ucciso – ci fa venire i brividi. Sparare ai dimostranti? Ai bambini? Dove accadono queste cose? Non in qualche terra lontana, ma a un’ora di macchina da casa tua; non in qualche oscuro regime, ma nell’unica democrazia. Cosa penserebbe di un regime che permette di sparare ai bambini, che li rapisce nel sonno e distrugge le loro scuole? Questo è esattamente ciò che si deve pensare del regime qui nel nostro Paese”.
La denuncia di Save the Children
160 bambini palestinesi stanno vivendo una situazione drammatica, si trovano in prigione in attesa di interrogatorio. Soli, inascoltati, esposti ad enormi rischi a cui ora si aggiunge anche il coronavirus – documenta Save The Children in un recente Rapporto -Ancora oggi circa 500-700 bambini Palestinesi della Cisgiordania vengono processati e detenuti secondo la legge militare israeliana, ogni anno. Sono gli unici bambini al mondo ad essere sistematicamente processati da tribunali militari, con processi iniqui, arresti violenti, spesso notturni e interrogatori coercitivi. L’accusa più comune è il lancio di pietre, per cui si può arrivare ad una pena di 20 anni.
In prigione sono sottoposti ad abusi emotivi e fisici, l’assistenza sanitaria e il sostegno psicosociale sono per loro molto limitati e con l’emergenza coronavirus la loro situazione si è ulteriormente aggravata. Al momento, quasi 160 bambini si trovano nelle carceri militari israeliane, in attesa di processo o condanna.
Da marzo 2020, con l’inizio della pandemia, a questi bambini è impedito di ricevere visite dai propri genitori e parenti. Non possono neanche incontrare i loro avvocati e quindi anche il supporto legale è minimo.
Questa situazione crea ulteriori difficoltà e sofferenze per i bambini e li rende vulnerabili a possibili violazioni, inclusa la pressione ad autoincriminarsi. Senza dimenticare il concreto rischio di contrarre il Covid19 a causa della mancanza di spazio nelle celle e dell’accesso minimo che hanno ai servizi igienici.
Il coronavirus infatti ha già raggiunto le carceri israeliane dove sono detenuti i bambini, dove sono stati registrati diversi casi.
Abusati, le testimonianze
Ala è stato arrestato mentre andava a scuola durante degli scontri. Colpito da proiettili di gomma e ferito al piede e alla testa ha subito prima un interrogatorio di 5 giorni e solo dopo è stato visitato da un medico. Dopo aver trascorso alcuni giorni in ospedale per le ferite riportate è stato trasferito in prigione. Ha dovuto dividere una cella di circa 20 metri quadri con altri 9 ragazzi, alcuni anche molto più piccoli di lui. La paura del Coronavirus era tanta e i ragazzi provavano a mantenere pulito questo spazio angusto in cui erano costretti, ma senza disinfettanti e con le guardie che entravano continuamente nelle celle, spesso con i cani, era praticamente impossibile. Ora Ala è stato per fortuna rilasciato ma teme fortemente per gli altri ragazzi che sono ancora in carcere. Lui ha vissuto fino a poco temo fa in quella situazione e sa che il pericolo di ammalarsi è reale.
Un altro minore (Ubay Mohammad Odeh, minore dei territori occupati di Gerusalemme) è stato arrestato mentre andava a scuola con taxi, è stato fermato per un controllo di documenti. I soldati gli hanno detto che la carta di identità non andava bene, e lo hanno portato via coprendogli la testa con un cappuccio, in un campo di detenzione. É stato spogliato nudo e messo in isolamento, dopo essere stato interrogato, nella sezione degli adulti. È rimasto così per 22 gg. in una cella umida e piena di topi. Durante i trasferimenti per gli interrogatori ha subito continue aggressioni da parte dei militari che lo accusavano di avere picchiato un giudice.
Abdul-Salam Abu Al-Hayjah (16 anni del campo profughi di Jenin) è stato esposto a gravi torture, per costringerlo a dire dove è nascosto suo padre. Nel suo interrogatorio hanno minacciato di uccidere il padre e di deportare la sua famiglia. É obbligato a stare per lunghi periodi in piedi, senza vestiti. Gli è impedito di fare una doccia, e chi lo interroga lominaccia che non rivedrà più la luce del sole finchè non avrà dato tutte le informazioni che gli sono richieste.
Altri minori hanno denunciato una guardia che aveva tentato in più occasioni di violentare qualcuno di loro. La guardia è stata arrestata e condannata a tre anni di prigione. I minori, sono stati brutalmente percossi mentre venivano portati dalla prigione al Tribunale, e si trovavano nelle mani delle guardie.
In memoria di Mohammed Saeed Hamayel, un ragazzo di Palestina.
Piloti israeliani: non siamo riusciti a fermare i razzi di Hamas, così abbiamo sfogato la nostra frustrazione sulle torri residenziali di Gaza – Richard Silverstein
Il sito di notizie israeliano Mako ha pubblicato una serie di interviste esclusive con i piloti dell’Aviazione Militare Israeliana i cui bombardamenti a Gaza hanno destato la costernazione di gran parte del mondo, alla vista della distruzione degli edifici di 12 piani che ospitavano gli uffici dei media d’informazione, case editrici e appartamenti residenziali, ridotti in macerie in pochi secondi. Dall’inizio di questo conflitto a Gaza, il mondo era scettico sulle motivazioni e sugli obiettivi israeliani. Ma la distruzione sfrenata di edifici che chiaramente non avevano uno scopo militare, è riuscita a schierare il mondo contro la guerra.
Tutti i piloti credono di aver compiuto la loro missione con onore. Credono che i loro obiettivi abbiano un valore militare per Hamas e la loro distruzione abbia danneggiato la capacità di combattimento del nemico. Anche se qualcuno aveva dei dubbi.
Il rapporto inizia descrivendo l’operazione aerea, in cui alcuni aerei da guerra si avvicinano agli edifici presi di mira da diverse angolazioni. Ogni aereo prende di mira una parte diversa della struttura in modo che quando gli ordigni colpiscono simultaneamente, facciano crollare l’edificio. L’obiettivo è, come lo descrive il giornalista, solo distruggere il singolo edificio e non danneggiare strutture o civili che potrebbero trovarsi nelle vicinanze.
Mentre leggevo questo, mi sono reso conto che tutti questi piloti sono dei glorificati esperti di demolizione domestica. Chiunque abbia visto un vecchio stadio o un edificio demolito da poche centinaia di candelotti di dinamite ben posizionati può capire questo processo. Ma gli F-16 non sono mai stati utilizzati al solo scopo di distruggere edifici residenziali civili. Sembra un modo estremamente costoso per demolire semplicemente le abitazioni.
Inoltre, si può pensare a qualsiasi altra forza aerea nel mondo che non si occupi di attaccare le truppe nemiche nel bel mezzo della battaglia, ma di distruggere le case di migliaia di civili? Questa non è guerra. Questa è una pratica mirata in cui le case e le famiglie palestinesi sono l’obiettivo. L’aspetto più atroce di questi attacchi è che i piloti colpiscono questi edifici civili con tutta la cura e la precisione che dedicherebbero ad attaccare un vero obiettivo militare. C’è una grave disconnessione, perché credono che gli obiettivi abbiano un valore militare, ma chiaramente non lo hanno.
Il Maggiore G, che ha preso parte a questi attacchi a Gaza, dice:
“Questa non è un’incursione aerea particolarmente complicata. Infatti, è abbastanza semplice. L’obiettivo è portare a termine la missione in modo professionale, ovvero con un volo preciso, un approccio aereo con un carico pesante, sganciando la bomba nel punto preciso e nel momento preciso. La precisione è molto importante, a causa dei calcoli fatti riguardo al modo in cui l’edificio cadrà, senza crollare al di fuori di un certo raggio nella zona densamente edificata. L’unica cosa importante è che la bomba esploda proprio nel punto esatto”.
“Ci siamo addestrati per questo. L’Aviazione israeliana ha creato degli schemi e si è preparata per un’operazione che tutti sapevano sarebbe avvenuta. I preparativi per l’operazione sono estremamente professionali e non c’è posto per emozioni o ripensamenti, a parte la forte raccomandazione sul limitare i danni collaterali.”
Il giornalista fa quindi una domanda sull’utilità finale di questi attacchi aerei:
“Distruggere gli edifici residenziali a Gaza significa, secondo l’IDF, colpire Hamas, ma anche scoraggiare i gruppi terroristici a Gaza dal lanciare razzi contro le città israeliane. Ha funzionato?”
Il maggiore G. risponde:
“Personalmente, posso affermare con certezza che ci sono obiettivi che giustificano un tale attacco. Non ci sono dubbi. Ogni piccolo danno inflitto riduce un po’ di più la capacità di combattimento di Hamas. Sono personalmente molto sicuro di questo, ogni edificio distrutto o casa fatta saltare in aria, li destabilizza gravemente”.
“Quando sei in volo, vedi l’effetto dell’esplosione, del fumo e della polvere. Ma ho avuto modo di vedere più tardi nei media il mio obiettivo tramite “zoom in”. Vederlo ha sicuramente un impatto. D’altra parte, si capisce anche che oggi l’effetto della caduta di un edificio a Gaza non è più quello di qualche anno fa durante l’Operazione Protective Edge, nel 2014.”
Il maggiore D. aggiunge al commento del suo collega:
“È vero che stiamo danneggiando la loro capacità di combattimento e non c’è altro modo per farlo che distruggendo gli edifici. Non ho dubbi che l’effetto del crollo della torre abbia avuto un impatto su Hamas”. Ma alla fine, i razzi sono stati lanciati contro Israele con la stessa intensità e, secondo la mia opinione personale, non sono sicuro che abbia avuto alcun impatto sui pezzi grossi di Hamas, i suoi vertici, quelli per cui era stato progettato l’attacco. Il giorno dopo la fine della guerra, qualcuno si preoccupa del fatto che Yahya Sinwar o Deif non avranno una casa?
“Il colpo che gli abbiamo inflitto è stato molto duro. Abbiamo lanciato tonnellate di bombe e potenza di fuoco su di loro. Nessuno lo può negare”. Ma anche oggi capiamo che questo è l’ennesimo attacco, un’altra operazione. Oggi nell’aeronautica stanno dicendo cose che in passato non si dicevano. Almeno non ricordo di averle sentite.
“Parto per una missione con spirito di servizio, ma poi penso che la distruzione delle torri si sia trasformata nel nostro modo di sfogare la nostra frustrazione per non essere riusciti a fermare i razzi e le azioni dei gruppi terroristici. Quindi abbattiamo le torri.”
Il giornalista chiude con questa osservazione:
“Ci sono alcune critiche tra i piloti riguardo alla distruzione di edifici a più piani a Gaza. È loro convinzione che non si sia raggiunto appieno l’effetto che Israele cercava”.
Queste sono le testimonianze dei piloti israeliani che hanno commesso crimini di guerra. Lo hanno fatto per ordine dei loro superiori, confidando che ci fosse un qualche valore militare negli obiettivi che hanno colpito. Ma capiscono, anche nel modo torbido di un soldato nel pieno della guerra che ha un sospetto crescente dell’inutilità della sua lotta, che la distruzione di un edificio non può fermare i razzi di Hamas. Ci raccontano, forse senza nemmeno capire chiaramente quello che dicono, che hanno distrutto edifici per la frustrazione dei loro comandanti nel non aver potuto organizzare una campagna coerente per raggiungere gli obiettivi di Israele.
In altre parole, la guerra alla fine non aveva uno scopo e non ha ottenuto nulla. Ovviamente non si sarebbero spinti così lontano. Ma chiunque legga le loro parole capirà cosa stanno veramente dicendo.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
lL REGIME RELIGIOSO SIONISTA DI BENNET STA ARRIVANDO – Gideon Levy
L’investitura anticipata del primo Primo Ministro religioso-sionista di Israele potrebbe anche inaugurare un nuovo tipo di linguaggio nazionale, di condiscendenza, sdolcinatezza religioso-patriottica, stucchevole e patetica. Non è esattamente una novità: Questo tipo di discorsi si sono sentiti sulle colline della Cisgiordania per mezzo secolo, con lo sguardo ipocrita completamente rivolto verso il cielo. Da lì si è diffuso nell’esercito, nei media e in tutti gli altri snodi di potere che i sionisti religiosi hanno conquistato negli ultimi anni. D’ora in poi avrà un ruolo molto più centrale.
Lo Stato Ebraico diventerà lo Stato Yiddishkeit (esclusivamente ebraico). Con il Parlamentare Nir Orbach di Yamina nel ruolo di portavoce. Il post che ha scritto spiegando la sua decisione di sostenere il governo di Naftali Bennett è un documento illuminante: Mille sublimi parole sul nulla. Una decisione politica personale presentata come se avesse un’importanza mondiale sconvolgente. Un accordo politico di qualcuno che ha cambiato partito un paio di volte, confezionato come un cambiamento nell’ordine della creazione.
Scegliere uno dei due possibili governi di destra, come se fosse una questione di “principio. “Quando Mosè scese dal monte Sinai, sembrava meno sontuoso. D’ora in poi, qualsiasi modifica alle leggi che regolano la sosta urbana sarà presentata come se fosse un ordine divino. Tanto vale iniziare ad abituarcisi.
Il buon vecchio Hapoel Hamizrachi, partito politico e movimento di insediamento, i cui capi si opponevano alla campagna della Guerra dei Sei Giorni, è stato da tempo sostituito da messia fai da te. Orbach esemplifica al meglio il cambiamento: Ai suoi occhi egli è il vice del Messia. Cosa non ha incluso nell’elegante spiegazione della sua decisione; loro, tra l’altro, sono sempre gli unici ad avere dei dubbi. Hanno anche l’esclusività su valori e principi.
I termini chiave del suo post sono i seguenti: Valori eterni e popolo eterno (che non ha paura); gli Amoraim (divulgatori) e i Tannaim (portavoce/interpreti); la visione sionista e il musicista Aviv Geffen; il popolare musicista Haredi Avraham Fried e 2000 anni di esilio; non volontariamente (con loro, nulla è fatto volontariamente).
Lo stile fa parte dell’uomo, e va bene, ma attenzione al contenuto: Il ritorno della retorica ripugnante, arrogante, ultranazionalista di “una società modello” e “un faro per il mondo”. In un momento in cui Israele ha smesso da tempo di essere un faro, una torcia tascabile o anche una parvenza di moralità per il mondo, ma è piuttosto una specie di Stato Paria*, per molte buone ragioni, i sostenitori della destra religiosa continuano a ingannare con i loro parlare di una società esemplare. Anche Orbach pensa che non lo siamo più, se non altro da due anni e solo perché non abbiamo un governo stabile. Fino ad allora, e presto saremo di nuovo: un faro per il mondo, grazie alla sua decisione di sostenere Bennett.
[* Il termine “Stato Paria “è usato per descrivere una nazione che non è accettata o riconosciuta dalla maggioranza dei governi di tutto il mondo.]
Questa mentalità deve essere presa sul serio. È penetrata in profondità nella società israeliana, ben oltre la base di Bennett. Molti israeliani, troppi, credono ancora nella storia assurda del popolo eletto e del nostro diritto divino su questa terra. Apparentemente, non c’è niente di sbagliato in questo; cosa c’è di male in un popolo soddisfatto di sé fino allo stordimento? Ma come in ogni perdita di contatto con la realtà, anche qui c’è una sindrome suicida pericolosa per i credenti e per chi li circonda.
Di che tipo di società modello sta parlando Orbach? Quella che espelle i richiedenti asilo? Che caccia le persone dalle loro case a causa della loro appartenenza nazionale? Quella che imprigiona centinaia di persone senza processo? Che spara ai manifestanti? Un faro per il mondo? Seriamente? Basterebbe che Israele fosse come tutte le altre nazioni. In termini di moralità, è inferiore al più mediocre degli Stati. E di quali valori eterni del sionismo religioso parla, come rappresentante di un movimento che adora l’espropriazione di massa, che crede nella supremazia di una nazione su un’altra in questa terra, che crede che una promessa divina equivalga alla registrazione della proprietà, che sicuramente non c’è nessun altro oltre a lui e che traduce le sue condiscendenti convinzioni in dottrina politica?
Accondiscendono ai non ebrei e agli ebrei laici. Sono uomini di principio, con i carri pieni schierati contro tutti i carri vuoti. Sono più pionieri e più sionisti di chiunque altro. Non si occupano di sciocchezze, ma solo del destino del popolo ebraico. Orbach non è importante, il suo pensiero e il suo stile d’ora in poi saranno più importanti. Fate attenzione alla luce accecante della religione, dell’ultranazionalismo e della condiscendenza che egli rappresenta.
Gideon Levy è editorialista di Haaretz e membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel 2001; il premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro, La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.
Traduzione di Beniamino Benjio Rocchetto
Israele lascia Gaza senza energia elettrica – Amira Hass
Dieci giorni dopo il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, le forniture di corrente elettrica nella Striscia di Gaza erano ancora limitate, proprio come durante la settimana e mezzo di ostilità. Fino alla sera di domenica 30 maggio l’elettricità c’era solo tre o quattro ore al giorno. Dal giorno dopo c’è per sei ore, seguite da dodici senza.
Questi numeri vanno confrontati con quelli precedenti all’inizio del conflitto, quando l’elettricità di solito era disponibile per otto ore consecutive. All’inizio della settimana la Striscia di Gaza ha ricevuto appena 116 megawatt da Israele e dalla locale centrale elettrica palestinese, rispetto ai circa 190 megawatt di prima della guerra (una quantità comunque non sufficiente a soddisfare la domanda locale di 500 megawatt).
La drammatica riduzione di energia a Gaza è dovuta soprattutto alla decisione del governo israeliano di sospendere le consegne di carburante alla centrale elettrica palestinese a Gaza, nel tentativo di aumentare la pressione su Hamas. In Israele cinque linee dell’alta tensione che fornivano elettricità a Gaza sono state danneggiate durante questi combattimenti. Le riparazioni sono state completate il pomeriggio del 30 maggio. Una fonte che lavora alla centrale elettrica di Gaza ha dichiarato al Centro per i diritti umani al-Mezan della Striscia di Gaza che come in passato è il Qatar a pagare il carburante usato dalla centrale, che normalmente arriva da Israele tramite il valico di Kerem Shalom, chiuso dal governo israeliano.
La guerra dei giorni scorsi ha causato alla rete elettrica del territorio di Gaza danni per circa 22 milioni di dollari
In seguito alle interruzioni di corrente e alla carenza di carburante, anche gli impianti per la depurazione delle acque reflue non stanno funzionando. Almeno centomila metri cubi di rifiuti non filtrati provenienti dalle fogne sono stati riversati ogni giorno nel Mediterraneo. Per lo stesso motivo anche gli impianti di purificazione dell’acqua e quelli di desalinizzazione funzionano solo parzialmente. Significa che centinaia di migliaia di abitanti di Gaza non hanno accesso all’acqua potabile.
La centrale elettrica locale sta erogando 45 megawatt invece dei suoi soliti 70. La paura è che, nei prossimi giorni, la produzione cali ulteriormente o si fermi del tutto. I generatori privati di quartiere, che di solito coprono i blackout, funzionano solo alcune ore al giorno, e a volte neanche quelle, visto che manca il gasolio. La situazione potrebbe peggiorare ancora se Israele non abbandonerà la sua attuale politica.
I tagli all’elettricità colpiscono anche gli ospedali di Gaza, che a loro volta dipendono dai generatori. Questo mette in pericolo i pazienti, tra cui ci sono le persone ferite nelle recenti ostilità e i casi più gravi tra i malati di covid-19. A Gaza l’uso di pannelli solari è aumentato, ma è destinato soprattutto al consumo domestico.
La guerra dei giorni scorsi ha causato alla rete elettrica del territorio di Gaza danni per circa 22 milioni di dollari (più o meno 18 milioni di euro). Nei giorni scorsi l’azienda palestinese incaricata della fornitura elettrica ha riparato le parti delle linee elettriche provenienti da Israele, sul lato del confine di Gaza. Ma l’azienda ha detto all’associazione umanitaria israeliana Gisha che, anche se dovesse trovare i soldi per i pezzi di ricambio necessari a fare le riparazioni, non sa quando saranno consegnati questi pezzi, perché Israele ha deciso di limitare il trasporto di beni diretti a Gaza solo alle merci necessarie per scopi “umanitari”.
La Israel electric corporation (Iec, la società elettrica israeliana) ha completato le riparazioni alla linee elettriche israeliane che riforniscono Gaza nel pomeriggio del 30 maggio. La Iec fornisce a Gaza 120 megawatt d’elettricità attraverso dieci linee elettriche. Cinque sono state danneggiate durante la guerra.
Le riparazioni sono cominciate il 23 maggio, due giorni dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco. Il lavoro è stato portato avanti anche se i dipendenti della Iec avevano minacciato di non completarlo fino a quando due civili israeliani dispersi e le spoglie di due soldati non fossero stati restituiti a Israele da Gaza. “La Iec tratta tutti i suoi clienti nello stesso modo. L’elettricità è un prodotto essenziale, non legato al conflitto”, ha risposto la compagnia elettrica quando le è stato chiesto se le riparazioni erano state sospese.
La Iec ha aggiunto che i danni erano notevoli e che ogni linea è stata colpita in vari punti. Per questo ci è voluto tanto tempo per individuarli e ripararli. L’azienda ha dovuto chiamare anche altri operai. E infatti, a partire dalla mattina del 31 maggio gli abitanti di Gaza hanno ricevuto sei ore di elettricità continua, seguite da dodici ore senza corrente, con un aumento delle forniture fino a 165 megawatt.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Mobilitazioni di massa da Sheikh Jarrah alla Palestina storica – Mahmoud Soliman
La recente rivolta ha dimostrato ancora una volta che esiste una terza via per porre fine all’occupazione, ovvero la resistenza popolare nonviolenta in tutta la Palestina e Israele, come le mobilitazioni di massa da Sheikh Jarrah.
Da aprile, i palestinesi sono impegnati in una rivolta di massa iniziata nel quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est, che si è diffusa in tutta la città e in Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. La rivolta è stata principalmente nonviolenta fino all’8 maggio, quando Hamas è intervenuta con la resistenza armata. Tuttavia, ha mostrato come tutte le strategie israeliane del potere coloniale hanno fallito nel normalizzare l’occupazione e smobilitare i palestinesi.
La storia di Sheikh Jarrah
Negli anni ’70, due organizzazioni israeliane hanno rivendicato la proprietà della terra con 28 case di famiglie palestinesi a Sheikh Jarrah. Queste 28 famiglie, circa 500 residenti, vivevano lì dal 1956 come risultato di un accordo tra il governo giordano e l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione. Quando Israele ha occupato Gerusalemme Est nel 1967, le organizzazioni di coloni hanno aperto cause legali contro i residenti di Sheikh Jarrah per sfrattarli dalle loro case.
Queste organizzazioni sostenevano che le famiglie ebree erano state proprietarie delle case prima che la Giordania le avesse sequestrate per ospitare i rifugiati palestinesi, il che ovviamente ignorava il diritto al ritorno dei palestinesi sfollati nella Nakba. Lo sgombero forzato di alcune famiglie di Sheikh Jarrah è iniziato nel 2008.
I palestinesi non vedono la storia di Sheikh Jarrah come una lotta solo tra famiglie e coloni israeliani, è vista dai palestinesi come parte di un progetto più ampio di pulizia etnica, sradicando i palestinesi dalle loro case. Per i palestinesi, è una continuazione della Nakba.
Fin dai primi sgomberi, i residenti di Sheikh Jarrah – con il sostegno di attivisti israeliani e internazionali – hanno organizzato azioni nonviolente in parallelo alla lotta legale delle famiglie nei tribunali israeliani. Israele ha intensificato le sue politiche aggressive contro i residenti di Gerusalemme soprattutto dopo la presidenza Trump. Per esempio, le truppe israeliane hanno persino ferito dei membri della Knesset mentre protestavano contro l’espulsione forzata delle famiglie.
Nell’aprile 2021, la Corte Suprema di Israele ha deciso di sfrattare quattro famiglie di Sheikh Jarrah. Questo aggravò la situazione e i residenti ottennero più solidarietà dai palestinesi e dagli attivisti israeliani. I rappresentanti delle 28 famiglie palestinesi del quartiere di Sheikh Jarrah, insieme a 191 organizzazioni sostenitrici, hanno inviato una lettera all’Ufficio del procuratore della Corte Penale Internazionale, chiedendo di includere urgentemente l’imminente sfollamento forzato dei palestinesi di Sheikh Jarrah come parte dell’indagine aperta sulla situazione in Palestina.
Le autorità di occupazione israeliane hanno intensificato la repressione contro i residenti, ma questo si è ritorto contro di loro e ha finito per mobilitare più palestinesi e israeliani a unirsi ai sit-in. Durante questa fase di proteste, uomini, donne e giovani hanno partecipato alle azioni, che in alcuni casi hanno preso la forma di una mobilitazione di massa di attivisti palestinesi e israeliani e di sinistra, anche membri della Knesset.
Queste azioni nonviolente hanno costretto il tribunale a rinviare lo sfratto di un mese nel tentativo di raggiungere un accordo tra le due parti – le organizzazioni dei coloni e i residenti palestinesi. L’arbitrato del tribunale è stato rifiutato dalle famiglie palestinesi perché includeva il riconoscimento da parte delle famiglie palestinesi che i coloni possedevano la terra. Queste azioni nonviolente hanno fatto di Sheikh Jarrah una causa importante in Palestina. È diventata una tendenza sui social media e ha guadagnato le attenzioni dei media mainstream in tutto il mondo.
Valori, tempi e luoghi
La tempistica della decisione del tribunale è stata cruciale per la mobilitazione dei palestinesi. È arrivata durante il Ramadan, dove la gente di tutta la Palestina storica si reca alla Moschea di Al-Aqsa. Le autorità israeliane sanno che danneggiare simboli religiosi come la Moschea di Al-Aqsa e la Chiesa del Santo Sepolcro incensa e mobilita facilmente i palestinesi della Palestina storica.
Negli ultimi anni, il governo israeliano ha permesso ai coloni di invadere più frequentemente la Moschea di Al-Aqsa e di provocare i palestinesi. Le incursioni non hanno nulla a che vedere con il radicalismo religioso, si tratta piuttosto di danneggiare luoghi di alta cultura e religiosi apprezzati dai palestinesi. Di conseguenza, tra i manifestanti ci sono molti musulmani laici e non musulmani.
Il Ramadan è un’occasione per i musulmani di praticare la loro religione pregando nella moschea di Al-Aqsa. Ma è anche visto dai palestinesi di tutta la Palestina storica come una tradizionale occasione sociale e politica per incontrarsi negli spazi pubblici della città vecchia di Gerusalemme, come piazza Al-Aqsa e la porta di Damasco, l’ingresso principale alla città vecchia di Gerusalemme, mangiando insieme e organizzando festival culturali e raduni per il folklore, il canto e la danza. Durante il Ramadan, la gente di solito dorme meno durante la notte e più durante il giorno. Specialmente per i giovani, molti non dormono affatto fino alle prime ore del mattino. Così, le ore notturne sono il momento più importante per i giovani per riunirsi e divertirsi.
Questo è un contesto cruciale per capire gli effetti dei coprifuoco che le autorità israeliane impongono. Inoltre, le autorità israeliane hanno imposto diverse restrizioni al movimento dei palestinesi nella città vecchia di Gerusalemme e hanno impedito di riunirsi in luoghi pubblici. Ai giovani palestinesi è stato impedito di riunirsi alla Porta di Damasco, dove normalmente avrebbero praticato i loro speciali rituali culturali del Ramadan, come cantare, ballare e offrire cibo e bevande ai visitatori della città. Queste pratiche palestinesi avevano un significato politico ed erano percepite come resistenza contro l’occupazione israeliana di Gerusalemme Est.
Eventi commemorativi critici
Con il Ramadan che ha facilitato il raduno dei palestinesi – che è sfociato in un’azione collettiva – di metà maggio ha anche segnato il 73° anniversario della Nakba, che i palestinesi considerano in corso dal 1948. Gli eventi di Sheikh Jarrah ne sono un chiaro esempio.
Contemporaneamente, gli israeliani celebrano quello che chiamano “Jerusalem Day”, che segna l’occupazione del giugno 1967 di Gerusalemme Est, che poi sarebbe stata annessa a Israele. Durante questa festa, migliaia di giovani israeliani ultra-religiosi e nazionalisti marciano per Gerusalemme Est con bandiere israeliane. Provocando i palestinesi e forniscono in seguito una giustificazione alle autorità israeliane per impedire la circolazione dei residenti palestinesi. Infine, le autorità israeliane mettono la città sotto coprifuoco per facilitare le marce dei coloni. L’aggressione israeliana in una città occupata che ha una presenza massiccia di palestinesi durante il mese di Ramadan e i loro tentativi di controllare la città attraverso le loro politiche di discriminazione, hanno contribuito all’aumento della resistenza.
Per quanto sentano la realtà della discriminazione in Israele, questa generazione è anche poco impressionata dalla leadership politica a Gaza o in Cisgiordania.
Dall’escalation dell’aprile 2021 intorno al rischio imminente di sgomberi da Sheikh Jarrah, e dall’inizio del Ramadan, i palestinesi hanno organizzato sit-in collettivi nonviolenti e attività culturali alla Porta di Damasco – o come viene chiamata dai locali, Bab Al Amoud – una porta alta otto metri che conduce alla Moschea di Al-Aqsa. L’area intorno è progettata come un teatro aperto con scale a semicerchio, mentre l’area della Moschea di Al-Aqsa comprende circa 14,4 chilometri quadrati. Israele ha stabilito da tempo dei posti di blocco alla porta per controllare le persone che entrano nella città vecchia.
Le pratiche durante le feste palestinesi e durante i raduni riflettono la nostra identità collettiva e il rifiuto del controllo israeliano sulla città. Come tali sono sgradite all’esercito israeliano, che tenta di reprimerle e disperderle. Cantare canzoni rivoluzionarie è sufficiente perché l’esercito attacchi le persone; alzare la bandiera palestinese è sufficiente perché l’esercito arresti le persone. La polizia israeliana ha risposto violentemente alle manifestazioni nonviolente e continua a farlo ogni notte, ferendo e arrestando centinaia di palestinesi.
La repressione intensifica la resistenza
L’uso eccessivo della forza sui palestinesi nella Città Vecchia di Gerusalemme e sui fedeli nella Moschea di Al-Aqsa non ha mobilitato solo gli abitanti di Gerusalemme ma anche i palestinesi che vivono in Israele. Da Akko nel nord a Naqab e Bir Saba’ all’estremo sud, comprese le città miste come Lod, Jafa e Haifa dove palestinesi ed ebrei israeliani vivono insieme, la gente ha organizzato manifestazioni nelle loro città e paesi, e si è unita alle azioni a Gerusalemme Est.
Nel corso della lunga storia della resistenza palestinese, ogni volta è stato il potere delle persone a porre la loro causa come priorità nell’agenda mondiale.
Una tale partecipazione di massa dei palestinesi che vivono in Israele non ha precedenti. L’ultima volta che è successo su qualsiasi scala, anche se brevemente, è stato nell’ottobre 2000, quando le forze israeliane hanno ucciso 13 palestinesi che vivevano in Israele. La maggior parte dei partecipanti sono giovani, molti nati dopo gli accordi di Oslo del 1993 e alcuni nati dopo l’ottobre 2000. Sono nati al culmine del progetto di israelizzazione dei palestinesi che vivono in Israele e dell’integrazione dei giovani palestinesi nella vita economica e istituzionale israeliana. Tuttavia, queste rivolte confermano come il razzismo anti-palestinese non si sia mai fermato; sono convinti di non essere cittadini di questo stato e sono di fatto visti come un nemico, con la distinzione particolarmente sentita nelle città miste.
Per quanto sentano la realtà della discriminazione in Israele, questa generazione è anche poco impressionata dalla leadership politica a Gaza o in Cisgiordania.
La questione in sospeso per la leadership palestinese è quando tradurranno in pratica i loro discorsi sulla resistenza popolare nonviolenta? Quando esorteranno i loro membri a unirsi alla resistenza popolare nonviolenta? È importante notare che, poiché questa rivolta è di base e indipendente, la stragrande maggioranza dei partecipanti ha messo da parte l’identità politica e ha dato priorità all’appartenenza alla causa. La leadership politica palestinese è assente dalla rivolta e le masse sono scollegate da essa.
La rivolta ha dimostrato ancora una volta che c’è una terza via per porre fine all’occupazione. La resistenza popolare nonviolenta – né i negoziati né la resistenza armata da soli libereranno la Palestina. Nel corso della lunga storia della resistenza palestinese, ogni volta è stato il potere delle persone a porre la loro causa come priorità nell’agenda mondiale.
Prima della rivolta, il conflitto israelo-palestinese non era nella top 10 dell’amministrazione Biden, ma dopo la rivolta, lo è. Intensificare la resistenza è una strategia chiave per i palestinesi per forzare l’intervento di terzi e fare pressione sulle autorità di occupazione israeliane. Questa rivolta ha alimentato la speranza tra i palestinesi che l’occupazione militare israeliana non durerà per sempre, che finirà nel nostro tempo. Ci deve essere una continuazione della resistenza popolare da parte dei palestinesi e dei gruppi di attivisti israeliani che allungheranno l’occupazione e la renderanno costosa. Questo genererà pressione sul governo israeliano attraverso la maggiore solidarietà transnazionale vista durante questa rivolta. Il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele e la richiesta di restrizioni internazionali sull’assistenza militare possono essere modi per incanalare questa solidarietà.
Come questi palestinesi hanno ostacolato i coloni nel nord della Cisgiordania. La resistenza popolare a Beita – Ahmad Melhem
Muhammad Hamayel, un quindicenne della città di Beita, a sud-est di Nablus, nel nord della Cisgiordania, è stato ucciso dall’esercito israeliano durante gli scontri avvenuti nella città l’11 giugno. contro l’avamposto creato sulle terre di Jabal Sbeih nella città. La città di Beita si è trasformata in un acceso punto di scontro tra i residenti palestinesi , l’esercito e i coloni israeliani, che vogliono stabilire un avamposto ,chiamato Avitar ,in cima a Jabal Sbeih (Monte Sbeih). Dal 3 maggio la gente di Beita è impegnata in scontri quotidiani che sembrano intensificarsi ogni venerdì, con la partecipazione dei residenti delle due vicine città di Yatma e Qablan, per contrastare l’occupazione da parte dei coloni. Gli scontri hanno portato alla morte di quattro giovani: Muhammad Hamayel; Issa Barham, un medico di Beita ucciso il 14 maggio; Tariq Sanubar, un giovane di Yatma ucciso il 16 maggio; e Zakaria Hamayel , un insegnante di Beita ucciso il 28 maggio, mentre centinaia di altri sono rimasti feriti .L’ultimo tentativo dei coloni di occupare Jabal Sbeih è avvenuto dopo che un colono è stato ucciso al checkpoint di Zaatara da Mutassim al-Shalabi il 2 maggio.
Moussa Hamayel, vicesindaco di Beita, ha detto ad Al-Monitor che i coloni avevano preso di mira Jabal Sbeih diverse volte, ma il loro recente tentativo è stato il più pericoloso, poiché in pochi giorni hanno installato più di 40 unità abitative mobili in un’area di 5 dunam (1 acro) su un’area totale di 840 dunam (207 acri). Hanno anche pavimentato la strada sulla cima della montagna, in un primo passo che consente loro di espanderla e controllarla successivamente.
Ha sottolineato che Jabal Sbeih è una posizione strategica vitale, poiché si affaccia sulla strada principale tra le città di Nablus e Ramallah e corre adiacente alla strada che porta a Gerico e alla Valle del Giordano. Inoltre dista solo 1 chilometro (0,6 miglia) dal checkpoint di Zaatara, il più importante checkpoint militare in Cisgiordania. Hamayel ha spiegato che, ottenendo Jabal Sbeih, il checkpoint e la montagna saranno collegati alla regione orientale della West Bank (la Valle del Giordano), trasformando così il checkpoint in una grande e unica porta d’accesso alla West Bank settentrionale, separandola completamente dalla Cisgiordania centrale e meridionale. A causa della sua posizione, Jabal Sbeih è stata soggetta negli anni passati a diversi tentativi per stabilire un avamposto , ma i residenti hanno affrontato questi tentativi ogni volta e hanno costretto i coloni ad andarsene.
Il primo tentativo è stato nel 2013, dopo un attacco al checkpoint di Zaatara un colono, di nome Avitar, è stato ucciso. I coloni hanno fondato l’avamposto con il suo nome . Tuttavia, dopo che i residenti hanno organizzato marce popolari, l’esercito ha dovuto smantellare l’avamposto.
Nel 2018, i coloni hanno cercato ancora una volta di stabilire un avamposto dopo l’uccisione di un rabbino vicino all’insediamento di Ariel, a nord di Salfit. Hanno installato case mobili e fornito loro elettricità e acqua, ma i residenti li hanno affrontati, il che ha spinto l’esercito a smantellare nuovamente l’avamposto .Il terzo tentativo è stato nel 2020, quando i coloni hanno cercato di stabilire tre avamposti nella città di Beita, ma senza successo. Il tentativo più recente è stato a maggio e i residenti sembrano essere riusciti anche questa volta ad affrontare i coloni. Il 7 giugno l’esercito israeliano ha emesso un ordine militare che vieta la continuazione della costruzione nell’avamposto di Jabal Sbeih, dichiarando l’area zona militare e impedendo l’ingresso di materiali da costruzione. La proprietà deve essere evacuata entro otto giorni. Hamayel ha dichiarato : “Finché la decisione non viene attuata , rimane solo inchiostro su carta. Temiamo che la decisione sia una manovra per guadagnare tempo per . Non abbiamo ancora ricevuto alcun comunicato ufficiale”. Ha aggiunto che il consiglio comunale può esentare i cittadini dalle tasse finanziarie per la fornitura di elettricità e acqua , ma non può fare altro a causa delle sue limitate capacità finanziarie. “Ecco perché abbiamo invitato tutte le istituzioni ufficiali e civili a sostenere i residenti, a sostenere la loro fermezza e a incoraggiarli a rimanere nella zona”.
Hudhayfa Badir, un residente di Beita che possiede 5 dunam a Jabal Sbeih, ha detto ad Al-Monitor che la costruzione dell’ avamposto è fallita a causa della resistenza e della fermezza dei residenti che si rifiutano di vendere un pollice della montagna ai coloni.Ha sottolineato che i coloni hanno approfittato dell’interesse locale e internazionale per quanto sta accadendo nel quartiere di Sheikh Jarrah e per la guerra nella Striscia di Gaza, per installare tende e unità abitative mobili su Jabal Sbeih .
Badir ha osservato che i residenti adotteranno tutte le misure necessarie per contrastare eventuali futuri tentativi , come intraprendere azioni legali per stabilire la proprietà della terra e organizzare più attività a livello nazionale. Ha sottolineato che, secondo quanto appreso dai residenti, i coloni hanno cercato di eludere l’ordine militare dell’esercito di evacuare e smantellare l’avamposto dell’insediamento a Jabal Sbeih, due volte, ma l’esercito si è rifiutato di ritirare la decisione, E’ importante che la comunità locale e le istituzioni civili e ufficiali aiutino i residenti di Beita a fermare le ambizioni sioniste, sia fornendo servizi di base, fornitura di elettricità e acqua, sia pavimentando strade, per incoraggiare le persone a rimanere nella zona sia portando avanti progetti come la bonifica di terreni incolti e costruzione di strade. I giovani della città continuano a organizzare varie attività, inclusa quella nota come “confusione notturna”, simile a quanto avveniva vicino alla recinzione di Gaza nel 2019
Gideon Levy: “Quelle bombe e la vergogna di essere israeliano” – Umberto De Giovannangeli
E’ l’icona vivente del giornalismo “radical” israeliano. Amato o odiato, senza mezze misure. Perché Gideon Levy spiazza, non fa sconti, scuote le coscienze. Leggere per credere
“Giovedì, ho provato un grande orgoglio di essere un lettore – e scrittore – di Haaretz e una profonda vergogna di essere israeliano. La prima pagina del giornale di quel giorno avrebbe dovuto essere esposta nelle basi delle forze aeree d’Israele, in modo che i piloti e i loro assistenti e i comandanti di corpo e di squadrone la vedessero. Cosa avrebbe provato il tenente Gal il pilota intervistato da Yedioth Ahronoth alla fine del confronto militare di questo mese con Hamas. Aveva detto al giornale che ‘provava sollievo’ dopo aver sganciato le bombe su Gaza? Proverebbe ancora lo stesso sollievo dopo aver visto la sua opera – le fotografie dei 67 bambini morti sulla prima pagina di Haaretz? L’unico ‘lieve shock’ provato da quella macchina da bombardamento chiamata pilota sarebbe ancora il momento in cui ha sganciato le bombe, come ha raccontato – o la vista delle foto dei bambini morti avrebbe generato in lui qualche altra emozione che gli avrebbe impedito di compiere di nuovo una missione così spregevole? Le immagini sono scioccanti nella loro grandezza cumulativa. Tutta la propaganda sui ‘più morali’ e ‘i migliori che vanno in aviazione’, sugli ‘attacchi aerei chirurgici’ e i colpi di avvertimento sui tetti di Gaza si dissipano improvvisamente di fronte a queste foto. Il sorriso smagliante di Rafeef, 10 anni. La maschera indossata da Amir, 9 anni. Mohammed, che non avrebbe mai festeggiato nemmeno un compleanno. Gli occhiali da sole colorati di Islam, di otto anni, nell’ultima foto che lo ritrae, che potrebbe anche essere la prima.
Queste fotografie sono più convincenti di mille vuoti discorsi di propaganda israeliana sull’autodifesa, sulla colpa di Hamas e su come non ci fosse alternativa. Questo è l’ultimo, singolare risultato, davanti al quale solo i piloti e gli altri israeliani a cui è stato fatto il lavaggio del cervello possono rimanere indifferenti e persino parlare del loro ‘sollievo’. Dopo il primo shock è arrivato il secondo, solo un po’ meno del primo: le reazioni in Israele. Se qualcuno avesse ancora dubitato della portata della negazione e della repressione psicologica in cui vive la società israeliana, se qualcuno avesse dubitato della gravità della sua malattia morale, le reazioni alla prima pagina lo hanno dimostrato. Questa società è molto malata. Il dibattito nei media e sui social media è scoppiato come un incendio. È stato selvaggio e istruttivo.
Israele stava evitando la temuta notizia come la peste. Nessuno parlava dei bambini morti, delle dimensioni orribili dell’uccisione e dell’esercito che l’aveva commessa. Non era affatto l’argomento. In un’incredibile esibizione acrobatica, gli israeliani hanno tirato fuori tutto quello che avevano e anche di più per evitare la verità, eludere la responsabilità e continuare con la loro solita autocelebrazione. Ecco una lista parziale: Haaretz è colpevole perché non ha pubblicato le foto dei due bambini israeliani uccisi. Il New York Times è colpevole perché ha scritto che solo due bambini palestinesi sono stati uccisi dai razzi palestinesi. Hamas è colpevole perché usa i bambini come scudi umani. Hamas è colpevole perché spara razzi dai centri abitati. I bambini non sono stati nemmeno uccisi. Ci sono foto in cui li si vede alzarsi dai loro sudari. C’era solo una cosa di cui nessuno osava parlare: La responsabilità di Israele, la colpa delle Forze di Difesa Israeliane, il ruolo dei piloti e la parte condivisa da ogni israeliano, dal primo ministro Benjamin Netanyahu in giù, nella responsabilità morale di questa uccisione di bambini. Sotto gli auspici dei suoi pietosi media, un’intera società è stata arruolata come una sola persona, spalla a spalla, per eludere ogni responsabilità, per sviare ogni colpa, per accusare il mondo intero, per dissipare ogni dubbio e dire: Non è per mano nostra che è stato versato questo sangue. Ma l’amara verità è che è stato solo per mano nostra. Non c’è altro modo di presentarla. Non c’è altra verità da mettere in mostra. Si può dire che questo è ciò che succede in guerra e anche pensare che se non fosse stato per Hamas, questa guerra non sarebbe scoppiata – il che è molto dubbio – ma dare tutta la colpa alla vittima è un nuovo record di disprezzo israeliano. Neanche una parola di rammarico? Di dolore? Un briciolo di responsabilità? Un accenno di colpa? Un risarcimento per le famiglie? Non Israele. Mai. I bambini sono morti negli attacchi aerei. I bambini sono colpevoli. Solo loro. Assolutamente solo loro”.
Così Gideon Levy, coscienza critica d’Israele.
Anche il titolo scelto dal giornale rimanda alla parte umanamente più insopportabile di qualsiasi conflitto: la perdita delle vite umane più piccole. Haaretz scrive sopra i volti sorridenti dei bambini “Questo è il prezzo della guerra”.
La scelta del New York Times
Sulla scia di Haaretz, anche Il New York Times ha fatto una scelta molto forte. Ha deciso di mostrare nella sua homepage una sorta di slide-show che alterna le fotografie dei 67 bambini che hanno perso la vita nella Striscia di Gaza. A ogni foto è associata una brevissima descrizione di quell’azione che i bambini stavano facendo poco prima di morire: c’era chi era uscito per mangiare un gelato, chi invece stava consumando la cena con i propri genitori. Poche righe di racconti quotidiani, che fanno comprendere la dimensione familiare della tragedia.
Per molti bambini è stata il quarto conflitto
“Essere un bambino nella Striscia di Gaza è sempre stato estremamente difficile, anche prima dell’escalation”, sottolinea l’Unicef. “Per molti bambini, questo è stato il quarto conflitto che hanno vissuto. Nessun posto è sicuro per i bambini nella Striscia di Gaza. Prima dell’attuale ondata di violenze 1 bambino su 3 aveva bisogno di supporto perla salute mentale e psicosociale. Questo numero è senza dubbio aumentato negli ultimi giorni”, continua, ribadendo la necessità di una pace duratura: “Per il bene di tutti i bambini e del loro futuro, è il momento di raggiungere una soluzione pacifica dilungo termine al conflitto che dura da sette decenni. Qualsiasi soluzione politica che sarà raggiunta non dovrebbe e non può essere quella di ‘tornare a com’era prima’ perché ‘prima’ era insopportabile e insostenibile per tutti i bambini”.
La dodicenne Dina* ha la leucemia e non è stata in grado di ricevere cure al di fuori di Gaza da quando il coordinamento si è interrotto. “La mia malattia ha avuto gravi conseguenze sulla mia vita e non riesco a camminare sulle mie gambe. Ho pregato che mi amputassero gli arti. Israele dovrebbe revocare il blocco così da avere buone scuole e buoni ospedali e poter avere cure e posti carini dove giocare. E poter, quindi, vivere come gli altri bambini nel mondo” ha detto.
Ahmed*, 13 anni, è stato colpito alla gamba dalle schegge di un proiettile che è esploso e la sua richiesta di lasciare Gaza per un intervento ai nervi è stata respinta. “Uno dei giorni più difficili della mia vita è stato quando sono uscito dall’operazione e mi avevano preparato una sedia a rotelle. Mi chiedevo a cosa servisse la sedia. Mi hanno detto: “Ci siederai sopra e ci vivrai tutta la tua vita”. Ho pianto, dal profondo del mio cuore … Non posso lasciare Gaza perché hanno chiuso i posti di blocco. La mia gamba sta peggiorando e io sono preoccupato per questo” spiega Ahmed.
Save the Children sostiene trenta bambini che necessitano di cure mediche urgenti al di fuori di Gaza. Alcuni di questi sono stati feriti durante il conflitto o nelle proteste e hanno arti amputati, ferite da arma da fuoco o da schegge, gravi danni agli occhi e al sistema neurologico. Altri vivono con malattie debilitanti come cancro e patologie cardiache.
“Come può esserci una giustificazione in qualsiasi posto e momento per impedire ai bambini di ottenere cure salvavita? Questi minori gravemente malati devono lasciare Gaza per sopravvivere, semplicemente non c’è altra opzione. È crudele che i bambini muoiano o soffrano di un dolore estremo quando possono ricevere un trattamento appena oltre i posti di controllo. Ogni giorno che passa, la finestra per aiutare questi bambini si chiude ulteriormente”, dichiara Jeremy Stoner, direttore di Save the Children per il Medio Oriente.
Anche questo è “il prezzo della guerra”. E a pagarlo sono i più indifesi tra gli indifesi: i bambini.
(* Nome modificato per motivi di protezione)
Stella di David,Terra del mito – Stanley L. Cohen
“Difendiamo la giustizia, la verità e il valore di un singolo essere umano”. Con queste parole semplici ma fortemente ispiratrici, una vita fa, il mondo ha sostenuto la speranza che finalmente il diritto internazionale e la responsabilità sarebbero passati da un principio astratto ed esoterico a un’applicazione vincolante epocale. I tribunali di Norimberga hanno parlato direttamente al dolore e alla sofferenza di decine di milioni di esseri umani trascinati nelle camere geopolitiche dell’odio e della violenza suprematisti, vittime di una furia senza precedenti dei pochi responsabili che hanno commesso una calcolata e raccapricciante violazione dei diritti umani. Eppure, prima ancora che l’inchiostro si fosse asciugato su ideali esaltati e parole imponenti, l’Europa era ancora una volta, con l’impianto forzato di una generazione di vittime sopravvissute nella secolare Palestina, indifferente a quante nuove vittime furono schiacciate dal suo ultimo progetto coloniale, che continua sfacciato, incontrollato e mortale a distanza di tutti questi decenni.
Cosa c’è nel nostro viaggio condiviso che ci permette, con facilità, di accecarci consapevolmente al dolore degli altri perché fa troppo male vedere l’ovvio? Ciò smuove echi di dolore mentre le urla arrivano in ondate insopportabili che non lasciano dubbi sulla sua orribile fonte di crimini, in corso, di famiglie distrutte e sogni irrealizzabili? Cosa trova scampo nella negazione artificiosa che non accetta alcun confronto da ondate di realtà poiché gestire la verità è, apparentemente, ben oltre la nostra capacità collettiva? È la storia dei nostri giorni. Stella di David, terra del mito.
Viviamo in tempi in cui il metro della realtà è una misura che va oltre la portata cosciente e solerte di molti, mentre per altri è solo uno sguardo passeggero e indifferente, troppo intorpidito dalla rotazione della vita quotidiana per fermarsi e sentire il dolore e la sofferenza di coloro che sono considerati poco più di una momentanea istantanea di un altro mondo lontano. È all’interno di questo degrado che la Stella di David ha trovato conforto, anzi rafforzamento poiché ha ribaltato un sistema di valori ritenuto da tempo la via universale della giustizia internazionale per tutti.
Per generazioni, il mondo è stato in gran parte testimone silenzioso di un’impresa occidentale sfrenata che ha cancellato milioni di palestinesi dalla loro ininterrotta patria ancestrale in nome di un diabolico progetto di reinsediamento costruito da inquilini con contratti di locazione duraturi altrove che risalgono a quando l’Occidente è stato fondato. Sì, l’Antico Testamento (e altre narrazioni storiche religiose) come provvidenziale progetto biblico, parla del popolo ebraico e della Terra Santa come se non fossero solo inesorabilmente intrecciati, ma apparentemente, è rivendicato ad esclusione di tutti gli altri. Tuttavia, non dimentichiamo come la bellezza riposa nell’occhio del proverbiale detentore, altrove nel testo sacro apprendiamo che l’universo ha poco più di 6000 anni; Giosuè fermò il sole che si muoveva attraverso il cielo; Lot, l’unico uomo giusto di Sodoma ha offerto le sue figlie vergini per essere stuprate da una folla; un essere umano ha assistito a una conversazione tra Dio e Satana; che una coppia di ogni animale stavano su una barca per quaranta giorni mentre un’alluvione distruggeva il mondo; che l’umanità era fatta di argilla; che il dio ebreo, YHYH, ha combattuto un mostro chiamato Leviathan, o Rahab o Sir Sea; che il serpente nell’Eden parlava ad Eva; che l’arpa di Davide veniva suonata di notte dal vento; e che Sansone abbatté 1.000 Filistei con la mascella di un asino. Stella di David, terra del mito.
Questo non vuol dire che gli ebrei, come i musulmani, i cristiani e i non credenti allo stesso modo, non abbiano alcuna pretesa di vivere in Terra Santa, in pace, con l’uguaglianza e la giustizia fianco a fianco, ma semplicemente per fornire un contesto alla predicazione del furto di terra di sionisti messianici desiderosi e autorizzati a commettere il crimine più atroce perché parlano al loro Dio e, dopo aver ricevuto risposta, hanno ricevuto il via libera secolare per abusare, rubare, immobilizzare, uccidere in nome del loro fantasioso “diritto al ritorno” biblico. Se questo è il decreto divino di YHYH, io per primo non voglio far parte di un tale micidiale tempio teocratico di eresia. Ma che dire degli altri, quelli che tengono gli occhi chiusi e il cuore gelido, spogliati di principi e voce, silenziosi mentre l’orgia palpabile e indicibile della storia si ripete giorno dopo giorno, prendendo di mira i palestinesi, in particolare i suoi giovanissimi e molto fragili. Comunità antichissime che non cercano altro che il diritto di essere lasciate in pace, con la famiglia e gli amici, di occuparsi dei loro campi, di perseguire la loro istruzione, libere di viaggiare dove desiderano, con chi vogliono, di inseguire i loro sogni e le loro speranze, non semplicemente con il dogma deviante di “dignità e rispetto”, ma in uno Stato di loro scelta con valori e aspirazioni di loro scelta. Stella di David, terra del mito.
Tragicamente, è fin troppo facile compartimentare il nostro mondo in carnefice e vittima, donatore e ricevente. È definito chiaramente segnato da una linea, o dovrei dire martoriato da una scia apparentemente infinita di saccheggi e dolore. In nessun luogo è più evidente che nei Territori Occupati in nessun luogo più prevedibile e senza scopo di quanto lo sia nei campi di sterminio di Gaza. Ho scritto su Gaza per anni. C’è poco che posso dire, ora, che non sia stato detto da me e da innumerevoli altri più e più volte. È una visione di estrema crudeltà e criminalità a lungo memorizzata da tutto il mondo da leggere e vedere, se solo la sete di conoscenza li porta oltre il pretesto vuoto e vile di coloro che vorrebbero prendere di mira e uccidere i civili, lasciandosi dietro il lamento costante del lutto e una scia di infrastrutture essenziali a brandelli e cuori spezzati. Stella di David, terra del mito.
Ma che dire dello stesso Israele, lo “Stato-Nazione” che esalta l’ideale democratico ma tiene vicina e cara una teologia oscura e suprematista che promuove l’ebraismo e gli ebrei con l’esclusione di tutti gli altri e le fedi divergenti? Il 20% di Israele vero e proprio (se mai un termine improprio) è, nelle parole di una pulizia etnica fondamentale, “48” arabi, non palestinesi, come se si rifiutasse di fuggire dal grande massacro sionista del 1948, reinventato da un atto politico di una cultura e una tradizione millenarie per adattarsi alla nuova narrativa europea imposta e preconfezionata. Continua imperterrita e imperturbabile oggi con la promozione di una realtà politica in gran parte europea ashkenazita sfidata da una verità umana inconfondibile e lampante. No, i “48” palestinesi non sono uguali in alcun modo, di conseguenza, in qualsiasi momento di significato, quando vengono valutati contro lo Stato Ebraico e il suo programma sionista che riduce tutti gli altri a soli convenienti oggetti di scena rituali per i riverenti, coloro che non possono o non vogliono discernere il travestimento del trucco retorico che copre l’ineguaglianza al suo peggio. Stella di David, terra del mito.
Dov’è l’Israele di oggi? Nel 2018, il suo Parlamento, la Knesset, ha approvato un nuovo atto fondamentale denominato legge dello Stato Nazione che canonizzava la supremazia ebraica su tutti i suoi cittadini palestinesi. In termini inequivocabili, simili a un terremoto, la legge ha rimosso ogni pretesa sulla natura di Israele, identificando lo Stato di Israele come lo Stato-Nazione del solo popolo ebraico. La legge, che non promuove alcuna fedeltà a norme democratiche o garanzie di uguaglianza, non menziona, per non parlare del divieto, la discriminazione sulla base della razza, della nazionalità o dell’etnia. Designando l’ebraico come unica lingua ufficiale di Israele, ha privato l’arabo del suo precedente status giuridico legittimo. Riconosce solo il popolo ebraico come titolare di un diritto nazionale all’autodeterminazione e chiede la promozione di “insediamenti ebraici” all’interno di Israele con l’esclusione di tutti gli altri gruppi, etnie e fedi. Costruita con inconfondibili caratteristiche segregazioniste, la legge celebra atti apertamente razzisti senza lasciare dubbi sullo status di seconda classe dei cittadini palestinesi, definendo la sovranità e l’autogoverno democratico come appartenenti esclusivamente al popolo ebraico del mondo, indipendentemente da dove risieda. Nella parte rilevante, l’Atto 1 della legge afferma che “la Terra d’Israele (“Eretz Israel”) è la storica casa nazionale del popolo ebraico, in cui è stato costituito lo Stato di Israele, e in cui il popolo ebraico esercita il suo naturale, diritto culturale e storico all’autodeterminazione che è esclusivamente per il popolo ebraico”. L’Atto 2 limita i simboli di Stato, le festività e le pratiche religiose riconosciute esclusivamente a quelli che sono ebrei per storia e natura. Stella di David, terra del mito.
Secondo la legge, centinaia di comitati di ammissione in tutto Israele hanno il potere di respingere le richieste di cittadini palestinesi di vivere in comunità per motivi di “incompatibilità culturale”, legittimando così le comunità in tutto il paese designate per soli ebrei. Una recente sfida alle politiche di Stato che cercano di controllare e purificare il paesaggio parla chiaro. Così, non molto tempo fa, un tribunale dei magistrati alla periferia di Haifa ha negato la richiesta per l’istituzione di una scuola araba o il finanziamento per i palestinesi da portare in autobus verso le scuole vicine. Basandosi sullo specifico obiettivo legislativo della legge dello Stato Nazione, la Corte ha ritenuto che la presenza di cittadini / studenti palestinesi minerebbe il “carattere ebraico” della città. In un altro tentativo riuscito da parte degli israeliani di negare pari opportunità educative a tutti, non esiste una scuola di lingua araba per una popolazione di circa 3.000 studenti palestinesi a Nof Hagalil (un tempo Nazareth Ilit), una città in cui costituiscono il 26% dei suoi residenti. Questa è la regola e non l’eccezione in Israele, dove i cittadini / studenti palestinesi frequentano in gran parte scuole segregate a cui sono stati negati uguali finanziamenti e risorse regolarmente distribuite ai contemporanei ebrei emarginandoli e ponendoli in una situazione di svantaggio educativo sistemico. In Israele, gli studenti palestinesi economicamente svantaggiati non ricevono lo stesso livello di sostegno finanziario degli studenti ebrei con le stesse esigenze finanziarie.
Altrove, ai palestinesi vengono in genere negati appartamenti e case o terreni affittati per uso commerciale designati solo per ebrei relegandoli in tal modo in quartieri segregati e oppressi dalla povertà a causa della mancanza di servizi educativi e religiosi o di pratiche abitative discriminatorie sancite dallo Stato. Questa realtà è un risultato diretto e desiderato delle politiche di bilancio che dirottano i fondi pubblici verso i consigli, le comunità e soggetti ebraici, e non i palestinesi, allo scopo di garantire enclave ebraiche esclusive. Infatti, le pratiche normative hanno ridotto significativamente le aree designate per i consigli locali e le comunità palestinesi che ora hanno accesso a meno del 3% del territorio israeliano. Di conseguenza, più del 90% di quella terra è sotto il controllo statale e, quindi, soggetta alle normative dello Stato Nazione che sono riuscite a limitare le nuove opportunità abitative e commerciali ai soli ebrei. In un paese in cui i palestinesi costituiscono oltre il 20% della popolazione totale e vivono in circa 139 città e villaggi, ricevono solo l’1,7% del bilancio statale per i consigli locali. Niente affatto aberrante o involontario, secondo il Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe in Israele Adalah, Israele mantiene oltre 65 leggi che discriminano apertamente i palestinesi.
Per esempio, i finanziamenti governativi sono negati alle istituzioni palestinesi che commemorano la Nakba o sfidano, con la sola parola, l’esistenza di Israele come “Stato Ebraico e democratico” o commemorando “il Giorno dell’Indipendenza di Israele, o il giorno in cui è stato istituito lo Stato, come un giorno di lutto”. Allo stesso modo, un’associazione o un partito politico non può essere registrato se tra i suoi scopi vi è la negazione dell’esistenza dello Stato di Israele o del carattere democratico dello Stato. La legge vieta la candidatura di qualsiasi partito o individuo che neghi l’esistenza dello Stato di Israele come Stato del popolo ebraico o il carattere democratico dello Stato o che inciti al razzismo.
Inutile dire che per disegno queste pratiche governative hanno inflitto gravi e sproporzionati danni alla salute, alla sicurezza e al benessere dei cittadini palestinesi in tutto Israele. Anno dopo anno la popolazione palestinese è risultata essere molto indietro rispetto ai contemporanei ebrei in termini di aspettativa di vita, mortalità infantile, morbilità, diabete e obesità. Esistono lacune significative nella portata e nella qualità dei servizi sanitari forniti ai residenti palestinesi del paese rispetto a quelli ebrei. In nessun luogo il danno della legge dello Stato-Nazione è più concretamente visibile di quanto lo sia per i cittadini beduini palestinesi che vivono sotto costante assedio da parte di un esercito israeliano che regolarmente demolisce le loro case e i loro villaggi, come non riconosciuti dallo stato. Diverse centinaia di migliaia di beduini non hanno accesso ai servizi governativi, incluso nessun supporto dalla rete elettrica israeliana o dal suo sistema di infrastrutture idriche. Stella di David, terra del mito.
Israele, e il suo coro, sono molto orgogliosi di esaltare e predicare i suoi ideali democratici e le sue opportunità al resto del mondo, non importa quanto sia chiaramente disperata e falsa la sua pretesa. Raramente passa giorno senza un’apologia sionista per i suoi crimini contro l’umanità, i suoi crimini di guerra, il suo Genocidio, affidandosi abilmente al consumato dogma che, in quanto unica democrazia in Medio Oriente, ha il diritto di fare tutto il necessario per proteggere il suo nobile appello a tutti i suoi cittadini. Per i poveri, per gli oppressi, per i dissidenti, per quelli di diversa pelle, fede o genere non c’è nulla di insolito o di unico in questo pretesto ormai senza tempo. Israele non è il solo a gridare all’uguaglianza democratica che, storicamente, ha significato poco più per molti della tirannia della maggioranza.
Che cos’è la democrazia? Non è stato un ideale democratico a devastare le comunità indigene in tutto il Nord America; che ha aggredito l’Africa per rapire i nativi come merce da vendere nei mercati degli schiavi nel sud; che ha negato alle donne il diritto di voto e la piena uguaglianza in tutti gli Stati Uniti riducendole a semplici oggetti di scambio per secoli? Chiedete a una musulmana in Francia della democrazia che la spoglia del suo Hijab o del giovane attivista tedesco imprigionato perché il suo linguaggio ha superato il limite dell’accettabile. Eppure, la democrazia di Israele è un ineguagliabile sinistro flagello sul corpo politico contemporaneo del mondo e lo è da più di 73 anni. Un organismo mondiale che condivide la complicità e la colpa mentre è rimasto in ozioso silenzio finanziando l’ininterrotta persecuzione di milioni di persone la cui unica colpa è essere gli antichi proprietari della terra consacrata che la Stella di David esige.
Quindi, chi è questo David, questa stella usata per 73 anni per ravvivare lo stendardo blu e bianco macchiato di sangue che ha contaminato sventolando l’antica brezza sopra Jaffa, Haifa, Ashdod e dozzine di antiche città e villaggi palestinesi strappando un dolore insopportabile da così tanti, per troppo tempo? Nel Libro di Samuele, la leggenda vuole che David sia un giovane pastore che si guadagna la fama uccidendo il gigante Golia, il titano dei Filistei che, come presagio di tempi lontani a venire, arrivò in Terra Santa dall’Europa nel 12° secolo prima di Cristo, come una sorta di precedente progetto coloniale, solo per scomparire dalla storia circa 600 anni dopo. Oggi, David è quel gigante bestiale e livido e il pastore sono i palestinesi.
Stanley L. Cohen è avvocato e attivista a New York City.
Trad: Beniamimo Rocchetto – Invictapalestina.org
La normalità israeliana che alimenta la guerra – Gideon Levy
Il 21 maggio a Tel Aviv hanno riaperto la piscina comunale. L’amministrazione comunale era preoccupata che i nuotatori potessero scivolare sul pavimento bagnato correndo verso i rifugi, perciò l’hanno chiusa durante il recente conflitto tra Israele e Hamas. Gli abitanti di Gaza possono sbellicarsi dalle risate oppure morire d’invidia, perché dalle loro parti non ci sono né piscine né rifugi. Il 23 maggio, domenica, gli operai palestinesi che stanno facendo i nuovi spogliatoi della piscina di Tel Aviv sono tornati al lavoro.
La piscina è stata costruita sulle rovine di una vasca d’irrigazione usata dal vecchio villaggio palestinese di Sheikh Munis, ormai da tempo scomparso. I muratori hanno ripreso ad alzarsi alle tre del mattino nelle loro case della Cisgiordania occupata per poter raggiungere i checkpoint entro le cinque e il posto di lavoro entro le sei, per costruire così agli ebrei degli spogliatoi come non se ne trovano nei loro villaggi.
Alle sei del mattino di sabato 22 maggio il parco Hayarkon era pieno di persone che facevano jogging e andavano in bici, felici di essere lì. Le conversazioni a tema militare (“Dove hanno preso i missili Kornet?”) sono state gradualmente sostituite dalle normali chiacchiere su velocità, distanze percorse e conteggio dei battiti. Ai campi da tennis dall’altra parte della strada gli ultimi festaioli etiopi uscivano dallo sport club “bianco” che il sabato notte si trasforma in discoteca “nera”. E da Gaza continuavano ad arrivare le foto e i video: persone traumatizzate accanto alle macerie, tendoni dove piangere i morti, l’edificio bombardato che ospitava il ministero della sanità, e poi l’immagine struggente di un padre a piedi per strada con in braccio il figlio neonato, che raccoglie fiori bianchi da un cespuglio e li porge al bimbo.
- T., la studente di medicina all’università di Al Azhar a Gaza che ha realizzato quelle immagini, il 21 maggio ha esitato prima di uscire da casa per la prima volta dopo undici giorni. “Sono stata molto titubante, ma poi ho pensato che era un momento decisivo per la storia della Palestina, e che volevo vederlo con i miei occhi. Voglio ricordare questi crimini e alimentare la mia rabbia”, ha scritto.
I posti di blocco sul confine di Gaza e a Jaffa sono stati rimossi il 21 maggio, i rifugi a Tel Aviv sono stati chiusi il 23, e Galina, il cane scomparso mentre suonava la prima sirena, che i padroni si sono messi a cercare appendendo un’infinità di poster nel parco, a quanto pare non è ancora rientrato a casa: ti aspettiamo Galina, è tempo di tornare alla normalità.
Questa routine causerà la prossima guerra. Tutto quello che è stato e tutto quello che sarà fornirà il combustibile per la prossima ondata di ostilità. Il blocco di Gaza continuerà, lo stivale israeliano continuerà a schiacciare il collo della Cisgiordania, e nelle città miste arabo-ebraiche continueranno le provocazioni contro ciò che resta della comunità palestinese precedente al 1948, mentre il mondo continuerà a sostenere Israele. Anche l’arroganza rimarrà la stessa: noi israeliani provocheremo e tormenteremo, umilieremo e opprimeremo, restando convinti di poter continuare a farlo senza ostacoli.
È difficile ammettere quanto Israele sia disposto a investire nella guerra, senza investire niente per tentare di evitarla. Come non si preoccupi affatto dei rischi di un’eventuale guerra, ma tremi di paura di fronte a qualunque tentativo per impedirla. In Israele parlare con Hamas è considerata un’opzione molto più pericolosa che bombardarlo.
C’è almeno un israeliano con un piano per la Striscia di Gaza? C’è un israeliano che sa cosa vuole Israele da Gaza, oltre che la tranquillità per il proprio popolo? Dovrebbero forse lanciarci del riso in onore dell’asfissia che gli stiamo imponendo? Gli abitanti della Striscia dovrebbero accoglierci con entusiasmo per la devastazione che abbiamo seminato? Dovrebbero perdonarci tutto quello che abbiamo fatto dal 1948 a oggi? Israele ha mai usato nei confronti di Gaza un metodo diverso da quello unilaterale?
Poche ore dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco Israele ha riposto una cieca fiducia in Hamas, aprendo strade e scuole e chiudendo i rifugi. In altre parole, nella Striscia c’è un partner di cui ci si può fidare, che mantiene le sue promesse. Forse dovremmo provare a parlare con lui prima della prossima guerra, e non soltanto dopo. A Hamas non mancano il coraggio o la disponibilità al sacrificio, molto più di quanto, detto per inciso, ne abbiamo noi. Forse questo coraggio stavolta si tradurrà in coraggio politico. Ci sono persone razionali anche a Gaza.
Ma queste sono parole vuote. Galina potrà anche tornare a casa, ma Israele non imparerà nulla. Il generale in pensione Israel Ziv tornerà negli studi televisivi a spiegare come dobbiamo colpire e distruggere, accolto dagli applausi degli spettatori. Bentornati alla nostra routine.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
Crescere a Gaza è fonte di ispirazione per i poeti: la vita qui è poesia fatta a pezzi e sparsa ovunque – Mohammed Moussa
I bambini sfogliano avidamente i libri nella sezione bambini, i giovani esaminano le copertine, gli studenti universitari cercano un posto tranquillo dove lavorare, altri bevono il caffè mentre leggono. L’odore dell’incenso. Le pile di libri. Lo striscione giallo con il nome Samir Mansour – la biblioteca e libreria che ospitava i lettori più appassionati di Gaza.
Ero uno studente di letteratura inglese – alla ricerca di romanzi, raccolte di poesie, libri da tutto il mondo – quando l’ho trovato, indirizzato lì da amici che sapevano che avrei trovato quello che stavo cercando.
La prima volta che sono entrato, mi sono meravigliato delle sue decine di migliaia di libri e sono uscito con una raccolta di poesie del defunto poeta palestinese Mahmoud Darwish e un romanzo russo che era stato tradotto in arabo. Era la più grande libreria di Gaza. Ora rimangono solo pochi libri – tra cui il romanzo di Ghassan Kanafani Returning to Haifa – la storia di una coppia palestinese che torna ad Haifa dopo la guerra del 1967 per cercare il loro bambino, che furono costretti a lasciare nella guerra del 1948 ( Nakba). Come ha fatto quel libro a sopravvivere a tutte le fiamme e a tutto il fumo per stimolare il nostro desiderio ardente per la nostra patria scomparsa e la nostra Haifa scomparsa?
Mi sono svegliato alla notizia il 18 maggio. Quella mattina, alle 5:50 – le prime luci dell’alba – la libreria era stata colpita da un missile israeliano. La mia memoria si riempiva dei volti degli amici con cui ero stato lì, dei titoli e delle copertine dei libri che avevo letto o comprato lì. I nostri libri bruciavano, anche i nostri ricordi. I nostri luoghi più vitali venivano spazzati via.
Ho scritto la mia prima poesia nel 2014, mentre le bombe israeliane piovevano su Gaza, seduto in un angolo della mia stanza durante le tre ore di elettricità che avevamo ogni giorno, ascoltando la radio e il rumore di bombe, droni e ambulanze. Ho digitato le parole: “Sono nato a Gaza”. Volevo parlare di quello che stavo passando sulle note di un poeta o di un amante della poesia. Quando la poesia è stata terminata, l’ho postata sui social media. Il giorno dopo ho trovato un numero enorme di like e condivisioni; il mio messaggio era stato consegnato.
Crescere a Gaza è fonte di ispirazione per chiunque, ma soprattutto per i poeti: la vita qui è poesia fatta a pezzi e sparsa ovunque. Nei matrimoni c’è poesia, in tempo di guerra, negli occhi di un vecchio seduto davanti alla sua piccola bottega, in lutto per la morte del figlio, nelle lacrime di un amante la cui fidanzata è stata uccisa insieme a tutta la sua famiglia mentre dormiva nella sua casa, nell’azzurro delle coste di Gaza, che mi porta dove voglio essere e mi riporta a chi ero, tra le fiamme delle bombe che cadono sulle teste degli abitanti di Gaza; commovente, questo posto può sicuramente farti diventare un poeta.
Nel 2018 ho creato la prima comunità di parole recitate a Gaza, la Gaza Poets Society. È una comunità di giovani aspiranti poeti – quasi 30 di noi in totale – che si riuniscono per scambiare idee, condividere il nostro lavoro e connettersi con altri poeti in altre parti del mondo. Una volta ci siamo riuniti sulla spiaggia per condividere poesie e canzoni.
Per noi poeti, vedere Israele prendere di mira Samir Mansour e altri centri culturali ed educativi è stato penoso. Ho chiesto ad alcuni di loro di condividere i loro sentimenti.
Quando ho contattato Nadine – che è un membro della Gaza Poets Society – su Facebook per chiederle come si sentiva, lei ha risposto “ancora viva”.
Per il diciottenne del quartiere al-Nasr, nel centro di Gaza, scrivere poesie è una valvola di sfogo in tempo di guerra.
“Due anni fa, ho scoperto che mi piace molto la poesia”, spiega. “Dopo quella presa di coscienza, tutto ciò che incontro nella mia vita lo documento su carta; le mie lacrime e grida formano le mie poesie. Proprio così, scrivere poesie diventa per me una via di fuga, un mondo tutto mio, lontano dal mondo in cui vivo».
Scrive perfino quando «divampano le fiamme della guerra».
Durante il più recente assalto israeliano a Gaza, ha scritto questo:
“Là, dall’altra parte,
il tempo cambia, le ore passano e si fa più buio,
il cielo si toglie la veste sbiadita, poi arriva il mattino,
ma qui dove vivo e respiro, la vita indossa costantemente il suo vestito nero,
per piangere la fatica della mia terra,
che ha richiesto molto tempo.
Ecco, l’orologio appeso, nella mia stanza è rotto,
non solo questo, l’orologio di tutti è rotto qui,
mia madre continua a dire:
tutti stanno aspettando l’elisir,
l’abbiamo avuto con il dolore e l’agonia,
in questa terra santa dormiamo e ci svegliamo al suono dei bombardamenti e degli spari
così la prima luce del giorno sorge la sera,
illuminando il cielo con il sangue dei martiri,
qui la morte dorme non lontano da noi,
tutti camminiamo verso la libertà, verso la speranza,
camminiamo sui vetri rotti delle nostre finestre rotte,
camminiamo su pietre che un tempo erano una casa, portando storie e segreti,
camminiamo con le urla dei bambini e i gemiti delle madri che pulsano ancora e ancora nelle nostre orecchie”.
Nadine si descrive come “una persona discreta, che trova difficile parlare di ciò che sente o sperimenta a coloro che la circondano”. Si chiede se sia per questo che le sue poesie sono “vibranti, realistiche e commoventi”.
Il suo poeta preferito, dice, è Mahmoud Darwish, il poeta palestinese nato nel 1941 e morto nel 2008 e che generazioni di palestinesi sono cresciute leggendo sui libri di scuola e sui murales dipinti sui muri dei campi profughi, le cui parole fanno parte della coscienza palestinese.
“Ogni volta che leggo le sue poesie, mi ritrovo immerso nelle sue parole”, spiega Nadine. “Ho sempre voluto scavare più a fondo quando scrivo le mie poesie come ha fatto lui. Inoltre, mi piace come ha mescolato la realtà con le sue emozioni per rendere la sua poesia così potente”.
Nadine crede che vivere a Gaza abbia contribuito a farla diventare la poetessa che è oggi, ma dice: “La scrittura non può essere influenzata dalle circostanze, perché non importa cosa attraversi il poeta, lui o lei correrà sempre nel suo mondo, che è la scrittura” .
Il suo messaggio al mondo è: “Anche se la Palestina non è la tua questione nazionale o politica, non dimenticare che è prima di tutto una questione umana”.
“Non c’è sfogo a Gaza se non la poesia, è l’unico mezzo che porta le nostre anime ovunque vogliamo andare”, dice Maha Jaraba, 22 anni, che viene dal campo profughi di al-Nusairat a Deir al-Balah in centro di Gaza. Il campo sovraffollato ospita più di 80.000 persone, quelle fuggite durante la Nakba nel 1948 e i loro discendenti. Maha studia Business Administration presso l’Università Al-Quds ed è membro della Gaza Poets Society.
“Siamo in mezzo al buio, in mezzo alla desolazione, c’è solo una piccola finestra per far passare la luce, nei nostri petti, e per liberare il nostro senso di indignazione o per liberarci degli inciampi c’è solo la scrittura poesia», dice.
Tutto ciò che circonda Maha la ispira a scrivere: la poesia è l’unico modo in cui può sentirsi libera a Gaza, dice.
“Non credo che sarei una poeta se fossi nata in una città diversa da Gaza, la vita più oscura e squallida esiste solo qui. I problemi che affrontiamo, o le emozioni che vivono dentro di noi, non esistono da nessun’altra parte. E questi sentimenti sono ciò che ci ha resi poeti”, riflette.
Si rifiuta di rimanere in silenzio sulle difficoltà e la brutalità che i palestinesi sopportano: i continui attacchi a Gaza, la vita sotto assedio, la privazione dei diritti fondamentali, l’uccisione di bambini. Crede che la comunità internazionale stia facendo orecchie da mercante ai palestinesi, ma lei non sarà messa a tacere.
“L’unica cosa che ci solleva dai guai della guerra è la poesia. Mentre le bombe cadono, scrivo. Mentre apprendo della morte della mia gente, scrivo ancora”, dice.
L’ultima poesia che Maha ha scritto era una poesia in versi liberi, che esprimeva quanto fosse terrorizzata di essere fatta a pezzi, di morire a pezzi, di non essere nemmeno in grado di dire addio ai propri cari perché non possono più essere identificati. Era seduta nella casa della sua famiglia mentre lo scriveva, tutti i suoi parenti insieme in una stanza, ascoltando il suono delle bombe che cadevano mentre scriveva. Pensava che potesse essere la sua ultima poesia. “Mi è venuto in mente di fuggire, al riparo della vita, che non è diventata una vita, oggi sono qui, domani sarò lì, e la paura è tra me e ciò che sarò”, ha scritto.
“Scrivere è la vita che ci manca, e Gaza è ciò che ci ha reso poeti, è ciò che ci ha fatto scrivere poesie in lacrime, la scrittura è l’unica medicina gratuita in questa città”, dice.
Quando le viene chiesto quale sia il suo messaggio al mondo, lei risponde: “Voglio che il mondo sappia che siamo qui, che abbiamo dei sogni. Vogliamo un domani migliore, non solo per prenderci la nostra parte di dolore, ma anche per prenderci la nostra parte di vita”.
Il bianco dei suoi occhi prende l’ultima forma,
Quindi sprizzano fuori e prendono la forma della carta.
Con proiettili; spacca la bocca degli aerei da guerra –
e strappa le zanne dell’uccisione e della distruzione.
Con proiettili;
demolisce i confini d’assedio:
e le pareti del mondo che crolla
nel suo egoismo.
Con proiettili e sangue; disegna una patria libera
e una costa lunga e sconfinata
per far addormentare i ricordi.
Omar Moussa
Omar Moussa è un poeta, giornalista e membro della Gaza Poets Society di 23 anni che vive nel campo di Jabalia, il più grande campo profughi di Gaza.
“Di solito la scrittura letteraria, con le sue diverse forme, ci apre una finestra che ci permette di respirare soprattutto quando si tratta di parlare di quello che sta succedendo dentro di noi, come pensi tu e penso io, e quando lo scrivi, sembra che ci siamo rilassati”, dice Omar.
Omar crede che non ci sia modo di fuggire da un posto come Gaza, nemmeno scrivendo poesie. “Se vediamo la poesia come una porta per fuggire da Gaza, sembra un lusso che la gente di Gaza non ha. La realtà è realtà: non puoi ignorarla, e scrivere poesie è solo per imbrogliare questa realtà. Qui c’è la morte, le macerie e un po’ di vita, ma tra le concrezioni della realtà c’è un fiore che cresce, ed è il fiore della poesia».
Per Omar la poesia è un tentativo di tradurre se stessi, di scomporre la realtà o di creare una realtà separata da quella in cui viviamo.
I suoi poeti preferiti sono Mahmoud Darwish, il poeta cileno Pablo Neruda (1904-1973) e i poeti egiziani Amal Dunqul (1940-1983) e Ahmed Bakheet. “Per nessun motivo in particolare, ti ritrovi interessato a un tipo specifico di poesia e non interessato ad altri”, dice.
Quando chiedo a Omar se spera che la sua poesia raggiunga le persone al di fuori di Gaza, lui risponde: “Forse leggono le mie poesie, ma tutto quello che devo fare è scrivere. Se voglio mandare un messaggio al mondo esterno, direi: ‘Ci sono quelli che vivono, nonostante tutta la morte intorno a noi’”.
Riguardo al fatto che scriva in tempo di guerra, riflette: “Penso che il destino sia colui che mi sta scrivendo una poesia – [che sia] una poesia di morte o una poesia di vita, tutto ciò che faccio in questo periodo è [provare a] sopravvivere alla colata di lava dell’aggressione.”
DAI CONVITTI ALLA DETENZIONE: LE VITE DEI BAMBINI CONTANO! – Benay Blend
“Sì, sto pensando ai bambini palestinesi e anche ai bambini senza documenti” rifletté l’ attivista Dinè Melissa Tso. “Vengono letteralmente uccisi ogni giorno da questi governi di coloni”. Come “parte essenziale della [sua] cultura”, la corsa aiuta a “elaborare le cose”, e così ha fatto la corsa delle 2.15 in memoria dei 215 bambini indigeni che sono stati trovati in una fossa comune nella scuola residenziale di Kamloop in Canada.
Il 29 maggio 2021, Aljazeera ha riferito che i resti di oltre 200 bambini indigeni, alcuni di appena tre anni, erano stati trovati nel sito di un’ex scuola residenziale nella provincia occidentale della British Columbia.
“A nostra conoscenza, questi bambini scomparsi sono morti senza documenti,” il capo della prima nazione Tk’emlúps te Secwepemc Rosanne Casimir ha spiegato . Sono tra le molte vittime di abusi mentali e sessuali, abbandono e altre forme di violenza per 100 anni durante i quali i collegi sostenuti dalla chiesa hanno operato in tutto il Canada.
Prendendo con la forza i bambini dalle loro famiglie, le scuole hanno cercato di rompere i legami culturali e familiari indigeni al fine di assimilare i bambini nella società canadese bianca. Secondo Maskwasis Boysis , co-fondatore di Bear Clan patrol-Calgary e presidente del comitato di giustizia sociale Mimiw Sakihikan’Iyiniwak, circa 6000 bambini nativi sono morti nelle scuole residenziali a causa di malattie, percosse, plotoni di esecuzione, malnutrizione e e scosse elettriche, tra le altre forme di tortura e abbandono.
“Le scuole residenziali hanno tolto i bambini alla terra”, continua Boysis , “per disconnettere le persone dalla loro cultura per sottrarre la terra ai bambini”. Inoltre, questa forma di genocidio, dice, è in corso, poiché i bambini sono ancora tolti dai loro “lignaggi ancestrali. Una delle cose peggiori e più potenti su questa terra è lo sguardo negli occhi di una madre e il dolore che prova quando le viene tolto ciò che ama di più in questo mondo”.
Poiché la violenza è in corso, lo sono anche i traumi, le cicatrici mentali che sono di natura generazionale in quanto vengono tramandate dai genitori ai figli in un ciclo infinito di dolore. Tuttavia, “ciò che è successo ai bambini della Kamloops Residential School”, scrive Adel Eskander (assistente professore di comunicazione globale alla Simon Fraser University), “non è né unico né sorprendente”. Come i progetti di insediamento dei coloni ovunque, comprese le Americhe e la Palestina, gli “obiettivi”, continua, “sono sempre stati una combinazione di appropriazione della terra, estrazione di risorse e ingegneria demografica”.
Il rapimento dei bambini indigeni, conclude , è stato “un progetto inteso a rappresentare i loro mondi come irrecuperabili, creare nuove realtà sul terreno, scoraggiarne la resistenza”. In questo quadro, ha senso dire che il trattamento che Israele riserva ai bambini palestinesi sia più o meno lo stesso.
Infatti, nei giorni scorsi, Israele ha lanciato una massiccia campagna di arresti contro i palestinesi che hanno partecipato alle recenti rivolte contro il progetto coloniale dello stato. Come osserva Abir Kopty , gli agenti di polizia israeliani, la polizia di frontiera e i membri dei servizi segreti dovrebbero arrestare circa 500 partecipanti a proteste pacifiche.
Tra gli arrestati ci sono bambini, tra cui Abdul-Khaliq e Mohammed Burnat, figli dell’attivista di Bil’in Iyad Burnat. In un’intervista con Robert Inlakesh, Burnat racconta la storia dell’aggressione israeliana che da anni si scatena contro la sua famiglia. All’inizio di maggio, le forze sioniste hanno ucciso suo nipote Islam, un ragazzo di 16 anni che stava partecipando alle proteste. Da allora hanno ripetutamente invaso la sua casa, insieme ad altre abitazioni, seminando scompiglio e arrestando i figli di altre famiglie.
“Dopo che hanno preso Abdul-Khaliq e Mohammed, mia moglie e mia figlia non dormono, le lacrime non hanno lasciato gli occhi di mia moglie”, ha detto Iyad. “Il mio figlio più giovane Mohyaldeen”, continua,
“sta crescendo vedendo nient’altro che violenza. Sa che suo fratello maggiore Majd è stato colpito da un colpo di arma da fuoco ed è quasi morto, anche suo fratello maggiore Abdul-Khaliq è stato colpito molte volte e imprigionato quando aveva solo 17 anni per 13 mesi. Non ha visto altro che violenza e anche se è normale che ora accadano queste cose, ha ancora paura, è solo un bambino”.
Abdul-Khaliq e Mohammed sono ora nella prigione di al-Moskobiya, una struttura di detenzione a Gerusalemme ovest che, secondo Inlakesh, ha la reputazione di utilizzare forme di alto livello di tortura durante gli interrogatori.
Burnat riferisce infatti che il suo avvocato, che ha comunicato con Abdul-Khaliq tramite lo schermo del computer, attesta che il ragazzo afferma di essere stato messo in quella che è nota come una “Sedia fantasma” per più di 15 ore al giorno per estrargli informazioni che lui non ha. Secondo Burnat, la sedia fantasma è piccola, in modo tale che mani e piedi possano essere strettamente legati per infliggere il massimo del dolore.
Questi due ragazzi sono tra i tanti bambini adesso nelle carceri israeliane. La giornalista palestinese Zaina Halawani (recentemente arrestata mentre seguiva le proteste a Sheikh Jarrah), ha documentato la sua esperienza di ascoltare i bambini palestinesi che urlavano chiamando le loro madri durante le poche notti che ha trascorso in prigione.
Nel 1948, il primo ministro David Ben Gurion avvertì : “Dobbiamo fare di tutto per assicurare che (i palestinesi) non tornino mai”. Sperava infatti che “i vecchi moriranno e i giovani dimenticheranno”, garantendo che non sarebbero tornati alle loro case.
Questo è forse il motivo per cui l’esercito israeliano prende di mira bambini come Abdul-Khaliq e Mohammed. Vogliono iniziare a spezzare la resistenza dei palestinesi quando sono giovani nella speranza che lasceranno la loro terra. Era anche la logica dietro l’allontanamento forzato dei bambini indigeni dalla loro famiglia per mandarli negli ormai famigerati collegi, interrompendo così il loro legame con la terra.
Fortunatamente per gli indigeni nelle Americhe e in Palestina, quella strategia è fallita. Oggi, 5 giugno 2021, ricorre l’ anniversario della Naksa , la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, un periodo in cui Israele ha supervisionato lo sfollamento di una gran parte della sua popolazione palestinese e l’inizio di quella che oggi è conosciuta come l’Occupazione. Per celebrare l’occasione, si terranno manifestazioni qui ad Albuquerque, nel New Mexico e in tutto il mondo, sottolineando così il desiderio dei palestinesi di mantenere il loro legame con la terra nella speranza di soddisfare un giorno il loro diritto legittimo al ritorno.
Sulle terre indigene del Minnesota, le persone si stanno radunando per resistere alla Linea 3 , una sezione del Dakota Pipeline che si propone di tagliare il territorio di Anishinaabe, terra che circonda la regione dei Grandi Laghi e si estende a nord verso la Baia di Hudson. Questa resistenza dimostra la relazione spirituale tra i popoli indigeni e la loro terra, una connessione che i nativi credono che l’oleodotto reciderà.
Dati entrambi questi esempi, è chiaro che gli sforzi coloniali per “ripulire” etnicamente la terra sono falliti. Come conclude Melissa Tso ,
“Non dovrebbero essere necessari i risultati di ciò che rimane del nostro popolo per convalidare questa orribile eredità dei governi coloniali (Canada e Stati Uniti). Rispetti la nostra umanità rispettando le verità della storia e sostenendo la nostra lotta per la liberazione. Smettila di trattarci allo stesso modo in cui i nostri figli sono stati maltrattati in residenze/convitti. Difendi i diritti degli indigeni, sempre”.
Lo stesso dovrebbe essere detto anche per i bambini palestinesi.
ESTENDERE LA NARRATIVA PALESTINESE: PARLA HANAN ASHRAWI
Hanan Ashrawi è senza dubbio la donna palestinese più famosa della sua generazione. Per decenni è stata la voce instancabile ed eloquente della Palestina in tutto il mondo, sostenendo la libertà delle persone e istruendo politici, decisori e cittadini comuni sulla causa palestinese. Assolutamente femminista e progressista dichiarata, Hanan ha costantemente riaffermato la capacità stimolante del popolo palestinese di svilupparsi nonostante le difficoltà. Promuove la ricerca di un terreno comune e la costruzione di ponti con altri movimenti sociali in tutto il mondo basati sul rispetto e la parità reciproci. “La nostra lotta non deve ridursi a chiedere simpatia o a dimostrare che meritiamo la libertà. Dobbiamo stare in piedi e costruire partnership alla pari “, afferma.
Il popolo palestinese ha vissuto di sumud per un secolo, rifiutando la propria
disumanizzazione e cancellazione, proteggendo la propria identità e narrativa,
lottando per la libertà dall’impresa coloniale di Israele e nello stresso tempo prosperando e
contribuendo all’umanità in tutti i campi. Sumud, spiega, comprende il sostegno a
una società civile vibrante, attiva, diversificata, con principi che fa sentire le voci di
cittadini, non lascia indietro nessuno e garantisce che i diritti delle donne non siano
soppressi o messi da parte”.
Il contributo di Hanan alla Palestina va oltre la lotta per porre fine all’occupazione coloniale israeliana. Nella sua lunga e ricca carriera accademica, politica
avvocata, leader della società civile, parlamentare ed eletta nel comitato esecutivo OLP
è stata anche una strenua sostenitrice delle donne, dei diritti, libertà civili, libertà, buon governo e trasparenza. E’ accreditata per la creazione di molte importanti organizzazioni della società civile, tra cui la Commissione Indipendente per i diritti umani, e la trasparenza
l’ Iniziativa palestinese per la Promozione del Dialogo globale e la democrazia (MIFTAH).
Proteggere e far progredire i diritti delle donne sono parte integrante della capacità del popolo palestinese di perseverare e raggiungere la libertà, Hanan afferma. In una recente intervista
pubblicata sul sito della Fondazione Heinrich Böll diceva :” Non puòi negare l’autodeterminazione,
giustizia e uguaglianza alle donne nella tua società e affermare che
stai combattendo nel loro insieme contro l’occupazione”. Lei ha ha dedicato la sua carriera a far avanzare i diritti delle donne in Palestina e in tutto il mondo, sostenendo la adozione della risoluzione 1325 delle Nazioni Unite, e spingendo il governo palestinese aderire alla Convenzione sul l’eliminazione di tutte le forme di Discriminazione contro le donne
(CEDAW), tra gli altri.
Nel dicembre 2020, Hanan si è dimessa dalla sua posizione di membro
dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Comitato Esecutivo, per fare posto
alle donne più giovani. Anche lei ha reiterato il suo appello per le elezioni
e il rinnovamento delle istituzioni Palestinesi. Mentre le sue dimissioni hanno causato un tumulto politico, società civile e attiviste per i diritti delle donne non erano sorpresi che Hanan stesse
praticando ciò che predica: la necessità di un sistema politico democratico responsabile, trasparente, inclusivo. Le dimissioni dal suo incarico politico hanno liberata Hanan per quello che lei ama di più: costruire una robusta società civile. “Riesco a malapena a mantenerecontatti con loro!” lei esclama quando descrive le richieste che riceve da tutto il mondo.
Sottolinea che non ha bisogno di un titolo per continuare a servire le
persone, spiegando: “Ora sono libera di concentrarmi sull’empowerment dei giovani e delle donne ancora di più, e per aiutarle diventare le leader che possono essere.
Questo è il modo per garantire che la nostra la lotta e il nostro sumud rimangono vibranti
ed efficaci.”
“La nostra complessa realtà e lotta ispira le persone di tutto il mondo.
Dobbiamo essere orgogliosi di chi siamo e ciò che rappresentiamo”, afferma Hanan.
Lei crede che il sumud palestinese si rafforzi lavorando su tutti i fronti:
nazionale, arabo e internazionale allo stesso tempo, affermando:
“Non dobbiamo perdere di vista l’ intersezionalità della nostra causa e la
dimensione internazionale del nostro appello per la libertà.”
Traduzione a cura di Alessandra Mecozzi
GRAZIE, BELLA HADID. MA LA LOTTA PALESTINESE È “DI TENDENZA” GRAZIE A QUESTE PERSONE –
Israeliani, vi piace il silenzio, vero? E amate un mondo in cui i palestinesi sono completamente silenziosi. Siete i migliori nel mettere a tacere i bambini, specialmente i bambini palestinesi. I 67 bambini che sono stati massacrati dal meglio dell’aeronautica israeliana e che ora sono sepolti in profondità nel terreno di Gaza sono stati messi a tacere da lontano, solo schiacciando un pulsante, e sono diventati danni collaterali.
Sessantasette nuove tombe non hanno portato all’ammissione di un orrendo massacro. Invece, tutto ciò che hanno fatto gli occupanti che controllano l’opinione pubblica israeliana è stato tirare fuori il discorso di simmetria delle forze ebraico-palestinesi, e così il massacro è stato reso kosher.
E invece di un grido oscuro e ululante multilingue che perfori i cieli di Tel Aviv fino a quando gli assassini di bambini non vengano assicurati alla giustizia, abbiamo sentito principalmente: “Come ha osato il redattore di Haaretz mettere le foto dei bambini palestinesi massacrati sulla prima pagina del giornale ? Dove sono le vittime ebree?”
Ma non solo ami il silenzio , sei anche bravo a creare e utilizzare strumenti pratici, efficaci e crudeli di silenzio e persecuzione. Questa volta, la macchina del silenzio che opera sotto gli auspici della diplomazia pubblica israeliana ha funzionato senza sosta, perché è ancora difficile mettere a tacere le tombe di 67 bambini palestinesi. Secondo la dottrina della violenta macchina dell’informazione israeliana, i palestinesi dovrebbero morire in silenzio, così come i danni collaterali dovrebbero scomparire rapidamente, senza traccia o scia di ricordi e lutti.
La macchina del silenzio della diplomazia israeliana non si è impegnata in discorsi sofisticati. Invece, ha ripetutamente tirato fuori le vecchie ma attese accuse di antisemitismo. Ma era certamente coerente, diretto e preciso. Ha segnato un colpo diretto, solo che questa volta, a differenza del passato, il “bersaglio” non è tornato sulle sue posizioni come previsto. La macchina ha inseguito personaggi politici e culturali, varie celebrità, cercando di farli tacere con la forza.
Compresa la top model americana di origine olandese-palestinese Bella Hadid, che è stata perseguitata dalla diplomazia pubblica israeliana dopo aver partecipato a una manifestazione di solidarietà per i palestinesi a New York. Hadid, 24 anni, nativa di Los Angeles e discendente di una famiglia di rifugiati palestinesi sfollati nel 1948, è stata immediatamente accusata di aver chiesto la cancellazione di Israele perché ha gridato “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera!”
Devo ammettere che non ho capito cosa ci fosse di sbagliato nell’affermazione di Hadid. Se liberare la Palestina significa smantellare il regime dell’apartheid, è fantastico.
Ma la volontà di dividere, attaccare e silenziare non si è fermata qui. Un enorme annuncio è stato pubblicato sul New York Times il 22 maggio, finanziato dal The World Values Network del rabbino Shmuley Boteach, con le foto delle due sorelle Hadid e la cantante Dua Lipa con la didascalia: “Hamas chiede un secondo Olocausto, CONDANNIAMOLE ADESSO”
Questo attacco è arrivato fino a House of Dior, che secondo molte fonti ha annullato un consistente contratto con Bella Hadid. Queste voci hanno fatto arrabbiare decine di migliaia di seguaci di Hadid, che hanno invitato a boicottare Dior perché stava cercando di violare la libertà di espressione di Hadid. Dior, da parte sua, non ha commentato; il mondo della moda insiste che queste erano voci infondate. Hadid, accusata di antisemitismo, non si è tirata indietro. Ha scritto su Instagram: “Si tratta di colonizzazione israeliana, pulizia etnica, occupazione militare e apartheid sul popolo palestinese che va avanti da ANNI!”
È satta Hadid che ha reso la lotta palestinese sexy e persino mainstream? Sono state Viola Davis, Susan Sarandon, Mark Ruffalo e Zayn Malik, che hanno anche messo tutto il loro peso dietro la lotta palestinese? Sì e no. Da un lato, è chiaro che una volta che una celebrità come Hadid o Ruffalo esprime sostegno alla lotta dei palestinesi contro il regime dell’apartheid e contro la pulizia etnica, il messaggio è che il tabù al centro del discorso sociopolitico occidentale non esiste più. Hanno anche segnalato al mondo intero che si può opporsi alla persecuzione e al silenzio israeliani, e persino avere successo.
D’altra parte, né Hadid né Ruffalo avrebbero potuto osare abbattere questo tabù senza l’eccellente lavoro sul campo di movimenti civici come Sunrise Movement, Black for Palestine, Black-Palestinian Solidarity e Black Lives Matter.
Questi movimenti non solo hanno incrinato la coscienza americana, che fino a pochi anni fa era impenetrabile per i palestinesi, ma hanno avuto un successo straordinario nel collegare la lotta palestinese alla lotta dei neri, un gruppo che è escluso e messo a tacere negli Stati Uniti, e presentandolo in termini più ampi senza sacrificare il discorso e le circostanze palestinesi. Hadid e i suoi coetanei sono cresciuti in un discorso in cui l’uguaglianza e la giustizia sono il campo di tutti gli esseri umani e non solo dei padroni, e dove non c’è giustificazione per il nazionalismo oppressivo e distruttore. In questo senso la scena era pronta; la narrativa palestinese con tutte le sue sfaccettature è entrata nel discorso e nella coscienza americana esattamente al momento giusto.
Il silenziatore ha fallito miseramente non solo all’estero, ma anche a livello locale. La nuova generazione palestinese, nata ironia della sorte, nel 2000, anno in cui la coscienza dei cittadini palestinesi è stata bruciata nel fuoco e nel sangue, non ha dovuto abbattere alcun confine, né interiore né fisico, per raggiungere Sheikh Jarrah.
Questa generazione, contrariamente a tutte le analisi sofisticate, ha aggirato l’israelianità come se fosse niente. La sua coscienza non riconosceva confini e divisioni intra-palestinesi vuote, gerarchiche e divisive, così sono venuti a migliaia a Gerusalemme est per protestare contro la pulizia etnica a Sheikh Jarrah, perché sapevano bene che sapore hanno l’oppressione, la persecuzione e le uccisioni confermate. Questa generazione palestinese ha trasformato l’identità palestinese sconfitta, vittimizzata e sottomessa in un’identità di lotta. Venire a Sheikh Jarrah era per loro una dichiarazione che stavano scegliendo la lotta invece della sconfitta.
Questa nuova generazione palestinese, nonostante sia cresciuta in un discorso di sconfitta, sacrificio e perdita, è riuscita a far leva e cambiare l’identità della vittimizzazione principalmente perché non è stata ancora esposta direttamente e sistematicamente alla violenza istituzionale e al razzismo israeliani. Di conseguenza, la sua coscienza nazionale e politica non è stata ancora bruciata dalla repressione politica e istituzionale, con arresti, indagini dello Shin Bet e torture.
Questi giovani si sono appena diplomati e non sono ancora entrati nel mercato del lavoro e nel mondo accademico. E a differenza dei loro genitori e nonni, chiedono una correzione dell’ingiustizia storica per il senso di una nuova orgogliosa “palestinesità”, piuttosto che di una falsa “israelianità”. Questa generazione si aggrappa alla palestinesità non come ad una logora identità nostalgica, ma come una coscienza radicata nella lotta. Al momento questa coscienza è sotto attacco violento da parte di Israele e dei suoi agenti. Questo attacco include arresti, interrogatori e violenze fisiche e psicologiche, che sono progettati per creare una coscienza del trauma che castrerà lo sviluppo di una coscienza della lotta e della ribellione. Di conseguenza ecco questa punizione brutale e la diffusa rabbia israeliana per la rivolta della nuova generazione palestinese, che sta emergendo non solo in mezzo a un indebolimento del dominio israeliano, ma principalmente a causa del rifiuto dei palestinesi di accettare e interiorizzare la coscienza nazionale disfattista.
Questa nuova generazione di palestinesi, che era fotogenica e amica dei media, indossava Nike, Adidas e Prada e assomigliava persino alle loro controparti occidentali. Questo era ciò che rendeva la palestinesità, la lotta palestinese e le richieste del popolo palestinese sexy e persino mainstream, non solo per i giovani nel mondo arabo ma anche, e principalmente, per i loro coetanei occidentali.
Non sto, ovviamente, sostenendo che sia stata la “modernità palestinese” a compiere il lavoro politico, ma piuttosto che questa tendenza ha rafforzato la loro immagine umana, ha normalizzato loro e la loro voce, in particolare nei confronti dei giovani dell’Occidente . Al culmine del suo orgoglio e della sua bellezza, questa nuova generazione palestinese ha incontrato la giovane generazione occidentale, che l’ha vista come una generazione forte ed eroica che lotta per la propria vita, terra e casa, e affronta da sola le forze del male sotto forma dello stato israeliano: la connessione è stata immediata.
Grazie a questo alone di eroismo, la nuova generazione palestinese ha potuto non solo catturare i giovani dell’Occidente e spronarli a pubblicare video a sostegno della causa palestinese, ma anche spingerli finalmente a schierarsi, a esprimersi contro il regime dell’apartheid e la pulizia etnica, per opporsi alla politica estera dei propri paesi e persino assumersene la responsabilità.
Ma soprattutto, questa giovane generazione palestinese, scesa in piazza senza paura, ha liberato i giovani dell’Occidente dalle proprie paure, in primis la paura delle accuse antisemite, e li ha spinti a parlare contro Israele in modo aspro, critico e duramente. Questa potente nuova generazione di palestinesi ha liberato i giovani dell’Occidente dalle catene del ricatto emotivo e dai sensi di colpa storici derivanti dall’Olocausto, inaugurando un dialogo politico radicale.
Non si torna indietro e non ci sarà silenzio. Israele può continuare a difendersi e a massacrare indiscriminatamente i palestinesi, ma non sconfiggerà né la nuova generazione palestinese né la voce dei giovani occidentali che hanno abbattuto i confini della paura.
La guerra infinita contro i Palestinesi – Alain Gresh
Dopo 11 giorni di conflitto, che hanno causato la morte di 230 palestinesi e 12 israeliani, Israele e Hamas hanno concordato un cessate il fuoco incondizionato. La fine delle ostilità non ha allentato le tensioni a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, né ha risolto le questioni di fondo. Finché non avranno un vero Stato, finché continuerà la colonizzazione, i palestinesi lotteranno per i propri diritti.
In Palestina, la storia si ripete. In modo regolare, inesorabile, spietato. Ed è sempre la stessa tragedia; è una tragedia che si poteva prevedere, vista l’evidenza dei fatti, ma che continua a sorprendere chi confonde il silenzio dei media con l’acquiescenza delle vittime. Ogni volta, la crisi assume contorni particolari e segue percorsi nuovi, ma può essere riassunta in una verità chiara: il persistere da decenni dell’occupazione israeliana, della negazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese e della volontà di cacciarlo dalla sua terra.
Molto tempo fa, dopo la guerra del giugno 1967, il generale de Gaulle aveva immaginato ciò che sarebbe successo: «Sui territori che ha conquistato, Israele organizza un’occupazione che non può essere mantenuta senza oppressione, repressione, espulsioni; e la resistenza che si manifesta, la definisce terrorismo (1)». E in occasione del dirottamento di un aereo israeliano nel 1969, dichiarò che l’azione di un gruppo clandestino, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), descritto all’epoca come terroristico, non poteva essere equiparata alle rappresaglie di uno Stato come Israele, che nel 1968 aveva distrutto la flotta aerea civile libanese nell’aeroporto di Beirut. Il leader francese impose poi un embargo totale sulla vendita di armi a Tel Aviv. Un’altra epoca, un’altra visione.
Il capitolo più recente di questa ricorrente catastrofe si è dunque aperto a Gerusalemme. Gli elementi sono noti: la brutale repressione di giovani palestinesi cacciati dagli spazi pubblici della Porta di Damasco e della spianata delle Moschee, dove celebravano ogni sera la rottura del digiuno del Ramadan – bilancio: più di trecento feriti; l’invasione della spianata da parte della polizia israeliana, che non ha esitato a lanciare gas lacrimogeni sui fedeli e a sparare proiettili dichiaratamente di gomma (2); l’espulsione programmata di intere famiglie dal quartiere di Sheikh Jarrah; le incursioni, al grido di «morte agli arabi», di suprematisti ebrei forti della loro recente vittoria elettorale, ottenuta grazie all’appoggio del primo ministro Benyamin Netanyahu. Violare il mese sacro del Ramadan, dissacrare un santuario dell’islam, usare la forza bruta: molte voci in Israele hanno denunciato, a posteriori, gli «errori» commessi.
Errori? Piuttosto, cieca arroganza e disprezzo nei confronti dei colonizzati. Come ha notato un giornalista di Cable News Network (Cnn), cosa potrebbero mai temere le autorità, che usano «la tecnologia per tracciare i movimenti dei telefoni cellulari, droni per monitorare i movimenti dentro e intorno alla città vecchia, e centinaia di telecamere di videosorveglianza»? Tanto più che erano sostenuti da «migliaia di poliziotti armati schierati per sedare i disordini, aiutati da camion che lanciavano quella che i palestinesi chiamano “acqua di fogna”, un liquido puzzolente spruzzato su manifestanti, passanti, automobili, negozi e case» (3).
Ma non è stata messa in conto la determinazione dei giovani di Gerusalemme i quali, senza alcuna organizzazione politica, hanno tenuto testa alle forze della repressione. Altra «sorpresa»: lo hanno fatto con il sostegno dei loro fratelli e sorelle delle città palestinesi di Israele, da Nazareth a Umm al-Fahm, infrangendo il mito di uno Stato che avrebbe trattato i suoi cittadini in modo uguale. Per anticipare queste rivolte, bastava leggere i rapporti pubblicati recentemente da due importanti organizzazioni per i diritti umani, l’israeliana B’Tselem e la statunitense Human Rights Watch, i quali spiegano come il sistema di governo in tutta la Palestina sotto mandato, non solo nei territori occupati, sia un sistema di apartheid secondo la definizione data dalle Nazioni unite, che può essere riassunta in una frase: sullo stesso territorio coesistono, a volte a pochi metri di distanza, popolazioni che non hanno gli stessi diritti, non rientrano nella stessa giurisdizione, non sono trattate allo stesso modo (4). Questa disparità produce gli stessi effetti del Sudafrica prima della caduta del regime dell’apartheid: insubordinazione, rivolte, tumulti.
Nelle città in cui sono in maggioranza, i palestinesi in Israele patiscono la pochezza degli investimenti statali, la mancanza di infrastrutture, il rifiuto delle autorità di agire contro la criminalità; nelle città miste, sono relegati in quartieri sovraffollati, costretti all’esilio dalla pressione della colonizzazione ebraica, consapevoli che l’obiettivo del governo israeliano è quello di liberarsi di tutti questi «non-ebrei». Un giovane palestinese di Israele spiega così la sua solidarietà con Sheikh Jarrah: «Succede a Gerusalemme quello che succede a Jaffa e Haifa. La società araba in Israele viene sistematicamente espulsa. Abbiamo raggiunto il punto di ebollizione. A nessuno importa se possiamo continuare a esistere, al contrario. Ci stanno spingendo via (5)».
A Lod, una città di 75.000 abitanti, gli scontri tra ebrei e palestinesi – che sono un quarto della popolazione – sono stati particolarmente brutali. I palestinesi sono ancora perseguitati dallo spettro della pulizia etnica del 1948, quando gruppi armati sionisti espulsero manu militari 70.000 persone (6). Lo stesso disegno è ancora all’opera, anche se si manifesta in altre forme: si tratta di «finire il lavoro » spingendoli fuori. Le 8.000 unità abitative in costruzione sono tutte riservate agli ebrei, e qui, come a Gerusalemme o in Cisgiordania, è praticamente impossibile per un palestinese ottenere un permesso di costruzione. Il fatto che abbia un passaporto israeliano non cambia nulla.
Il primo atto del dramma attuale si è concluso il 10 maggio. Le autorità israeliane hanno dovuto fare marcia indietro, almeno in parte. I giovani palestinesi hanno ripreso il controllo della strada; la moschea di al-Aqsa è stata evacuata; la Corte Suprema, che doveva ratificare l’espulsione di diverse famiglie da Sheikh Jarrah – come fa regolarmente con l’ebraicizzazione della Palestina (7) –, ha rinviato la decisione di un mese. Anche la manifestazione prevista per celebrare la «liberazione » della città e dei suoi luoghi sacri nel 1967 si è trasformata in un fiasco. Il suo percorso è stato cambiato per aggirare i quartieri palestinesi, confermando la divisione in due della «capitale unificata ed eterna di Israele» e la resilienza dei palestinesi: rappresentano il 40% della popolazione – anche se la municipalità dedica loro solo il 10% dei fondi (8) – erano il 25% nel 1967.
Un nuovo atto di rivolta
Lo stesso giorno, dopo aver lanciato un ultimatum che esigeva il ritiro della polizia da Gerusalemme, Hamas, al potere a Gaza, lanciava una salva di razzi contro le città israeliane, inaugurando un nuovo atto di rivolta. Immediato il fuoco di fila mediatico contro «l’organizzazione terroristica», la pedina dell’Iran, il cui ricorso alla violenza impedirebbe qualsiasi soluzione politica. Ma i «tempi tranquilli» (cioè quando solo i palestinesi venivano uccisi, senza che questo facesse mai notizia) hanno mai spinto il governo di Netanyahu a negoziare una vera pace? Come ricordava Nelson Mandela nelle sue Memorie, «è sempre l’oppressore, non l’oppresso, a determinare la forma della lotta. Se l’oppressore usa la violenza, l’oppresso non ha altra scelta che rispondere con la violenza (9)».
Né il carattere violento di Hamas né la sua etichetta di organizzazione «terroristica» hanno impedito a Netanyahu di farne un interlocutore privilegiato in diverse occasioni, fin dal primo incarico di governo nel 1996, quando si trattava di indebolire l’Autorità palestinese. In questo modo, il premier sperava di frammentare la causa palestinese tra Gaza e Ramallah – e questo gli permetteva, oltretutto, di spiegare che non era possibile negoziare con palestinesi divisi! È stato Netanyahu ad autorizzare il trasferimento di centinaia di milioni di dollari dal Qatar a Gaza per riabilitare parzialmente il territorio, sotto blocco dal 2007 e devastato durante la guerra del 2014 (10). Senza dubbio una parte di questo denaro ha permesso ad Hamas, con l’aiuto dell’Iran e del movimento libanese Hezbollah, di ricostituire e sviluppare il suo arsenale militare e le sue capacità di combattimento.
L’esercito israeliano, convinto di aver inferto colpi mortali ad Hamas nella sua offensiva del 2014 e di aver «comprato la pace» con una manciata di dollari, è stato sorpreso dal suo ingresso nella battaglia per Gerusalemme – ulteriore prova della sua arroganza e incapacità di comprendere la «mentalità dei colonizzati». Tutti i palestinesi, musulmani e cristiani, considerano Gerusalemme come il cuore della loro identità. Fotografie o dipinti della città, a volte anche modelli della moschea di al-Aqsa, adornano le loro case. La portata del movimento sviluppatosi intorno a Sheikh Jarrah, ed estesosi ai palestinesi in Israele, ha spinto Hamas a gettare il peso nella battaglia, soprattutto perché la prospettiva di un progresso politico era stata bloccata dalla decisione del presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas di rinviare le elezioni parlamentari e presidenziali – una decisione motivata dalla paura di essere ripudiato dal voto popolare e dal rifiuto di Israele di consentire il voto a Gerusalemme Est.
Impegnandosi, Hamas ha contribuito a riunire i palestinesi: quelli della Palestina mandataria, quelli dei campi profughi, ma anche la diaspora in giro per il mondo. Ne è testimonianza lo sciopero generale al quale hanno partecipato il 18 maggio quelli di Gerusalemme, quelli dei territori occupati e quelli di Israele – la prima volta in oltre trent’anni. Un successo ottenuto nonostante le continue divisioni politiche, sia tra Hamas e l’Autorità palestinese sia all’interno della stessa Fatah. Ma le divisioni avranno un peso sulle possibilità di consolidamento delle conquiste palestinesi.
Sul piano militare, l’esercito israeliano ha fatto quello che sa fare: ha applicato la dottrina del generale Gadi Eizenkot, sviluppata in seguito alla guerra del 2006 contro il Libano. Conosciuta come «dottrina Dahiya», dal nome di un quartiere nel sud di Beirut dove si trovava la sede di Hezbollah, prevede una risposta sproporzionata e «rappresaglie» contro aree civili suscettibili di servire da base per il nemico. Nessun altro esercito al mondo ha osato formulare apertamente una tale «dottrina terroristica» – anche se, naturalmente, molti non hanno esitato a metterla in pratica, si pensi agli statunitensi in Iraq e ai russi in Cecenia.
L’esercito israeliano ha anche un pretesto ideale: poiché Hamas controlla Gaza dal 2007, qualsiasi ufficio incaricato delle tasse, dell’istruzione o dell’assistenza sociale può essere qualificato come un obiettivo legittimo. Il bilancio è terribile: più di 230 palestinesi uccisi, tra cui circa 60 bambini; 1.800 feriti; 600 case e una decina di grattacieli totalmente distrutti; colpiti centri medici, università e stazioni elettriche. La Corte penale internazionale, che ha messo in agenda la situazione in Palestina, si occuperà sicuramente di questi fatti.
E il risultato di tutto questo? È «l’operazione più fallimentare e inutile di Israele a Gaza», denuncia Aluf Benn, direttore del quotidiano israeliano Haaretz. L’esercito – che si vanta ad ogni nuovo round di aver «sradicato le organizzazioni terroristiche e le loro infrastrutture» – non solo non ha anticipato nulla, ma «non ha la minima idea di come paralizzare Hamas e destabilizzarlo. La distruzione dei suoi tunnel con bombe potenti (…) non ha inflitto alcun danno serio alle capacità di combattimento del nemico» (11). Quanto alla «Cupola di ferro», il sistema di intercettazione dei razzi, ha limitato a dodici il numero di morti tra gli abitanti delle città israeliane, ma non ha impedito lo sconvolgimento della loro vita quotidiana, poiché sono stati costretti a cercare scampo nei rifugi, anche a Tel Aviv e Gerusalemme. Razzi e missili cambiano la situazione: d’ora in poi, nessuna città in Israele è sicura – lo si era già visto durante la guerra contro Hezbollah nel 2006. E per il futuro si può immaginare una guerra su più fronti: Gaza e il Libano, e anche lo Yemen, dove gli Houti hanno minacciato di rivolgere anche contro Israele la loro significativa capacità di attacco missilistico – usata per rispondere ai bombardamenti sauditi.
Già durante la guerra del 2014, gli osservatori hanno notato la crescita delle prestazioni militari di Hamas, che sono ulteriormente aumentate nel campo balistico. «Il numero di alti dirigenti di Hamas che l’esercito israeliano ha ucciso dimostra che non è una “organizzazione effimera”, come sostengono diversi analisti, fa notare Zvi Bar’el su Haaretz. Alcuni di questi uomini ricoprivano ruoli impressionanti – comandante della brigata di Gaza City, capo dell’unità di sviluppo cibernetico e missilistico, capo del dipartimento progetti e sviluppo, capo del dipartimento di ingegneria, comandante del dipartimento tecnico dell’intelligence militare, capo della produzione di attrezzature industriali. Si tratta di un esercito con un bilancio, gerarchico e organizzato, i cui membri hanno la formazione e il know-how necessari a gestire le infrastrutture, sia quelle per la sopravvivenza che quelle per le offensive (12)». Assassinare alcuni quadri di Hamas non cambierà nulla: una nuova generazione di militanti sta già emergendo dalle macerie, nutrita da una rabbia ancora più inestinguibile contro il «nemico israeliano».
Il termine «apartheid» si diffonde
Questa rabbia non è limitata ai palestinesi. È dalla seconda Intifada (2000-2005) che la mobilitazione a loro favore nel mondo arabo non raggiunge queste dimensioni. Centinaia di migliaia di persone hanno marciato in Yemen e in Iraq – ironia della sorte, uno degli obiettivi della guerra statunitense del 2003 era favorire le relazioni diplomatiche tra Baghdad e Tel Aviv. Ci sono state manifestazioni anche in Libano, Giordania, Kuwait, Qatar, Sudan, Tunisia e Marocco. La questione palestinese, lungi dall’essere stata marginalizzata dagli accordi di Abramo firmati da Israele, Emirati arabi uniti e Bahrein (13), rimane al centro dell’identità araba. Le speranze di «normalizzazione» con Arabia saudita o Mauritania sono state (temporaneamente?) deluse. Anche in Egitto, la rabbia si è espressa sui social, ma anche sulla stampa ufficiale. E il tweet a favore dei palestinesi di Mohamed Salah, il famoso attaccante di calcio che gioca per il Liverpool Fc, ha avuto grande diffusione.
La Palestina, relegata sullo sfondo dai diplomatici occidentali, è tornata al centro del dibattito. Nessun’altra causa, dalla lotta contro l’apartheid in Sudafrica, ha suscitato una tale ondata di solidarietà in tutto il mondo, dall’America latina all’Africa. Anche negli Stati uniti, molti politici democratici hanno preso posizione contro l’imbarazzante complicità di Joseph Biden, usando parole fino ad allora inaudite.
Diverse figure della sinistra statunitense non esitano più a usare termini come «occupazione», «apartheid» o «etno-nazionalismo». Per esempio, Alexandria Ocasio-Cortez, una deputata di New York, ha detto su Twitter il 13 maggio: «Parlando solo delle azioni di Hamas – che sono da condannare – e rifiutando di riconoscere i diritti dei palestinesi, Biden rafforza l’idea falsa che i palestinesi siano i responsabili dell’avvio di questo nuovo ciclo di violenza. Questo non è un linguaggio neutrale. Si sta schierando con una parte, quella dell’occupazione ». Il giorno prima, era tra i 25 eletti democratici che hanno chiesto al segretario di Stato Antony Blinken di fare pressione sul governo israeliano per fermare l’espulsione di quasi duemila palestinesi da Gerusalemme Est. «Dobbiamo difendere i diritti umani ovunque», ha twittato uno dei firmatari, Marie Newman. D’altra parte, in Europa, e in particolare in Francia, si assiste – nonostante le mobilitazioni a favore della Palestina – a un allineamento con Israele e con il suo discorso centrato sulla «guerra contro il terrorismo » e sull’«autodifesa».
Il cessate il fuoco entrato in vigore il 21 maggio durerà? Cosa succederà alle famiglie minacciate di espulsione a Sheikh Jarrah? L’Autorità palestinese sopravviverà al proprio fallimento politico? Questo non è certo l’ultimo atto. I palestinesi, al di là del luogo di residenza, hanno dimostrato ancora una volta la propria determinazione a non scomparire dalla mappa diplomatica e geografica. Dovremo aspettare la prossima crisi, con la sua scia di distruzione, morte e sofferenza, per capirlo?
Nel 1973, dopo il fallimento dei loro tentativi di recuperare per via diplomatica i territori persi nel 1967, Egitto e Siria lanciarono la guerra d’ottobre contro Israele. Intervistato a proposito di quella «aggressione», il ministro degli esteri francese Michel Jobert rispose: «È un atto di aggressione cercare di tornare a casa propria?» Cercare di far valere i propri diritti, è un atto di aggressione?
(1) Cfr. Hélène Aldeguer e Alain Gresh, Un chant d’amour. Israël-Palestine, une histoire française, La Découverte, Parigi, 2017.
(2) Cfr. Jean-Pierre Filiu, «Le mythe des “balles en caoutchouc” israéliennes», Un si proche Orient, 16 maggio 2021, www.lemonde.fr/blog/ filiu
(3) Ben Wedeman e Kareem Khadder, «Israel holds all the cards in Jerusalem, yet the city has never been more divided», Cnn, 12 maggio 2021, https://edition.cnn.com
(4) «Abusive Israeli Policies Constitute Crimes of Apartheid, Persecution», Human Rights Watch, 27 aprile 2021, www.hrw.org
(5) Nir Hasson, «“There’s systematic expulsion of Arab society in Israel, and we’ve reached a boiling point”», Haaretz, Tel-Aviv, 12 maggio 2021.
(6) Cfr. Ari Shavit, «Lydda, 1948», The New Yorker, 14 ottobre 2013.
(7) Cfr. Sylvain Cypel, «En Israël, la Cour suprême conforte les partisans de la colonisation», Orient XXI, 27 aprile 2015, https://orientxxi. info
(8) Cfr. in particolare il rapporto di B’Tselem su Gerusalemme, www.btselem.org/jerusalem
(9) Si legga «Il vangelo secondo Mandela», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2010.
(10) Si legga Olivier Pironet, «A Gaza, un popolo in gabbia», Le Monde diplomatique/il manifesto, settembre 2019.
(11) Aluf Benn, «This is Israel’s most failed and pointless Gaza operation ever. It must end now», Haaretz, 18 maggio 2021.
(12) Zvi Bar’el, «Looking for Gaza victory against Hamas, Israel lost the battle for Jerusalem », Haaretz, 15 maggio 2021.
(13) Si legga Akram Belkaïd, «Idillio tra i paesi del Golfo e Israele», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2020.
Alain Gresh è il Direttore del giornale online Orient XXI.
https://ilmanifesto.it/vignetta/le-monde-diplomatique-giugno-2021/
(Traduzione di Marianna De Dominicis)
MUSTAFA BARGHOUTI: PRESTO SAREMO LIBERI
(Intervista di Leena Dallasheh)
Il medico Mustafa Barghouti è il segretario generale e cofondatore dell’Iniziativa nazionale palestinese o Mubadara ( PNI ), nonché fondatore e presidente della Società Palestinese di Soccorso Medico. Come candidato alla presidenza alle elezioni palestinesi del 2005 , Barghouti ha perso contro Mahmoud Abbas in una competizione che – come tutte le elezioni dalla creazione dell’organo di autogoverno provvisorio con gli accordi di Oslo del 1993 – si è svolta in condizioni altamente antidemocratiche. Da allora, Barghouti è stato membro del Consiglio Legislativo Palestinese e ha servito come Ministro dell’Informazione nel governo di unità palestinese di breve durata nel 2007 .
Ex membro del Partito del popolo palestinese (ex Partito comunista palestinese), Barghouti è sempre stato un attivista democratico e un difensore della resistenza radicale non violenta. Una delle voci principali dell’unità politica del popolo palestinese, ha lavorato instancabilmente per decenni per riunire le “tre componenti” – i palestinesi che vivono nei territori occupati, in Israele e nella diaspora – in un unico progetto.
In una conversazione con Leena Dallasheh per Jacobin , Barghouti insiste sul fatto che le potenti proteste viste nelle ultime settimane nella Palestina storica sono solo l’inizio di un crescente movimento di resistenza. Discute dell’unità palestinese e l’obiettivo finale di creare un progetto nazionale palestinese, così come le strategie internazionali per promuovere la causa della liberazione palestinese.
Venerdì 21 maggio alle 2 di notte è stato dichiarato un cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Mi chiedevo se potessi darci una panoramica della situazione sul campo in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza da allora.
Tutte le azioni militari si sono completamente fermate, ma l’intifada continua – la rivolta popolare in Palestina e le sue proteste per lo più pacifiche e non violente continuano. Abbiamo avuto un gran numero di proteste due volte oggi, venerdì. La prima ha avuto luogo alle 2 del mattino quando è stata emessa la dichiarazione di cessate il fuoco: le persone sono semplicemente scese in strada senza preavviso. C’è stata una grande manifestazione a Gaza, poi grandi proteste a Hebron, Nablus, Ramallah, Betlemme e davvero ovunque. Era una celebrazione di quella che la gente considerava una vittoria.
A mezzogiorno di venerdì, enormi proteste si sono scontrate con l’IDF in molti luoghi, specialmente a Ramallah, Nablus, Jenin e Hebron. E l’esercito ha attaccato i manifestanti con granate stordenti e lacrimogeni, ma anche con proiettili ricoperti di gomma metallica. Anche a Gerusalemme i soldati hanno attaccato i fedeli con granate assordanti e lacrimogeni, ma non è durato a lungo.
In effetti, nonostante il cessate il fuoco, quello che abbiamo è un’atmosfera continua di rivolta. In un certo senso, il messaggio è chiaro: l’azione militare può essersi fermata, ma la lotta di liberazione continua. La lotta per porre fine al sistema di occupazione, pulizia etnica e apartheid continua.
Sheikh Jarrah intanto resta chiuso dall’esercito, che non permette a nessuno di entrare nel quartiere, né giornalisti né tantomeno medici. Durante questo periodo, i coloni sono liberi di andare e venire e fare quello che vogliono.
Alcuni hanno ipotizzato che gli scontri iniziati a Gerusalemme e l’escalation di proteste che ne è seguita siano l’inizio di una terza intifada .
In realtà penso che siamo già in un’intifada. Ma ogni Intifada è molto diversa nelle sue caratteristiche. Le proteste di oggi sono una vera rivolta. Quello che vedo è un livello molto chiaro di impegno nei confronti dei tre principi fondamentali che hanno caratterizzato la Prima Intifada: auto-organizzazione, autosufficienza e contestazione israeliana sull’occupazione e sul sistema di discriminazione.
Quindi pensiamo che questa rivolta continuerà, ma pensiamo anche che questa volta l’obiettivo sia un po ‘diverso da quello della prima e della seconda Intifada . La combinazione è diversa. Ci sono due caratteristiche principali: in primo luogo, c’è un livello di unità sorprendente e senza precedenti – forse [per la prima volta] dal 1936 – tra tutte le componenti del popolo palestinese, sia che vivano nella regione del 1948 (conosciuta come Israele), se vivono nei territori palestinesi occupati (Cisgiordania, Gerusalemme e Gaza), o nella diaspora
Ma qualcos’altro – e molto importante – è che la rivolta ruota attorno a un obiettivo comune. E questo è il mio secondo punto: l’obiettivo non è come prima, non è semplicemente porre fine all’occupazione della Cisgiordania e di Gaza, compresa Gerusalemme est. È più di questo. Si tratta anche di porre fine al sistema coloniale e al sistema di apartheid che Israele ha creato .
Quello che stiamo vedendo qui è una lotta unificata. E i giovani in particolare sono molto chiari su questo. Questa è una terza caratteristica: il livello senza precedenti di giovani che si uniscono a noi. Molti giovani che non hanno mai partecipato a nulla si stanno unendo a noi, e con grande entusiasmo, e penso che sia quello che vedremo nei prossimi giorni.
Questo è ciò che vogliamo: vogliamo che questa rivolta continui fino a quando non saremo liberi, e prenderà forme diverse. La lotta è nonviolenta, e penso che quello che è successo è che i palestinesi hanno combinato con successo la resistenza nonviolenta e il loro bisogno di difendersi con un’azione militare, quando sono stati attaccati dagli aggressori israeliani.
Come lei sottolinea, molti sostengono che la cosiddetta unità palestinese “dal fiume al mare” sta davvero iniziando a realizzarsi in questi giorni. Puoi spiegare cosa ha portato a questa unità?
L’oppressione israeliana è ciò che ci univa. Human Rights Watch ha descritto molto bene questa oppressione nel suo rapporto ; è stata descritta anche da B’Tselem , l’organizzazione israeliana per i diritti umani. Ma anche prima, il primo riconoscimento di questa situazione è arrivato forse due anni fa, in un rapporto scritto da alcuni dei più grandi leader mondiali nel campo dei diritti umani. Quello che hanno dimostrato è che i palestinesi in generale – quelli nei territori occupati e quelli nelle aree di 48, così come quelli che vivono nella diaspora – sono soggetti allo stesso sistema di apartheid.
Perché l’unità palestinese sta accadendo ora?
La lotta è maturata e diversi fattori hanno giocato un ruolo. A volte le persone impiegano molto tempo per rendersi conto del tipo di problemi che stanno affrontando. Nel caso della nostra gente nelle regioni del 1948, penso che abbiano capito che il movimento sionista non permetterà mai l’uguaglianza. E che se il sistema rimane così com’è, saranno ancora cittadini di quarta o quinta classe, soprattutto dopo che la legge razzista sarà approvata alla Knesset, la legge dello stato nazionale. Questa legge dice che Eretz Israel – questo è ciò che chiamano Palestina storica – è esclusivamente per l’autodeterminazione del popolo ebraico. Penso che il popolo palestinese all’interno di Israele capisca che l’uguaglianza accadrà solo se rovesceremo il sistema nel suo insieme. E lo stesso vale per la Cisgiordania. Sebbene in Cisgiordania siamo sotto occupazione militare, soffriamo anche dello stesso sistema di apartheid, se non di peggio.
Secondo me, le persone sono arrivate a capire esattamente cosa stava succedendo loro, e poi hanno deciso di agire. Ovviamente, come al solito, la causa scatenante è stata Gerusalemme e la moschea di Al-Aqsa.
Le ultime tornate di escalation, in particolare in Cisgiordania, si sono concentrate intorno a Gerusalemme e, infatti, Gerusalemme è stata usata dall’Autorità Palestinese come una sorta di scusa per rinviare le elezioni presidenziali e parlamentari del mese scorso .
La scusa usata dall’Autorità Palestinese [che i residenti arabi di Gerusalemme Est non potevano partecipare] non era giusta. L’Autorità Palestinese aveva paura dei risultati elettorali. Noi [l’Iniziativa Nazionale Palestinese] non avremmo accettato le elezioni senza Gerusalemme – impossibile, ovviamente – ma siamo invece arrivati a credere che possiamo ancora tenere elezioni nonostante le obiezioni israeliane e nonostante le restrizioni israeliane. . Volevamo trasformare le elezioni a Gerusalemme in un’opportunità per atti di resistenza non violenta. E credo ancora che sarebbe stata la migliore opportunità per mostrare al mondo come le persone stanno cercando di votare alle urne, e l’IDF sta cercando di fermarli.
Sfortunatamente, l’Autorità ha usato Gerusalemme come scusa e ha cercato di presentare queste persone che chiedevano elezioni come se fossero contrarie al loro svolgimento a Gerusalemme. Ma non è vero: lo volevamo tutti a Gerusalemme. E proprio di questo problema abbiamo discusso al Cairo: abbiamo deciso insieme che, se Israele impedirà le elezioni, procederemo comunque facendone un atto di resistenza nonviolenta.
A proposito, ciò che l’Autorità ha richiesto all’epoca era la stessa procedura inclusa nel processo di Oslo [limitazione degli elettori palestinesi idonei a Gerusalemme est]. Questa procedura insulta noi, il popolo palestinese, e non avremmo dovuto accettarla. Non dobbiamo continuare ad accettarlo: vogliamo qualcosa di più. Perché limitare il voto a sole 6.500 persone, votando negli uffici postali come se votassero per un altro paese e senza consentire la presenza della loro commissione elettorale centrale? Nel 2005, quando mi sono candidato alla presidenza, Israele ha negato a chiunque il diritto di fare campagna elettorale. Quindi, quando l’ho fatto, sono stato arrestato quattro volte in un mese. Ogni volta che andavo a Gerusalemme, venivo arrestato.
Al di là delle elezioni, Gerusalemme sembra diventare il luogo centrale per i palestinesi e per Israele. Certo, Gerusalemme è sempre stata importante, ma hai una spiegazione sul perché sembra essere stata l’epicentro di ogni recente scontro?
Questa non è una novità. È così dai tempi dei crociati. Il punto di svolta nella lotta per liberare la Palestina dai crociati fu Gerusalemme. Quindi Gerusalemme ha sempre avuto questa importanza. È la culla di tre religioni, e ci sono tre importanti luoghi religiosi.
Gli ebrei hanno pieno accesso a Gerusalemme, non importa dove vivono nel mondo, a differenza dei musulmani e dei cristiani palestinesi, anche quelli che vivono in Cisgiordania e, naturalmente, quelli che vivono a Gaza. Questa restrizione alla libertà di culto era quindi un fattore importante.
Ma l’attacco specifico ai fedeli di Gerusalemme è stato, ovviamente, un fattore motivante. E l’altro problema sono i coloni a Gerusalemme est. I coloni israeliani hanno continuato a invadere la moschea di Al-Aqsa e a promuovere l’idea di giudaizzare gran parte della regione di Aqsa. Quindi, ovviamente, è molto provocatorio. È un misto tra una provocazione religiosa e una provocazione prevalentemente nazionale.
Il precedente round di conflitto all’inizio del Ramadan era in realtà a Bāb al-‘Āmūd – Porta di Damasco . E prima delle espulsioni di Sheikh Jarrah, c’era un conflitto simile a Silwan , sempre a Gerusalemme. Quindi sembra esserci un aumento delle incursioni dei coloni a Gerusalemme est.
A Silwan hanno in programma di sfrattare da 120 case. A Sheikh Jarrah vogliono espellere 500 persone. Queste sono persone che sono state oggetto di pulizia etnica nel 1948; ora vogliono ripetere la pulizia etnica e sostituire le persone che vivono lì con coloni legali che non hanno alcun rapporto e nessuna proprietà del luogo.
Bāb al-‘Āmūd è stato un altro esempio di uno spazio che gli israeliani hanno cercato di conquistare. Era qui che le persone respiravano e si rilassavano durante il Ramadan. Quello che sta succedendo a Gerusalemme è che le persone vengono attaccate nei loro luoghi religiosi e nelle loro case.
Gerusalemme è anche politicamente molto importante: è la capitale della Palestina. Ricorda che gli ultimi negoziati di Camp David tra [Yasser] Arafat e [Ehud] Barak sono falliti proprio a causa di Gerusalemme. E questo ha portato alla seconda Intifada.
Vorrei che sviluppassi la vostra visione di un rinnovato progetto politico nazionale palestinese. Come vedi questo svolgersi?
Vedo questo progetto politico composto da quattro principi. Primo, la fine completa e assoluta dell’occupazione, inclusa l’occupazione di Gerusalemme est. In secondo luogo, il diritto al ritorno garantito a tutti i profughi palestinesi che sono stati costretti a vivere fuori dal loro paese. Terzo, porre fine al sistema del progetto di insediamento coloniale dei coloni e, quarto, porre fine al sistema dell’apartheid in tutte le parti della Palestina storica.
Oltre a tutti questi fattori, se metti fine al sistema razzista dell’apartheid, i rifugiati torneranno. Non ci saranno discriminazioni nei loro confronti. Queste persone avranno il diritto di tornare, così come permettono agli ebrei di venire in Palestina e ottenere la residenza e la cittadinanza israeliana all’aeroporto, indipendentemente da dove vivono e da chi sono. Nel frattempo, ai palestinesi, che vivono lì da migliaia di anni, viene negato il diritto di esserci. Anche coloro che vivono ancora a Gerusalemme devono dimostrare di aver diritto a questa residenza temporanea.
Immagina: occupano la tua città, Gerusalemme Est, e rendono tutti residenti temporanei, mentre i coloni israeliani diventano residenti permanenti. Non credo che ci sia mai stato un sistema di apartheid come questo; è molto peggio di quello che hanno costruito in Sud Africa.
Come vedi la strada davanti a te?
Dobbiamo stabilire politicamente l’unità palestinese. Abbiamo bisogno di una leadership palestinese unificata per la resistenza popolare nonviolenta, e abbiamo bisogno di una nuova strategia di progetto nazionale che sia un’alternativa a ciò che è fallito – specialmente il processo di Oslo e l’accordo di Oslo relativo, e il singolare ricorso ai negoziati senza alcuna lotta per cambiare l’equilibrio dei poteri.
Oltre all’enfasi sulla strategia interna palestinese, c’è anche una componente internazionale?
Certo. La strategia che proponiamo da cinque anni – e credo che questa strategia sia ora adottata in tutto o in parte da altri gruppi – si compone di sei punti principali. Primo, la resistenza popolare nonviolenta. In secondo luogo, boicottaggio, disinvestimento, sanzioni, a livello internazionale e locale. Terzo, mantenere la fermezza del popolo [ sumud in arabo: resta nella terra e resisti], perché questo è l’elemento più importante per mantenere il popolo palestinese sulla terra. Quarto, l’unità e la creazione di una leadership di unità nazionale. Quinto, l’integrazione e l’unità della lotta delle tre componenti [i palestinesi nei territori occupati, nella diaspora e in Israele].
E, infine, l’ultimo punto è lavorare con gli ebrei progressisti in tutto il mondo. Vogliamo lavorare con coloro che sono contro l’apartheid e l’occupazione israeliani, coloro che vedono ciò che Israele sta facendo e vedono che ciò danneggia davvero la loro reputazione di popolo ebraico. Ciò che Israele sta facendo è in contrasto con i valori morali in cui credono gli ebrei. Ed è per questo che penso che questo sesto elemento sia importante: possiamo trovare un modo per rendere la liberazione palestinese una lotta comune.
https://palestinaculturaliberta.org/2021/06/01/mustafa-barghouti-presto-saremo-liberi/
Soldati israeliani fotografati mentre aiutano a costruire un avamposto illegale in Cisgiordania – Hagar Shezaf
Le immagini ottenute da Haaretz mostrano le truppe israeliane che prestano assistenza a Evyatar, un avamposto illegale destinato all’evacuazione. Secondo l’esercito, i soldati hanno agito senza autorizzazione e la questione sarà indagata
Le foto ottenute da Haaretz mostrano soldati israeliani che prendono parte alla costruzione di un avamposto di coloni non autorizzato in Cisgiordania che il ministro della Difesa Benny Gantz ha ordinato di smantellare.
Le foto, che si pensa siano state scattate circa due settimane fa, mostrano truppe che trasportano strutture temporanee prefabbricate a Evyatar. I soldati, che nelle scorse settimane stavano sorvegliando regolarmente l’avamposto, sono stati identificati.
I comandi dell’esercito hanno affermato che i soldati non avevano ricevuto l’approvazione da un comandante e che, se necessario, avrebbero avviato un’indagine e adottato provvedimenti disciplinari nei loro confronti.
Evyatar è sotto un ordine di verifica topografica che dovrebbe portare all’evacuazione dell’avamposto nel giro di pochi giorni. L’ordinanza vieta inoltre di portare materiali da costruzione nell’avamposto o di costruire al suo interno. Nelle ultime settimane, un certo numero di politici ha visitato l’avamposto per mostrare il proprio sostegno.
Giovedì, il presidente del partito Sionismo Religioso Bezalel Smotrich ha preso parte a una cerimonia di inaugurazione del rotolo della Torah a Evyatar, mentre i legislatori del Likud Miki Zohar e Shlomo Karhi hanno partecipato a una manifestazione il mese scorso. Anche il parlamentare di Sionismo Religioso Simcha Rothman ha visitato Evyatar e il leader dei coloni Yossi Dagan vi ha trasferito temporaneamente il suo ufficio questa settimana.
L’esercito ha detto venerdì che le truppe dovevano sorvegliare l’avamposto per proteggere i suoi residenti dai violenti scontri verificatisi con i Palestinesi e che si sarebbe indagato sul coinvolgimento dei soldati nella costruzione dell’avamposto.
I leader dei coloni sostengono che la terra su cui è stato progettato l’avamposto non è stata ancora classificata dall’amministrazione civile come proprietà privata o come proprietà dello stato. L’Amministrazione Civile ha detto ad Haaretz che la questione era ancora in fase di esame.
Giovedì, Gantz ha criticato aspramente la richiesta di Benjamin Netanyahu di ritardare l’evacuazione di Evyatar, affermando che il primo ministro non ha autorità in merito agli ordini di evacuazione.
In risposta alla lettera del primo ministro di mercoledì in cui si affermava che l’ordine di evacuazione dell’avamposto di Evyatar era improprio, l’ufficio di Gantz ha rilasciato una dichiarazione in cui diceva: “Non c’è alcuna disposizione di legge in cui si affermi che un ordine di evacuazione nell’area della Giudea e Samaria richiede l’approvazione del premier».
L’ avamposto, costruito sul sito di una base dell’esercito in un terreno di proprietà dei villaggi di Beita, Qabalan e Yatma, è stato costruito in risposta all’attentato avvenuto in quel punto all’inizio di maggio, in cui uno studente di yeshiva [scuola ebraica], Yehuda Guetta, è stato ucciso.
L’avamposto prende il nome da Evyatar Borovsky, un residente dell’insediamento di Yitzhar che è stato assassinato in un attacco terroristico nel maggio 2013. Dopo il suo omicidio ci sono stati tre tentativi di costruire un avamposto nel sito – nel 2013, 2016 e 2018 – ma i caravan e altre strutture erette sul posto sono state rapidamente evacuate.
Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina
Due ex ambasciatori israeliani in Sudafrica si uniscono allo tsunami delle accuse di “apartheid” contro Israele – Philip Weiss
“È l’ora che il mondo riconosca che ciò che abbiamo visto in Sudafrica decenni fa sta accadendo in Palestina… è l’ora che il mondo intraprenda un’azione diplomatica decisiva… verso la costruzione di un futuro di uguaglianza”.
La notizia di oggi è che due ex ambasciatori israeliani in Sudafrica hanno accusato il loro Paese di praticare l’apartheid creando bantustan per i Palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. “È apartheid, dicono gli ambasciatori israeliani in Sudafrica”, scrivono Ilan Baruch e Alon Liel su Groundup.
Questa è un’altra accusa di apartheid mossa da persone serie in quello che Al Haq ha definito il “riconoscimento crescente” e “la prevalente conclusione legale che vi sia apartheid sul popolo palestinese nel suo insieme”.
C’è ovviamente una forte resistenza nel discorso ufficiale americano. Prima di arrivare all’argomento di Baruch e Liel, vorrei notare che negli ultimi giorni Bernie Sanders ha respinto l’accusa di apartheid dicendo che i progressisti dovrebbero “abbassare i toni della retorica” e David Makovsky ha detto che i critici chiamano Israele “con ogni sorta di cattivi nomi”. E la National Public Radio ha dato una tribuna a uno studioso che ha definito l’accusa “offensiva” per gli Ebrei.
Bene, ecco altri due Ebrei che fanno l’accusa di apartheid.
Baruch e Liel affermano di aver “imparato in prima persona la realtà dell’apartheid e gli orrori che ha inflitto”. E mettono in relazione il Sud Africa con le condizioni attuali in Cisgiordania, dove i Palestinesi sono compressi in territori sempre più piccoli.
Questa realtà ci ricorda una storia che l’ex ambasciatore Avi Primor ha descritto nella sua autobiografia a proposito di un viaggio in Sudafrica nei primi anni ’80, viaggio che fece con l’allora ministro della Difesa Ariel Sharon. Durante la visita, Sharon espresse grande interesse per il progetto bantustan del Sud Africa. Anche uno sguardo superficiale alla mappa della Cisgiordania lascia pochi dubbi su dove Sharon abbia ricevuto la sua ispirazione. La Cisgiordania oggi è composta da 165 “enclave”, cioè comunità palestinesi circondate dal territorio occupato dall’impresa di insediamento. Nel 2005, con la rimozione degli insediamenti da Gaza e l’inizio dell’assedio, Gaza è diventata semplicemente un’altra enclave – un blocco di territorio senza autonomia, circondato in gran parte da Israele e quindi anche effettivamente controllato da Israele.
I bantustan del Sudafrica sotto il regime di apartheid e la mappa dei territori palestinesi occupati oggi si basano sulla stessa idea di concentrare la popolazione “indesiderabile” in un’area il più piccola possibile, in una serie di enclave non contigue. Scacciando gradualmente queste popolazioni dalla loro terra e concentrandole in sacche dense e frammentate, sia il Sudafrica di allora che Israele di oggi hanno lavorato per contrastare l’autonomia politica e la vera democrazia.
Gli ex ambasciatori affermano ciò che Human Rights Watch ha affermato quando ha pubblicato il suo rapporto sull’apartheid ad aprile. Israele non ha alcuna intenzione di lasciare la Cisgiordania e Gerusalemme Est, dopo 54 anni di occupazione.
L’occupazione non è temporanea, e non c’è la volontà politica nel governo israeliano di porvi fine… È tempo che il mondo riconosca che ciò che abbiamo visto in Sudafrica decenni fa sta accadendo anche nei territori palestinesi occupati. E proprio come il mondo si è unito alla lotta contro l’apartheid in Sudafrica, è tempo che il mondo intraprenda un’azione diplomatica decisiva anche nel nostro caso e lavori per costruire un futuro di uguaglianza, dignità e sicurezza sia per i Palestinesi che per gli Israeliani.
Ecco come Human Rights Watch si è espresso nel rapporto scritto da Omar Shakir:
Dopo 54 anni, gli stati del mondo dovrebbero smettere di valutare la situazione attraverso il prisma di ciò che potrebbe accadere se un giorno il languente processo di pace dovesse essere rianimato, ma dovrebbero invece concentrarsi sulla realtà ormai di vecchia data sul terreno, che non mostra segni di cedimento.
Il Carnegie Endowment ha avanzato un’argomentazione simile quando ha chiesto ai governi di iniziare a usare i loro poteri –cioè le sanzioni– per spingere Israele verso la parità di diritti. Un co-autore di quello studio, Zaha Hassan, ha usato la definizione di “apartheid”, unendosi a una lunga lista di voci morali, da Jimmy Carter a Marc Lamont Hill, a Charney Bromberg, a Stephen Robert, a Black Lives Matter, a Rashida Tlaib.
Dieci anni fa un ex premier israeliano avvertì che il paese avrebbe dovuto affrontare uno “tsunami diplomatico” a causa della sua occupazione. “La delegittimazione di Israele è all’orizzonte”. Ora quello tsunami sembra finalmente arrivare. Anche se ci potrebbe volere ancora qualche anno prima che raggiunga il Campidoglio degli Stati Uniti.
Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina
La censura politica nelle riviste accademiche crea un nuovo pericoloso precedente – Rania Muhareb, Bram Wispelwey, Mads Gilbert
The BMJ (British Medical Journal)
Nel marzo 2020, The Lancet ha pubblicato una lettera che avevamo scritto per avvertire la comunità medica dei pericoli di un’epidemia di covid-19 nella Striscia di Gaza. Avvertivamo che la pandemia aveva “il potenziale di devastare una delle popolazioni più vulnerabili del mondo”. [1] Da allora, questa paura è diventata realtà e i Palestinesi della Striscia di Gaza hanno subito un quinto assalto militare israeliano su larga scala che ha ucciso 256 Palestinesi, tra cui 66 bambini, ferito quasi 2.000 persone e causato circa 107.000 sfollati. [2,3]
Come avevamo evidenziato nella nostra lettera, decenni di violenza strutturale contro i Palestinesi hanno portato il sistema sanitario di Gaza sull’orlo del collasso. [4] Si tratta di un’area densamente popolata: la maggior parte dei Palestinesi nella Striscia di Gaza sono rifugiati a cui, dal 1948, è stato negato il diritto al ritorno. [5] Nel frattempo, la chiusura illegale e il blocco di Gaza da parte di Israele a partire dal 2007 –cosa che corrisponde a una punizione collettiva– hanno fatto sì che le forniture per i test del covid-19, il trattamento e la vaccinazione sono stati gravemente limitati. [6,7]
Sebbene il razzismo strutturale sia stato sempre più riconosciuto in tutto il mondo come una aggravante degli effetti del covid-19, la pubblicazione della nostra lettera ha provocato una minaccia di boicottaggio della rivista, come ci ha informato Richard Horton, il caporedattore di The Lancet. [8] Alcuni medici degli Stati Uniti e di altri paesi avevano chiesto la rimozione della nostra lettera.
In precedenza, ci ha informato Horton, c’era stata una simile campagna di “sanzioni” contro The Lancet per aver pubblicato nel 2014 una lettera in cui si deplorava la morbilità e la mortalità derivanti dalla violenza dello stato israeliano contro i Palestinesi assediati di Gaza. [9-10] Secondo Horton, il tormentone che ne seguì ebbe un costo personale “traumatico” sui dipendenti di The Lancet. Successivamente, The Lancet hapubblicato un’edizione speciale sull’assistenza sanitaria israeliana che, a nostro avviso, non tiene conto delle forze storiche e politiche che incidono sullo stato di salute dei Palestinese. [11,12] Quella pubblicazione di The Lancet sembrava essere un avvertimento per chiunque avesse osato affrontare le conseguenze delle azioni di Israele sulla salute dei Palestinesi, azioni che sono ampiamente riconosciute come crimini di guerra e crimini contro l’umanità. [13]
The Lancet, ci dissero in seguito, non poteva sostenere un’altra campagna di questo tipo e, nel giro di tre giorni, la nostra lettera fu rimossa dal sito web del giornale. Fino ad oggi, la ritrattazione formale degli articoli accademici è stata riservata ai lavori contenenti “errori pervasivi, ricerca non riproducibile, comportamento scientifico scorretto o pubblicazione duplicata”. [14] Nulla di tutto ciò si applica alla nostra lettera. A nostro avviso, la rimozione editoriale della nostra lettera da parte di The Lancet costituisce un nuovo pericoloso precedente, in cui un articolo già pubblicato, ritenuto poi politicamente sgradevole da forze extraeditoriali, finisce in una “terra di nessuno” accademica: non formalmente ritirato, ma non recuperabile dal giornale stesso.
Consentendo a potenti interessi politici esterni di prevalere sul giudizio e sulle politiche editoriali, la rimozione di articoli sottoposti a revisione prima di essere pubblicati infligge un duro colpo alla libertà accademica. Purtroppo, stiamo parlando solo della punta elitaria del grande problema della libertà accademica. Che dire di tutti i Palestinesi che, a causa dell’occupazione in corso da parte di Israele, non possono nemmeno accedere alle risorse necessarie per impegnarsi nel libero scambio di idee o condividere la loro realtà vissuta? [15]
La nostra ultima esperienza di censura è in contrasto con l’impegno di lunga data di The Lancet per il progresso della sanità palestinese, in particolare grazie alla leadership di Richard Horton. [16] Nel 2009, The Lancet hapubblicato una serie di rapporti sulla sanità nei Territori Palestinesi Occupati. In quella sede, Horton ha attirato l’attenzione su “La gabbia simile a una prigione costruita intorno a Gaza, le umiliazioni quotidiane per donne, bambini e lavoratori che passano attraverso i posti di blocco, la paralisi della Cisgiordania causata dall’occupazione israeliana, [e] gli ostacoli imposti alle comunità che cercano di costruire scuole, cliniche e case per i loro figli”. [17] Questa serie di Lancet è stata seguita dall’istituzione della “Lancet Palestine Health Alliance” (LPHA), che ha continuato a organizzare preziose conferenze scientifiche annuali nella regione. LPHA ha pubblicato centinaia di abstract di ricercatori palestinesi e internazionali e ha fornito una “piattaforma scientificamente valida per la difesa, la conoscenza e l’azione riguardo alla sanità” in Palestina. [18]
Nel frattempo, la coorte di medici che tentano di minacciare e censurare attivamente qualsiasi scritto critico sulla sanità in Palestina godono oggi di rispetto nei loro settori. Provengono principalmente dalle società che hanno una storia di colonialismo di insediamento, tra cui Israele, Stati Uniti, Canada e Australia, a cui vengono regolarmente concesse piattaforme su riviste accademiche per “bilanciare” la verità sulle politiche oppressive di Israele. [19,20] La logica è che ci sono “due lati” in ogni storia che riguardi la sanità palestinese, e quindi si deve dare uguale peso ad entrambi. Ciò che questo approccio ignora, tuttavia, è il profondo differenziale di potere che inevitabilmente sostiene il mito dell’insediamento coloniale, mentre nasconde le esperienze dei colonizzati. Ma con i curricula delle scuole di medicina che includono sempre più la medicina sociale e l’analisi delle strutture, questo presunto “equilibrio” non resiste più. [21] L’”epistemicidio” [uccisione della conoscenza] in corso della storia palestinese e delle realtà attuali ha un rimedio urgente: dobbiamo sfidare e correggere attivamente la narrativa dominante promuovendo narrazioni subalterne e decoloniali. [22] Espandere il discorso nelle riviste mediche accademiche sul razzismo strutturale come causa principale delle disuguaglianze di salute è un passo nella giusta direzione necessario da tempo. [23]
Ma Lancet non ha preso questa strada. A distanza di ben sei mesi dalla censura fatta a noi, Lancet ha pubblicato una lettera in risposta alla nostra corrispondenza cancellata. Scritta da Zion Hagay, presidente dell’Associazione medica israeliana –un’istituzione la cui complicità nella tortura è ben documentata– la risposta al nostro pezzo non è riuscita a contestare nessuno dei nostri argomenti al di là del riferimento a un commento delle Nazioni Unite ora ripetutamente criticato sullo stretto coordinamento tra occupanti e occupati. [24-26] Il suo unico altro riferimento era alla nostra lettera scomparsa, con un link che però non porta da nessuna parte. Come abbiamo scritto in una risposta ad Hagay: “Anche se la nostra corrispondenza non è più visibile sul sito web di The Lancet… la disperazione che la sua scomparsa forzata rivela e la propaganda facilmente smentita contenuta nella risposta di Hagay, suggeriscono che sempre meno professionisti della salute saranno ingannati in futuro.” La risposta dei nostri autori è stata respinta da The Lancet.
Eppure, la storia non è finita qui. Abbiamo inviato un commento a un’altra rivista Lancet il cui caporedattore ci ha informato che il gruppo Lancet è stato recentemente oggetto di “boicottaggi molto dannosi” durante la pubblicazione di contenuti critici delle politiche e delle pratiche israeliane che non fossero accompagnati da un “contrappunto dal punto di vista israeliano”. Poiché un tentativo di sollecitare tale contrappunto si era rivelato infruttuoso, la pubblicazione del nostro commento non poteva andare avanti. Riteniamo che le lezioni della nostra esperienza siano chiare: la narrativa palestinese può essere espressa solo quando è contemporaneamente sconfessata, mentre la narrativa israeliana – in questo caso la risposta di Hagay – può reggere da sola. Questo notevole doppio standard conferma che le cosiddette politiche di “equilibrio” proteggono tutti tranne gli oppressi.
Holmes et al. hanno osservato che “i medici sono in una posizione particolare per rispondere alle strutture sociali, politiche ed economiche che influiscono sulla salute dei nostri pazienti”. [27] Tuttavia, questa nuova forma di censura tramanda diagnosi errate delle cause profonde della cattiva sanità palestinese, limitando la capacità dei medici di rispondere e aiutare efficacemente. A nostro avviso, imporre la censura sulle riviste accademiche come diretta conseguenza di minacce esterne è un percorso pericoloso e del tutto inaccettabile. Un compito urgente per la comunità accademica è sviluppare una posizione forte che possa proteggere le riviste, i loro editori e il personale, respingendo i medici e gli scienziati che fanno pressione sui giornali per imporre la censura.
Nonostante il continuo silenzio e una passione per l’illusorio “equilibrio” nelle pubblicazioni sulla Palestina, i professionisti della salute si stanno mobilitando sempre più contro la violenza strutturale che colpisce il popolo palestinese nel suo insieme. [28] Siamo incoraggiati dagli appelli per la decolonizzazione degli studi sulla Palestina, dalla solidarietà basata sull’evidenza e dalla resistenza accademica al colonialismo d’insediamento e all’apartheid. [29] Poiché la pandemia continua a mettere in luce disuguaglianze sanitarie strutturali profondamente radicate, con conseguenze umane devastanti, è imperativo non solo affrontare le violazioni alla libertà accademica, ma sfidare le dinamiche del potere coloniale ancora prevalenti nella medicina accademica.
Rania Muhareb è PhD Scholar presso l’Irish Centre for Human Rights presso la National University of Ireland, Galway, consulente dell’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq e membro politico di Al-Shabaka – The Palestine Policy Network.
Bram Wispelwey è cofondatore di Health for Palestine e direttore medico di 1for3. Insegna al Brigham and Women’s Hospital e alla Harvard Medical School.
Mads Gilbert è uno specialista in anestesiologia, consulente senior presso l’Ospedale universitario della Norvegia Settentrionale e professore emerito presso l’Università Artica della Norvegia a Tromsø. È autore dei libri Eyes in Gaza (2009) e Night in Gaza (2014). Dal 1981 ha lavorato con la medicina solidale in Libano e nella Palestina occupata e ha co-fondato il Norwegian Aid Committee (NORWAC).
Conflitti di interesse: nessuno dichiarato.
Riferimenti :…
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Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina
Perché uno Stato per due popoli – Vera Pegna
Ai palestinesi è sempre più chiaro che è preferibile battersi per i propri diritti all’interno di un unico Stato invece che accettare la resa incondizionata a Israele insita nella soluzione due popoli due stati. Fra gli israeliani la situazione è più complessa
Attualmente circolano due proposte di soluzione alla cosiddetta questione israelo-palestinese. La prima, quella dei due popoli due Stati sostenuta dall’intera diplomazia internazionale, attribuisce ai palestinesi non uno Stato sovrano bensì un territorio di circa il 20% della Palestina, collegato a Gaza con un tunnel e inframmezzato dagli insediamenti di 700.000 coloni israeliani comunicanti tra loro con dei cavalcavia di proprietà israeliana; per giunta, questo non-Stato sarebbe totalmente dipendente da Israele per la fornitura di energia elettrica, telefonia mobile, aeroporto e altri servizi essenziali; né avrebbe come capitale Gerusalemme est, bensì un sobborgo di questa chiamato Abu Dis.
Avete capito, palestinesi? È prendere o lasciare.
Della seconda proposta, quella di un unico Stato per i due popoli, la diplomazia internazionale non parla, né tantomeno ne parlano i media. È radicalmente diversa dalla prima, in quanto parte dalla constatazione della realtà sul terreno, ovvero dal fatto che nel territorio della Palestina storica esiste un solo Stato, Israele – senza confini stabiliti – con a fianco e senza soluzione di continuità la Cisgiordania, cui si aggiunge Gaza; l’intero territorio è governato da un’unica autorità, il governo israeliano che, a suo piacimento, ne annette pezzi, erge muri e impone regimi politici diversi alle popolazioni ivi residenti: pieni diritti di cittadinanza agli ebrei, diritti minori ai palestinesi d’Israele (chiamati arabi d’Israele, cristiani, drusi, beduini sì da confondere la loro comune identità nazionale), apartheid per i palestinesi della Cisgiordania e ghettizzazione di Gaza.
La differenza fra le due proposte salta agli occhi: quella dei due popoli due Stati garantisce a Israele, in cambio della sua funzione di difesa degli interessi occidentali nel Medio Oriente, il compimento del progetto sionista di uno stato ebraico in Palestina, con il minore numero possibile di palestinesi (si fa di tutto per farli uscire di scena ma loro non mollano); con ogni evidenza è una proposta che parte, non dall’intento di trovare una soluzione duratura di convivenza pacifica fra i due popoli, bensì da una visione verticistica e eurocentrica della difesa degli equilibri geopolitici della regione.
La seconda proposta, quella di uno Stato due popoli, è tabù in quanto volta unicamente a una prospettiva pacificatrice; ma anche in quanto si pone in controtendenza rispetto alla visione geostrategica delle grandi potenze e dei loro alleati: quella di un’Israele forte ed egemone in un Medio oriente di ex stati sovrani, anomici e in disgregazione (Afghanistan, Irak, Siria, Yemen, Libia).
Non sopravvaluto il crescente, anche se ancora limitato, gradimento che tale proposta suscita nei popoli interessati. Ai palestinesi è sempre più chiaro che è preferibile battersi per i propri diritti all’interno di un unico Stato invece che accettare la resa incondizionata a Israele insita nella soluzione due popoli due stati. Fra gli israeliani la situazione è più complessa. Oltre il venti percento della popolazione è composta da palestinesi, oltre il cinquanta percento è di provenienza araba e sefardita (fra cui i miei avi) e solo il venti percento è di origine europea; però è quest’ultimo gruppo che costituisce l’establishment e, con l’arroganza tipica dei colonialisti europei verso i popoli oppressi, ha sempre disprezzato tutto ciò che è arabo e sostenuto l’equazione fra palestinese e terrorista; come pure i media israeliani, la cui libertà è valutata all’ottantaseiesimo posto dal World Press Freedom Index.
Tuttavia, se è vero che l’idea di convivere con i palestinesi non è gradita alla grande maggioranza della popolazione, è anche vero che si moltiplicano le imprese comuni e i matrimoni misti e che nascono gruppi di cittadini che militano a favore dello stato comune ai due popoli.
Non sottovaluto le obiezioni, gli ostacoli, i ricatti e magari anche il peggio di cui sono capaci i potenti alla sola idea di perdere le loro posizioni di forza, ma nulla inficia la possibilità di prendere atto della realtà e dichiarare l’esistenza di uno Stato comune a entrambi i popoli; non domani, s’intende, ma in prospettiva, perché appunto di prospettiva si tratta, cioè di un processo politico lento, volto a svelenire il clima di odio diffuso e porre le basi di una convivenza pacifica. Non un sogno, ma un futuro possibile: a patto che lo si voglia.
Perché non celebro la legge che vieta il commercio e l’uso delle pellicce in Israele – Grazia Parolari
La recentissima approvazione in Israele della legge che vieta il commercio e l’utilizzo di pellicce animali potrebbe apparentemente non essere accolta che positivamente, soprattutto considerando che anche in Italia ci si sta battendo da anni per raggiungere un simile risultato. A seguito di tale impegno per esempio, grandi marchi di moda come Versace e Armani, e prossimamente Valentino, non utilizzano e non vendono più pellicce animali, così come, alla luce dei rischi di zoonosi evidenziati dal Covid 19 e dalle vicende riguardanti gli allevamenti di visoni, si sta ripetutamente chiedendo al Ministero della Sanità la chiusura definitiva di tali allevamenti.
Tuttavia la notizia, per quanto possa sembrare entusiasmante, non può esimere da alcune riflessioni, per le quali è necessario innanzitutto acquisire un panorama più ampio dell’iter di proposta e infine approvazione di tale legge.
Il disegno di legge è stato realizzato dall’International Anti-Fur Coalition (IAFC), un’organizzazione che riunisce 50 organizzazioni anti – pelliccia in tutto il mondo e la cui fondatrice è l’israeliana Jane Halevy. Proposto nel 2009, con il sostegno di Peta Israel (People for the Ethical Treatment of Animals), il disegno ha avuto un percorso lungo e complicato.
Approvato in prima lettura dalla Commissione Ministeriale, il disegno di legge, che necessitava di passare tre esami per poter essere presentato alla Knesset, venne in seguito sconfitto due volte dopo pesanti pressioni da parte delle industrie di pellicce canadesi e danesi (Israele non ha un’industria propria, tutta la pelliccia venduta nel Pease è importata, principalmente da Stati Uniti, Canada e Danimarca). Nel 2017 il Consiglio di sicurezza nazionale israeliano emise una nota mettendo in guardia sul pericolo che il disegno di legge, compromettendo i rapporti con Danimarca e Canada, avrebbe potuto mettere a repentaglio “la sicurezza di Israele”.
Il disegno di legge quindi, a differenza di quanto affermato da IAFC, ovvero che non rivestisse una questione politica, risultò interessato da una potente rete di interessi economici stranieri privati e di dinamiche di politica internazionale e, cosa non inaspettata, venne inoltre usato funzionalmente all’agenda e agli interessi nazionalisti di Israele.
Quando il progetto venne introdotto per la prima volta nel 2009-2010, il ministro dell’agricoltura laburista Shalo Simhon affermò: “Noi (Israele) dovremmo dare l’esempio al resto del mondo sulla questione”, riecheggiando con queste parole la rappresentazione dell’identità nazionale di Israele come eccezionale e come “faro di luce per le nazioni”, idea già radicata nei primi miti sionisti come la “dottrina della scelta divina” che conferisce agli ebrei una “missione morale unica”.
Ecco quindi che oggi puntualmente viene sbandierato lo status speciale di Israele come paese illuminato e progressista, presentando l’approvazione della legge come un risultato eccezionale e come esempio a cui gli altri Paesi devono guardare, perfetto strumento di quell’hasbara che cerca di distogliere l’attenzione dall’abuso dei diritti umani verso i Palestinesi e dalla brutale politica di occupazione.
Il disegno di legge è stato anche sfruttato come strumento del cosiddetto “soft power” israeliano, presentato dalla stessa Jane Havely come “rara opportunità” per promuovere l’agenda di Israele tra le comunità che tradizionalmente criticano il Paese convincendo i liberali e i progressisti della sinistra occidentale, spesso schierati contro gli abusi sugli animali, che Israele non sia così “cattivo” come rappresentato dai media di sinistra.
Ma questa legge, è davvero così “illuminata” e “progressista”?
La modifica al regolamento del 1976 varata nell’ambito della Legge sulla protezione della fauna selvatica, firmata mercoledì dal ministro dell’ambiente Gila Gamliel, vieta il commercio e l’uso di pellicce, ma consente il rilascio di permessi da parte del direttore dell’Autorità israeliana per la natura e i parchi se le pelli devono essere utilizzate per “religione, tradizione religiosa, ricerca scientifica, educazione o insegnamento”. Questa scappatoia esenta quindi dal divieto gli ebrei ultra-ortodossi, che spesso indossano cappelli di zibellino, noti come shtreimels, durante lo Shabbat e nei giorni festivi. Realizzati con code di zibellini e di volpi, i cappelli possono costare fino a 5.000 dollari.
Con il suo caldo clima mediterraneo, in Israele gli ebrei ultra ortodossi sono praticamente gli unici utilizzatori diffusi di pellicce.
Nessun governo israeliano avrebbe mai il coraggio di vietare loro tale tradizione, cosa di cui sono perfettamente consapevoli anche gli interessati, che pure hanno criticato la legge: ”La bellezza e la maestria di uno shtreimel mostrano rispetto sia per lo Sabbath che per gli animali utilizzati per realizzarlo. L’abbigliamento in pelliccia è, infatti, un connubio tra la bellezza della natura e la creatività umana. Indossare la pelliccia dovrebbe ricordare a tutti noi la nostra dipendenza dalla natura e la nostra responsabilità di proteggerla. Se indossiamo la pelliccia con questa consapevolezza, diventa un atto morale. La cinica legge del ministro israeliano di vietare le pellicce sicuramente non lo è”. (lan Herscovici, Senior Researcher e scrittore). “Le pellicce provengono da Dio, sono parte della Bibbia” (Marc Kaufman).*
Risulta quindi evidente che l’impatto di questa legge sul commercio e sull’utilizzo di pellicce sarà minimo e che l’entusiasmo da essa suscitato non corrisponda a quella svolta epocale, a quel “faro di civiltà”, così ampiamente propagandati.
Di fronte alla dichiarazione del Ministro Gila Gamliel “L’industria delle pellicce provoca la morte di centinaia di milioni di animali in tutto il mondo e infligge crudeltà e sofferenze indescrivibili. Usare la pelle e il pelo della fauna selvatica per l’industria della moda è immorale e certamente non necessario. Le pellicce animali non possono coprire la brutale industria degli omicidi che le produce. La firma di questi regolamenti renderà il mercato della moda israeliano più rispettoso dell’ambiente e molto più gentile con gli animali” risulta inoltre evidente che, se lo stato ebraico ha sentito la necessità di opporsi alla crudeltà, alle sofferenze e alla morte inflitte a migliaia di animali non umani, lo stesso non accade riguardo ai Palestinesi, ai quali continua a infliggere sofferenza e morte senza alcun dilemma morale.
Celebrare Israele per questa ed altre leggi che combattono maltrattamenti e abusi sugli animali non umani, è come riconoscere che le vite dei Palestinesi non hanno valore e negare la loro resistenza contro uno stato oppressore.
Utilizzare gli animali per distogliere l’attenzione dai crimini perpetrati contro i Palestinesi, è oscurare i secondi e continuare a sfruttare i primi.
Non si tratta di considerare la sofferenza dell’una o dell’altra specie più importante o al di sopra dell’altra, posizione che sarebbe intrinsecamente specista, ma di accogliere la visione intersezionale, quella di una “sola battaglia, una sola lotta”, condivisa dagli stessi (se pure numericamente pochi), attivisti radicali animalisti e antispecisti israeliani e palestinesi, impegnati nel trovare dei punti di intervento efficaci che destabilizzino sia lo specismo che il colonialismo , cercando di trasformarli in un’agenda politica che guardi a una liberazione animale e umana in una Palestina decolonizzata e in un Israele libero dal suo “razzismo democratico”.
Al contrario di quanto celebrato dalla narrativa dominante, secondo la quale i Palestinesi sono “barbari” e “primitivi” e quindi necessitano di essere “civilizzati” da occupanti umani, compassionevoli, evoluti , “green” e persino più vegan di chiunque altro al mondo, Israele è estremamente distruttivo verso gli animali, l’ambiente e le persone, e non c’è propaganda che possa nascondere i suoi crimini .
Israele è uno stato di apartheid. Non si dovrebbe celebrare nessun suo “progresso” verso gli animali non umani fino a quando questi “progressi” non includeranno lo smantellamento della supremazia sionista e la fine dell’occupazione e della de-umanizzazione e oppressione dei Palestinesi.
Fino ad allora, non ho nulla da celebrare.
*Nota: per correttezza, riporto anche i pareri del rabbino ortodosso Shmuly Yankloviz, fondatore di “Shamayim: Jewish Animal Advocacy” e quello di “Jewish Veg”:
“L’utilizzo dello shtreimel non è necessario per attualizzare la santità. Ciò che è richiesto, tuttavia, è la necessità di seguire la nozione di “tzar ba’aleim chaim” , non causando inutili sofferenze agli animali”
“Il mandato del giudaismo è che trattiamo gli animali con sensibilità e compassione, e l’utilizzo delle pellicce viola questo mandato”.
Fonti:
https://blog.truthaboutfur.com/israels-proposed-fur-ban-is-immoral/
https://www.all-animals.org/articles/politics-animals-zionist-state.html
Che tipo di resistenza faresti? Una poesia di Basman Derawi – Gaza
Caro mondo,
che tipo di resistenza
vuoi che faccia?
Armato, disarmato,
o niente del tutto,
morire in silenzio
per non disturbarti?
Che tipo di resistenza
faresti
se la tua casa fosse stata rubata,
se la tua vita fosse solo argilla
nelle mani di qualcun altro?
Qualcuno che dice che il suo dio
gli ha promesso la tua terra?
Caro mondo,
mi immagino di camminare
per le strade di Sheikh Jarrah
e di trovare Yacoub (il colono)
davanti alla porta di casa mia,
che mi ordina di abbatterla
pezzo per pezzo,
o di pagare perché lo faccia mentre io guardo.
Immagino i giornalisti
Imprigionati per aver semplicemente svolto il proprio lavoro:
documentare i nostri tentativi di resistenza.
E i leader della protesta,
sequestrati nelle loro case.
Il pericolo attorno.
Non è così diverso da qui,
mentre cammino per le strade di Gaza,
ammantate di oscurità (senza elettricità).
Sento dei droni ronzare nelle mie orecchie.
Vedo le macerie di un edificio,
ascolto l’eco spettrale dei bambini che piangono,
la loro casa è sparita in uno sbuffo di polvere.
Finita una guerra, ne verrà un’altra.
Caro mondo, non ho il diritto di resistere?
L’occupazione è forse giusta?
Non faresti lo stesso,
se fossi nei miei panni?
Trad: Grazia Parolari “tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” Invictapalestina.org
Noi israeliani passiamo tutta la vita a vedere i palestinesi solo come una minaccia – Yael Lotan
Avevo 18 anni quando vidi per la prima volta la Striscia di Gaza. Era il 2002, l’apice della Seconda Intifada, e mi ero arruolato nell’esercito israeliano come esploratore per il Field Intelligence Corps. L’area che dovevo monitorare era soprannominata il “berech” (in ebraico “ginocchio”) sul bordo nord-orientale della Striscia. Iniziavo ogni giorno zoomando avanti e indietro da una baracca in cui abitava una sola famiglia palestinese, osservando persone che non avevano quasi nulla. Li ricordo come il palmo della mia mano: una madre, un nonno e un bambino con luminosi occhi azzurri. Ogni notte, erano l’ultima cosa che vedevo prima di andare a dormire.
Allora, vedevo quella famiglia palestinese come un ostacolo, piuttosto che come esseri umani.I Interferivano con il mio lavoro; i frutteti vicino al recinto, il loro misero sostentamento, ostruivano il mio campo visivo. Erano un ostacolo da eliminare. Ricordo quanto fosse facile e avvincente ripiegare su quella prospettiva militare, che riduce le persone in problemi e pericoli. È così che a noi israeliani viene insegnato a vedere Gaza, le sue case, la sua gente, i suoi bambini, come una costante minaccia alla sicurezza.
Questo è anche il modo in cui ogni azione israeliana a Gaza è giustificata, ognuna tracciando la linea rossa sempre più lontano. La guerra del 2014, che l’esercito israeliano aveva chiamato in codice “Operazione Margine Protettivo”, comportò la distruzione di grattacieli. L’ultimo attacco di questo mese, soprannominato “Operazione Guardiano del Muro”, è iniziato bombardando quegli stessi edifici. I membri del gabinetto israeliano l’hanno chiamato “cambiare l’equazione” e questa equazione è cambiata SEMPRE nella stessa direzione.
L’operazione Piombo Fuso, la guerra di Gaza del 2008-9, ha ucciso 762 civili palestinesi, di cui 318 minorenni. Nel 2014, in appena un mese e mezzo, Protective Edge ha ucciso 1.372 civili, 528 dei quali minorenni, a un’ora di macchina da Tel Aviv – e quasi nessuno sembrava preoccuparsene.
Solo nei primi giorni dell’operazione a Gaza di questo mese, abbiamo ucciso Kussai (6 mesi), Adam (3), Zayid (8), Hanaa (15) e Yara (10); solo una, delle quindici famiglie che abbiamo cancellato dalla faccia della terra. L’esercito chiama questo “danno collaterale”. Questi bambini sono stati seppelliti senza lasciare dietro di sé nemmeno un’increspatura nella società israeliana, e sempre per lo stesso motivo: perché li vediamo come una minaccia piuttosto che come esseri umani. Anche un bambino di sei mesi.
Gli attacchi aerei israeliani alla fine hanno ucciso 65 bambini palestinesi in due settimane, bambini nati dall’altra parte della realtà in cui è nato mio figlio. Affinché i nostri figli abbiano un futuro libero da tale guerra, noi israeliani dobbiamo guardarci allo specchio e chiederci come siamo potuti diventare una società che accetta tali atrocità, rassegnandosi a “vivere con la spada”.
Troppe volte siamo stati testimoni non solo di quanto sia debole e poco convincente la logica della sicurezza di Israele, ma di come sia progettata per permetterci di continuare con le nostre vite, anche dopo che un’intera famiglia palestinese è stata cancellata. Troppe volte questa giustificazione ci ha permesso di ignorare come opera il controllo israeliano a Gaza, e cosa significhi per coloro che vivono sul lato oggetto delle nostre azioni e la cui unica colpa è il fatto di esistere.
Da giovane soldato, ho visto una famiglia palestinese svegliarsi ogni mattina. Ho visto un ragazzo giocare e un anziano palestinese che cercava di guadagnarsi da vivere. Ad un certo punto, diventa impossibile cancellare queste persone dalla tua coscienza, nasconderle sotto il tappeto delle giustificazioni della sicurezza. Cosa sta loro succedendo oggi? Quanti di loro sono sopravvissuti alle guerre precedenti?
Oltre alle innumerevoli voci e testimonianze dei palestinesi a Gaza, vale anche la pena ascoltare le testimonianze dei soldati che Israele ha inviato a Gaza nel 2014. Le cose che descrivono, gettano un’ombra nauseante sulle giustificazioni di sicurezza a cui ci siamo abituati. Descrivono i palestinesi che hanno continuato a vivere nei quartieri popolati che abbiamo bombardato nel 2014, quartieri che ci era stato assicurato fossero stati sgombrati da persone innocenti e che ci era stato detto che dovevano essere colpiti con proiettili di artiglieria.
Sono nato in una famiglia di militari. Sono stato educato ai valori del patriottismo israeliano e dell’amore incondizionato per Israele, nel bene e nel male. Avevo 18 anni quando mi sono arruolato. Sono passati diciotto anni da quando ho visto il ragazzo palestinese nella baracca oltre il recinto. Tra altri 18 anni, mio figlio neonato dovrebbe prendere parte attiva a questa stessa realtà. Non può essere che l’unico modo per lui di vivere qui ,sia soggiogare un’intera nazione – persone innocenti – per sempre. Mi rifiuto di accettare che questa sia l’unica opzione.
(Yael Lotan è il vicedirettore di Breaking the Silence)
Trad: Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org
Un’opportunità che non può essere persa: sullo storico incontro di Blinken con attivisti palestinesi – Miko Peled
Con una mossa senza precedenti e molto gradita, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha incontrato quattro attivisti palestinesi a Ramallah. I quattro attivisti erano Hadeel Qazzaz di Gaza, Aref Husseini di Gerusalemme, Dalal Irikat, la figlia del defunto Saeb Iriqat, e Issa Amro di Hebron. Ho incontrato Issa a Hebron subito dopo il suo incontro con Blinken, e ha riferito molte informazioni sulla rivoluzionaria distensione.
Cambiamento
Mentre ero seduto con Issa e lo ascoltavo descrivere l’incontro, mi è venuto in mente il seguente ricordo. Negli anni ’70, ’80 e ’90, mio padre, un ex Generale dell’IDF e un sionista convinto, viaggiava spesso e si recava negli Stati Uniti con l’obiettivo principale di convincere i politici statunitensi a smettere di fornire armi e denaro a Israele, per costringerlo a rispettare il diritto internazionale e ad agire in conformità con le risoluzioni delle Nazioni Unite sui diritti del popolo palestinese, forse una posizione strana da parte di un ex Generale israeliano, ma è vero.
Mio padre non è mai stato in grado di incontrare nessun importante politico statunitense, perché nessuno voleva sentire quello che aveva da dire. Non c’era una sola figura significativa che volesse ascoltare un Generale israeliano sui diritti dei palestinesi. Il migliore che abbia mai avuto è stato un incontro a Gerusalemme con Zbigniew Brzezinski, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale durante l’amministrazione Carter. Quell’incontro avvenne in un piccolo caffè di Gerusalemme a condizione che l’incontro rimanesse segreto.
Il punto è che ci è voluto molto tempo, troppo tempo, e i palestinesi hanno dovuto pagare un prezzo altissimo, ma gli Stati Uniti hanno fatto molta strada. Dei quattro attivisti, conosco solo Issa Amro, e il fatto che fosse presente significa che la voce palestinese era rappresentata. Issa è la persona più completa e intelligente che si possa incontrare ed è andato all’incontro preparato.
Ha insistito che gli Stati Uniti riconoscessero Israele come regime di apartheid. Ha invitato il governo degli Stati Uniti ad aprire discussioni con tutti i gruppi politici palestinesi, incluso Hamas, e ha sfidato l’amministrazione Biden a fornire una deroga presidenziale che consenta il contatto con Hamas, proprio come la deroga presidenziale che consente ai funzionari americani di condurre colloqui con il partito Fateh a Ramallah. Entrambe le parti sono ancora considerate dagli Stati Uniti come organizzazioni terroristiche.
Critiche feroci da ogni parte
Issa è stato pesantemente criticato da molti per il suo incontro con Blinken, ma come si suol dire, “quando ti vengono a cercare, sai che stai facendo qualcosa di giusto”. Gli Stati Uniti possono essere l’impero del male, e sì, forniscono a Israele le stesse armi che uccidono i palestinesi. Allo stesso tempo, senza un cambiamento nella politica estera statunitense, non c’è motivo di aspettarsi un cambiamento in Palestina.
Tutti, dal sito di notizie Breitbart ,all’ufficio di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a Ramallah hanno affermato che Issa meritava di essere criticato. Il primo ha criticato “il passato di Amro come attivista radicale nel 2017, riferendo che era stato a favore di una terza “intifada”, aveva pubblicato messaggi in favore del terrorismo palestinese e aveva condiviso la retorica antisemita sui social media.”
Issa si dedica alla resistenza all’occupazione sionista della Palestina ed è ugualmente dedito alla non violenza e all’educazione delle giovani generazioni di palestinesi che sanno come utilizzare la disobbedienza civile e altre forme di resistenza non violenta. Non c’è mai stato un singolo caso in cui Issa Amro abbia fatto ricorso, chiesto o espresso sostegno alla violenza. Nemmeno durante questo ciclo di violenze quando molti, se non la maggior parte dei palestinesi, hanno effettivamente sostenuto i razzi lanciati da Gaza.
Il rappresentante del BDS a Ramallah ha scritto in arabo che Issa “è un esempio di sostenitore palestinese del sionismo”. Anche questa è un’affermazione ridicola, e sicuramente lo sanno. Issa ha chiesto la fine del regime dell’apartheid dal fiume al mare e non ha mai lavorato, collaborato o mostrato altro che disprezzo e resistenza all’occupazione sionista della Palestina. Entrambe le accuse sono ridicole.
Issa ha pagato e continua a pagare a caro prezzo la sua dedizione alla causa. È stato arrestato e picchiato dalle autorità israeliane, è stato picchiato e minacciato dai coloni razzisti armati che lo circondano a Hebron, ed è stato molestato, perseguitato e perseguito dall’Autorità Palestinese che non è soddisfatta del suo efficace lavoro di attivista. La piccola organizzazione che opera a Hebron, Youth against Settlements (Gioventù Contro gli Insediamenti), o YAS, è probabilmente è una delle organizzazioni di riferimento più efficaci in Palestina.
C’è una rabbia diffusa e giustificata nei confronti degli Stati Uniti per il loro sostegno a Israele. Anche se Israele conduce un massacro dopo l’altro a Gaza, le amministrazioni statunitensi perpetuano la menzogna che Israele agisca per autodifesa. Gli Stati Uniti sostengono la diffusa pulizia etnica di Israele e non dicono nulla quando coloni israeliani armati e militari profanano i sacri terreni del complesso di Al-Aqsa.
Quindi non sorprende che ci siano persone che sono arrabbiate e critiche sul fatto che attivisti seri abbiano onorato Blinken con un incontro. Tuttavia, per la prima volta, un Segretario di Stato americano ha dedicato tempo e attenzione alla voce palestinese. Non è stato un incontro di rito, è stato un incontro serio con varie voci palestinesi che stanno resistendo attivamente sul campo. Questa è un’opportunità che nessuno può permettersi di perdere.
Quando avere ragione e quando essere intelligenti
La complicità americana con i crimini del sionismo in Palestina e oltre è meritevole di condanna. I rappresentanti degli Stati Uniti in patria e all’estero dovrebbero essere chiamati in causa e svergognati per il loro sostegno a Israele e per aver abbracciato una politica estera sionista nella regione. Tuttavia, come si suol dire, bisogna sapere non solo quando avere ragione, ma anche quando essere intelligenti. E per quanto disprezzo si possa nutrire per gli Stati Uniti e la loro politica estera, resta il fatto che coloro che cercano giustizia in Palestina avranno bisogno del sostegno dell’impero regnante, e si dà il caso che sia gli Stati Uniti.
Miko Peled è uno scrittore e attivista per i diritti umani, nato a Gerusalemme. E’ autore di “The General’s Son. Journey of an Israeli in Palestine” e “Injustice, the Story of the Holy Land Foundation Five”.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
Gaza: la metafora del mondo
Dove fermeremo l’asticella dei diritti negati e che su questo limite ci batteremo tutti assieme?
– Dacia Maraini – Piero Basso – Don Virginio Colmegna – Emilio Molinari Stefano Nespor – Moni Ovadia – Armando Spataro
Il fuoco si è fermato a Gaza. Si sono contate le vittime: 12 civili israeliani e 250 palestinesi uccisi, 60 dei quali bambini, 1200 feriti che intasano ospedali di Gaza già collassati dal Covid e danneggiati dalle bombe.
E’ finita. Pochi giorni di attenzione e i media non ne parleranno più.
Ma a Gaza si continuerà a morire per queste bombe, per quelle di prima e di prima ancora, in attesa delle prossime.
Queste hanno distrutto strade, 500 case, generato 60000 senza tetto, danneggiato 5 linee elettriche, semi distrutta la già disastrata rete idrica e fognaria, i pozzi, le stazioni di pompaggio, gli impianti di desalinizzazione, paralizzato il già precario sistema sanitario e bloccato i già pochi e difficili tentativi di vaccinazione.
Si muore e si morirà sempre di questo a Gaza. Il tasso di mortalità infantile è tra i più alti del mondo ed è per l’acqua infetta. Perché Gaza è Gaza.
Non entrano i materiali per riparare le reti idriche, fognarie ed elettriche, la falda è esaurita assorbe acqua salata, infettata dalle fogne.
Nessuno costruisce infrastrutture che portino l’acqua dall’esterno.
Impossibile a Gaza rispettare le norme igieniche di lavarsi le mani più volte al giorno.
Non vogliamo sottrarci alle analisi sulle vecchie e sulle nuove responsabilità, su come distribuirle tra Netanyahu e Hamas con i loro progetti criminali che si intrecciano. Non vogliamo parlare di geopolitica, tutto è stato già detto e discusso. Forse è solo necessario esprimere l’indignazione ragionata per la politica capace di “usare” i numeri e le statistiche delle vittime per fingere un interesse, simulare un diritto internazionale morto da tempo.
Vogliamo per un momento partire solo da Gaza per guardare al mondo.
A Gaza le bombe si sovrappongono e si confondono con l’assenza di tutti i diritti umani che ognuno di noi continua ad elencare da tempo: la democrazia, l’autodeterminazione, la dignità, le libertà e… infine l’acqua. Sempre in fondo, aggiunta all’ultimo momento.
Forse, va invertita la scala delle priorità, va fermata l’asticella su ciò che vogliamo susciti ancora qualche passione universale: l’acqua pulita e la salute, i diritti umani fondamentali, i più violati e dimenticati.
L’acqua è il più materiale, il più sacro dei diritti. E’ antico come la genesi, salvaguardato nelle guerre greche, eppure dimenticato.
A Gaza questi fondamentali diritti alla Vita sono negati.
Gaza è la metafora dello scarto portata all’estremo, è un occhio su come si prospetta il mondo futuro.
Una striscia di terra lunga 36 km e larga 10. 360 km2 in cui sono stipati 2 milioni di persone, delle quali 600 mila bambini, un popolo di profughi, dall’età media di 20 anni, una delle più alte concentrazioni demografiche del mondo. Un pericolo pandemico per il Mediterraneo e la stessa Israele.
E’ una discarica umana, chiusa da una parte e dall’altra, dalla quale non si fugge a nuoto o coi gommoni, nemmeno quando piovono le bombe….chi li accoglie?
Il diritto all’acqua: nemmeno la guerra lo dovrebbe distruggere.
E’ stato affermato da una Risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite nel 2010, che recita:
“ il “diritto all’acqua potabile e ai servizi igienico sanitari è un diritto dell’uomo essenziale alla qualità della vita ed all’esercizio di tutti gli altri diritti dell’uomo”….Pensiamoci: più d’ogni altro diritto umano. E’ la prima volta che ciò viene affermato e reso giudiziabile.
Solo che non lo sa nessuno, nemmeno le vittime e non c’è protocollo tra nazioni e nessun tribunale internazionale che sanzioni chi non lo rispetti.
C’è bisogno di memoria per ricordare che la società civile nel passato, riconoscendo che il crimine più grave ed impunito è il silenzio, si è data lei stessa uno strumento come un tribunale: sul Vietnam 1966/67 e sulle dittature dell’America Latina 1974/76 con personalità come Bertrand Russell, Jea Paul Sartre. Lelio Basso. E dal 1979 opera il Tribunale Permanente dei popoli e un tribunale Rassell sulla Palestina ha tenuto le sue sessioni negli anni precedenti ad un altra tragica operazione su Gaza.
Non si tratta di inventare nulla di nuovo. O forse si, per immaginare relazioni internazionali diverse. C’è un Forum dei movimenti dell’acqua italiano e internazionale con cui relazionarsi. Si tratta di mettere la lente di ingrandimento su due diritti negati premessa e indicatori di ogni altro diritto. Metterli a fuoco, non occasionalmente e nei giorni di cronaca del prossimo evento: da parte di magistrati, medici, avvocati, intellettuali, Rappresentanti della capacità di civiltà della società: perché diventino “processi”, presa di coscienza, cultura giuridica, di democrazia e impegno di giovani.
Rilanciarli in quanto parlano alle nuove generazioni del futuro del nostro mondo. Ci parlano della crisi dell’acqua e delle guerre che il suo possesso generano, di 700 milioni di profughi previsti dall’ONU dal 2030 e delle discariche umane turche, libiche, sub sahariane ecc… Ci parlano di quotazione in borsa dell’acqua, di pandemie, di vaccini, di multinazionali, di farmaci negati. Delle diseguaglianze, quelle grandi, quelle collettive, che si misurano con la vita e la morte di milioni di persone. Ci parlano di indifferenza e di impegno.
Nota di Invictapalestina:
Il Consiglio per i diritti umani istituisce la Commissione internazionale d’inchiesta per indagare sulle violazioni nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est, e in Israele. Come hanno votato i vari stati?
The results of the vote were as follows:
A favore (24): Argentina, Armenia, Bahrain, Bangladesh, Bolivia, Burkina Faso, China, Cote d’Ivoire, Cuba, Eritrea, Gabon, Indonesia, Libya, Mauritania, Mexico, Namibia, Pakistan, Philippines, Russian Federation, Senegal, Somalia, Sudan, Uzbekistan and Venezuela.
Contro (9): Austria, Bulgaria, Cameroon, Czech Republic, Germany, Malawi, Marshall Islands, United Kingdom and Uruguay.
Astenuti (14): Bahamas, Brazil, Denmark, Fiji, France, India, Italy, Japan, Nepal, Netherlands, Poland, Republic of Korea, Togo and Ukraine.
Il Consiglio dei Diritti Umani, organo sussidiario dell’Assemblea Generale, con sede a Ginevra, è stato creato nel 2006 in sostituzione della Commissione per i Diritti Umani, con il compito di promuovere il rispetto universale e la protezione dei diritti umani, di intervenire in caso di loro violazione e di favorire il coordinamento delle strutture operanti nel sistema Nazioni Unite.
Il Consiglio è composto da 47 stati membri (13 dall’Asia, 13 dall’Africa, 8 dall’America Latina, 7 del Gruppo Occidentale e 6 dall’Europa Orientale), eletti a rotazione dall’Assemblea Generale per un periodo iniziale di tre anni, rinnovabili non più di due volte consecutive.
I risultati di ricerca di Google suggeriscono che la kefiah palestinese sia un simbolo del terrorismo – Azad Essa
L’iconica kefiah palestinese, una sciarpa a scacchi in bianco e nero che di solito viene indossata intorno alla testa o al collo, è il copricapo preferito dai terroristi, secondo Google.
Gli utenti dei social media hanno aspramente criticato martedì il popolare motore di ricerca dopo che i risultati per “quali tipi di copricapo o sciarpe indossano i terroristi” hanno elencato la kefiah come primo risultato.
La kefiah è un simbolo del nazionalismo palestinese reso famoso negli anni ’60 dal defunto leader palestinese Yasser Arafat. È ampiamente considerata un simbolo della resistenza palestinese ed è spesso indossata come segno di solidarietà.
Nadim Nashif, direttore esecutivo di 7amleh, The Arab Center for Social Media Advancement, ha dichiarato a Middle East Eye che la scoperta ha evidenziato come le grandi aziende tecnologiche stiano plasmando le narrazioni negative dei palestinesi.
“Anche se non è chiaro come la Ricerca di Google abbia associato la kefiah al terrorismo, 7amleh ha studiato e documentato come le politiche di Google – sia in Google Maps, YouTube o nel Knowledge Panel di Google – discriminano i palestinesi, diffondono disinformazione e perpetuano stereotipi razzisti e disumanizzanti, contrari alle leggi e alle norme sui diritti umani “, ha detto Nashif.
“La kefiah è stata per decenni un copricapo storico di arabi e palestinesi, utilizzata inizialmente dagli agricoltori e successivamente diventata un simbolo del nazionalismo palestinese … associare questa icona storico-culturale al terrorismo, è razzista e disumanizzante”.
Il gruppo ha affermato di aver presentato un reclamo ufficiale a Google e di essere in attesa di un aggiornamento da parte dell’azienda.
Google non ha risposto alla richiesta di chiarezza o commento di MEE.
Google e Amazon firmano un accordo da 1,2 miliardi di dollari con Israele
Mentre alcune sezioni dei social media si sono indignate per la scoperta, lunedì Amazon Web Services (AWS) e Google hanno firmato un accordo da1,2 miliardi di dollari con Israele.
Il progetto, chiamato Nimbus, vedrà le due società tecnologiche fornire servizi cloud al settore pubblico israeliano e all’esercito israeliano.
L’accordo, confermato ad aprile ma firmato solo lunedì, è arrivato pochi giorni dopo che un gruppo di dipendenti di Google, soprannominato la diaspora ebraica in Tech, aveva esortato il CEO Sundar Pichai a porre fine ai contratti commerciali che violano i diritti umani dei palestinesi.
La lettera, firmata inizialmente da almeno 250 dipendenti, invitava Google a proteggere e sostenere la libertà di parola, incluso il rifiuto dell’insinuazione che le critiche a Israele fossero antisemite.
“Chiediamo alla leadership di Google di rifiutare qualsiasi definizione di antisemitismo che ritenga che la critica a Israele o al sionismo sia antisemita”, si legge nella lettera.
Gli sviluppi all’interno di Google vanno di pari passo con sforzi simili in Apple, dove circa 1.000 persone hanno esortato il CEO Tim Cook a rilasciare una dichiarazione a sostegno dei diritti dei palestinesi.
La lettera chiedeva ad Apple di riconoscere che “milioni di palestinesi attualmente soffrono sotto un’occupazione illegale”.
“Affare vergognoso”
L’attivista palestinese-americano Nerdeen Kiswani ha detto a MEE che l’accordo ha mostrato il “disprezzo” che entrambe le società hanno per le vite palestinesi.
“Oltre 50.000 palestinesi a Gaza sono stati sfollati e oltre 200 sono stati assassinati”, ha detto. “Invece di mostrare preoccupazione o solidarietà per la difficile situazione palestinese, Google e Amazon si sono uniti per firmare il vergognoso accordo da un miliardo di dollari con Israele, mentre i palestinesi continuano a soffrire”.
Allo stesso modo, Nashif di 7amleh ha affermato che l’accordo ha mostrato “come le aziende tecnologiche stanno consentendo le violazioni dei diritti umani e sviluppando politiche per mascherare queste attività illegali.
“AWS [Amazon Web Services] non dovrebbe fornire servizi cloud alle aziende che lavorano con governi e forze armate per sviluppare tecnologie di sorveglianza e spiare palestinesi e altri attivisti e organizzazioni per i diritti umani”.
Sia Google che Amazon non hanno risposto alla richiesta di MEE di commentare l’accordo.
La critica all’interno del mondo tecnologico arriva tra innumerevoli accuse di censura di account o post filo-palestinesi sui social media, inclusi Facebook, Instagram e Twitter.
La scorsa settimana, i ricercatori hanno detto a MEE che anche la comprensione della reale portata dei danni del bombardamento aereo israeliano di 11 giorni a Gaza era difficile da accertare, perché molti strumenti di mappatura open source, tra cui Google, non hanno aggiornato le loro mappe con immagini ad alta risoluzione.
Senza offrire una spiegazione, Google ha detto a MEE che non aveva intenzione di aggiornare le mappe di Gaza.
Trad: Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” -Invictapalestina.org
Gruppi ebraici che favoriscono i crimini di guerra di Israele non possono negare le proprie responsabilità per questi crimini – Jonathan Cook
Ecco qualcosa che si può dire con grande sicurezza. È razzista, antisemita, se si preferisce, ritenere gli ebrei, individualmente o collettivamente, responsabili dei crimini di Israele. Gli ebrei non sono responsabili dei crimini di guerra israeliani, anche se lo Stato Sionista presume di implicare gli ebrei nei suoi crimini dichiarando falsamente che rappresenta tutti gli ebrei nel mondo.
Ovviamente, non è colpa degli ebrei se Israele commette crimini di guerra, o se Israele usa gli ebrei collettivamente come scudo politico, sfruttando la sensibilità sulla sofferenza storica degli ebrei per mano di non ebrei per immunizzarsi dalla vergogna internazionale.
Ma ecco qualcosa che si può dire con uguale certezza. Gli apologeti di Israele, siano essi ebrei o non ebrei, non possono negare ogni responsabilità per i crimini di guerra di Israele quando aiutano attivamente e incoraggiano Israele a commettere quei crimini, o quando cercano di demonizzare e mettere a tacere i critici di Israele in modo che quei crimini di guerra possano essere perseguiti in un clima politico più favorevole.
Tali apologeti, che purtroppo sembrano includere molte delle organizzazioni comunitarie in Gran Bretagna che affermano di rappresentare gli ebrei, vogliono avere la loro fetta di torta e mangiarla.
Non possono difendere Israele in modo acritico in quanto commette crimini di guerra o cercare modifiche legislative per aiutare Israele a commettere quei crimini, che si tratti dell’ultimo bombardamento israeliano di civili a Gaza, o delle sue esecuzioni di palestinesi disarmati che protestano per i 15 anni di blocco israeliano dell’enclave costiera, e accusare chiunque li critichi di essere un antisemita.
Ma questo è esattamente quello che sta succedendo. E sta solo peggiorando.
Un aumento dell’antisemitismo?
Quando ieri è stato attuato un cessate il fuoco, che ha portato a un temporaneo rallentamento dei bombardamenti di Gaza da parte di Israele, i gruppi ebraici filo-israeliani nel Regno Unito hanno avvertito ancora una volta di un’impennata dell’antisemitismo che attribuivano a una rapida crescita del numero di proteste contro Israele.
Questi gruppi hanno i soliti potenti alleati che fanno eco alle loro affermazioni. Il Primo Ministro Britannico Boris Johnson ha incontrato giovedì i leader della comunità ebraica a Downing Street, impegnandosi, come riportato da Jewish News, “a continuare a sostenere la comunità di fronte ai crescenti attacchi di antisemitismo”.
Tra i presenti c’era il Rabbino Capo Ephraim Mirvis, un sostenitore di Johnson che ha avuto un ruolo attivo nell’aiutarlo a vincere le elezioni del 2019 rinnovando le calunnie antisemite prive di fondamento contro il Partito Laburista di Jeremy Corbin giorni prima del voto. Comprendeva anche la Campagna contro l’antisemitismo, che è stata intrapresa specificamente per mascherare i crimini di Israele durante i suoi bombardamenti del 2014 su Gaza e da allora ha diffamato ogni attivismo di solidarietà palestinese come antisemitismo.
Era presente anche il Jewish Leadership Council (Consiglio Direttivo Ebraico – JLC), un’organizzazione di coordinamento per i principali gruppi della comunità ebraica britannica. In un articolo sul quotidiano israeliano Haaretz su questo presunto aumento dell’antisemitismo nel Regno Unito, il vicepresidente del JLC, Daniel Korski, ha esposto la narrativa ridicola e opportunista che questi gruppi di comunità stanno cercando di vendere, con un successo apparentemente sempre maggiore tra l’élite politica e mediatica.
Indignazione popolare per Gaza
Korski ha espresso grave preoccupazione per la proliferazione di manifestazioni nel Regno Unito volte a fermare il bombardamento israeliano di Gaza. Durante 11 giorni di attacchi, più di 260 palestinesi sono stati uccisi, inclusi 66 bambini. Gli attacchi aerei israeliani mirati hanno colpito più di una dozzina di ospedali, inclusa l’unica clinica Covid a Gaza, decine di scuole, diversi centri di informazione e decine di migliaia di palestinesi sono rimasti senza casa.
Il senso di indignazione popolare per l’assalto israeliano è stato accresciuto solo dal fatto che il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva chiaramente progettato un confronto con Hamas fin dall’inizio per servire i suoi interessi personali immediati: Impedire ai partiti dell’opposizione israeliana di unirsi per destituirlo.
Nei suoi cinici calcoli personali, i civili palestinesi sono stati sacrificati per aiutare Netanyahu a mantenere il potere e migliorare le sue possibilità di eludere la prigione mentre si trova sotto processo con accuse di corruzione.
Ma per Korski e gli altri leader della comunità presenti all’incontro con Johnson, le appassionate manifestazioni di solidarietà con i palestinesi sono la loro principale prova per l’aumento dell’antisemitismo.
Inni alla “Palestina Libera”
Queste organizzazioni comunitarie citano alcuni episodi che indubbiamente si qualificano come antisemitismo, alcuni gravi, altri meno. Includono gridare “Palestina Libera” alle persone perché sono identificabili come ebrei, qualcosa che presumibilmente accade soprattutto ai religiosi ultra-ortodossi.
Ma la principale preoccupazione di questi leader ebraici, dicono chiaramente, è il crescente sostegno pubblico ai palestinesi di fronte all’intensificarsi dell’aggressione israeliana.
Citando David Rich, della Community Security Trust (Fiduciaria per la Sicurezza Collettiva), un’altra organizzazione ebraica ospitata da Johnson, il quotidiano Haaretz riferisce che “ciò che ha veramente scosso la comunità ebraica è che ogni giorno si tengono manifestazioni su questa questione in tutto il paese: il bombardamento di Gaza da parte di Israele.”
Sembra evidente che quando i leader della comunità ebraica guardano i servizi televisivi che mostrano i manifestanti intonare “Palestina Libera”, lo sentono come un attacco personale, come se loro stessi venissero importunati per strada.
Non serve essere degli psicologi per chiedersi se questo riveli qualcosa di preoccupante sui loro sentimenti interiori: Si identificano così completamente con Israele che anche quando qualcuno chiede che i palestinesi abbiano gli stessi diritti degli israeliani, lo percepiscono come un attacco collettivo agli ebrei, come antisemitismo.
Eccezione per Israele
Quindi Korski arriva al nocciolo della questione: “Come ebrei siamo orgogliosi della nostra eredità e allo stesso tempo non siamo in alcun modo responsabili delle azioni di un governo a migliaia di chilometri di distanza, indipendentemente dai nostri sentimenti o dai legami con esso”.
Ma la logica di quella posizione è semplicemente insostenibile. Non si può legare intimamente la propria identità a uno Stato che commette sistematicamente crimini di guerra, non si possono classificare le manifestazioni contro quei crimini di guerra come antisemitismo, non si può usare la propria posizione di “leader della comunità ebraica” per rendere tali accuse più credibili e sfruttare la propria influenza pressando i leader mondiali per cercare di mettere a tacere le proteste contro Israele e poi dire che “non si è in alcun modo responsabili” per le azioni di quel governo.
Se usano la propria posizione per impedire a Israele di essere sottoposto a indagine sulle accuse di crimini di guerra, se cercano di manipolare il dibattito pubblico con accuse di antisemitismo per creare un ambiente più favorevole in cui quei crimini di guerra possono essere commessi, allora parte della colpa per quei crimini di guerra ricade su di loro.
È così che funziona la responsabilità in ogni altra sfera della vita. Ciò che chiedono gli apologeti di Israele è un’eccezione per Israele e per se stessi.
Lobby con l’appoggio del Regno Unito
In un’altra osservazione rivelatrice che cerca di giustificare le affermazioni di un’impennata nell’antisemitismo, Korski aggiunge: “Non vediamo lo stesso tipo di esternazioni quando si tratta dei Rohingya, degli Uiguri o della Siria, e questo fa sentire molti ebrei che si tratta di loro in quanto ebrei”.
Ma ci sono molte ragioni per cui non ci sono manifestazioni altrettanto grandi nel Regno Unito contro le sofferenze dei Rohingya e degli Uiguri, ragioni che non hanno assolutamente nulla a che fare con l’antisemitismo.
Gli oppressori dei Rohingya e degli Uiguri, a differenza di Israele, non vengono generosamente armati dal governo britannico, non ricevono copertura diplomatica e accordi commerciali preferenziali dalla Gran Bretagna.
Ma altrettanto importante, gli Stati che opprimono i Rohingya e gli Uiguri, a differenza di Israele, non hanno lobby attive e ben finanziate nel Regno Unito, con l’appoggio del Primo Ministro. Cina e Myanmar, a differenza di Israele, non hanno lobby britanniche che etichettano con successo le critiche nei loro confronti come razzismo. A differenza di Israele, non hanno lobby che cercano apertamente di influenzare le elezioni per proteggerli dalle critiche. A differenza di Israele, non hanno lobby che collaborano con la Gran Bretagna per introdurre misure per aiutarli a portare avanti la loro oppressione.
Il Presidente del Consiglio dei Deputati, Marie van der Zyl, ad esempio, durante l’incontro di questa settimana ha insistito con Johnson per classificare tutti i rami di Hamas, non solo la sua ala militare, come organizzazione terroristica. Questo è il desiderio insoddisfatto di Israele. Una tale decisione renderebbe ancora meno probabile per la Gran Bretagna essere in grado di prendere ufficialmente le distanze dai crimini di guerra di Israele a Gaza, dove Hamas dirige il governo, e ancor più probabilmente si unirebbe a Israele nel dichiarare le scuole, gli ospedali e i dipartimenti governativi di Gaza tutti obiettivi legittimi per gli attacchi aerei israeliani.
Assurde congetture
Se si fanno pressioni per ottenere favori speciali per Israele, in particolare favori per aiutarlo a commettere crimini di guerra, non si può certo dissociarsi da quei crimini. Vi si è direttamente implicati.
Anche David Hirsch, un accademico dell’Università di Londra che è stato strettamente collegato agli sforzi per armare l’antisemitismo contro i critici di Israele, specialmente nel Partito Laburista sotto la guida del suo precedente leader Jeremy Corbyn, cerca di giocare a questo trucco.
Dice ad Haaretz che l’antisemitismo sta presumibilmente “aumentando” perché gli attivisti della solidarietà palestinese hanno rinunciato a una soluzione a due Stati. “Un tempo c’era una lotta in Palestina di solidarietà tra una politica di pace, due Stati che vivono fianco a fianco, e una politica di denuncia di una parte come essenzialmente malvagia e sperando nella sua sconfitta totale”.
Ma quelle che Hirsch sta facendo sono solo congetture: Sta suggerendo che gli attivisti della solidarietà palestinese sono “antisemiti”, la sua idea del male, perché sono stati costretti da Israele ad abbandonare la loro causa a lungo caldeggiata di una soluzione a due Stati. Questo solo perché i successivi governi israeliani si sono rifiutati di negoziare qualsiasi tipo di accordo di pace con la dirigenza palestinese più moderata immaginabile sotto Mahmoud Abbas, quella che ha telegrafato con entusiasmo il suo desiderio di collaborare con Israele, definendo addirittura “sacro” il “coordinamento della sicurezza” con l’esercito israeliano.
Una soluzione a due Stati è morta perché Israele l’ha resa morta, non perché gli attivisti della solidarietà palestinese sono più estremisti o più antisemiti.
Inneggiando alla “Palestina Libera”, gli attivisti non chiedono la “sconfitta totale” di Israele, a meno che Hirsch e le stesse organizzazioni della comunità ebraica credano che i palestinesi non potranno mai essere liberi dall’oppressione e dall’occupazione israeliane fino a quando Israele non subirà una tale “sconfitta totale”. L’affermazione di Hirsch non ci dice nulla sugli attivisti della solidarietà palestinese, ma ci dice molto su ciò che realmente motiva queste organizzazioni della comunità ebraica.
Sono questi lobbisti filo-israeliani, a quanto pare, più che gli attivisti della solidarietà palestinese, che non riescono a immaginare i palestinesi che vivono dignitosamente sotto il governo israeliano. È perché capiscono fin troppo bene ciò che Israele e la sua ideologia politica del sionismo rappresentano veramente, e che ciò che è richiesto ai palestinesi per la “pace” è una sottomissione assoluta e permanente?
Maggiormente consapevoli
Allo stesso modo, Rich, del Community Security Trust, dice degli attivisti della solidarietà palestinese: “Anche i moderati sono diventati estremisti”. In cosa consiste questo estremismo, presentato ancora una volta dai gruppi ebraici come antisemitismo? “Ora il movimento di solidarietà con i palestinesi è dominato dall’idea che Israele sia uno stato di apartheid, genocida e colonialista”.
O, in altre parole, questi gruppi ebraici filo-israeliani affermano che c’è stata un aumento dell’antisemitismo perché gli attivisti della solidarietà palestinese vengono influenzati e istruiti da organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch e l’israeliana B’Tselem. Entrambi hanno recentemente scritto rapporti che classificano Israele come uno stato di apartheid, nei territori occupati e all’interno dei confini riconosciuti di Israele. Gli attivisti non stanno diventando più estremisti, stanno diventando più consapevoli.
E nel sostenere una presunta ondata di antisemitismo, Rich offre un’altra intuizione inavvertitamente rivelatrice. Dice che i bambini ebrei soffrono di “abusi” online, sono vittima di antisemitismo, perché trovano sempre più difficile partecipare ai social media.
“Gli adolescenti sono molto più veloci ad aderire ai movimenti sociali; abbiamo appena avuto Black Lives Matter, Extinction Rebellion, #MeToo, ora i bambini ebrei scoprono che tutti i loro amici si stanno unendo a questi movimenti di solidarietà palestinese in cui non si sentono i benvenuti o vengono scelti perché sono ebrei”.
In modo fantasioso, Rich sostiene che i bambini ebrei cresciuti in famiglie e comunità sioniste che hanno insegnato loro esplicitamente o implicitamente che gli ebrei in Israele hanno diritti superiori ai palestinesi vengono discriminati perché le loro sconsiderate idee di supremazia ebraica non si adattano a un movimento pro-palestinese basato sull’uguaglianza.
Questo è assurdo come sarebbe stato, durante l’era di Jim Crow, che i suprematisti bianchi americani si lamentassero del razzismo perché i loro figli venivano fatti sentire fuori posto nei forum sui diritti civili.
Tali affermazioni sarebbero ridicole se non fossero così pericolose.
Demonizzati come antisemiti
I sostenitori sionisti di Israele stanno cercando di capovolgere la logica e il mondo. Stanno invertendo la realtà. Stanno proiettando le proprie assurde ipotesi razziste su Israele sugli attivisti della solidarietà palestinese, coloro che sostengono la parità di diritti per ebrei e palestinesi in Medio Oriente.
Come hanno fatto con la definizione dell’IHRA (Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto), questi gruppi ebraici stanno distorcendo il significato di antisemitismo, spostandolo dalla paura o dall’odio per gli ebrei a qualsiasi critica nei confronti di Israele che infastidisca gli ebrei filo-israeliani.
Mentre assistiamo all’amplificazione acritica di questi argomenti da parte di importanti politici e giornalisti, ricordiamo anche che è stato l’unico grande politico a scostarsi da questa narrativa priva di senso, Jeremy Corbyn, che divenne il principale bersaglio, e vittima, di queste calunnie di antisemitismo.
Ora questi gruppi ebraici filo-israeliani vogliono trattarci tutti come Corbyn, demonizzandoci come antisemiti a meno che non tacciamo anche se Israele ancora una volta brutalizza i palestinesi.
Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
I rabbini riscrivono la Bibbia Abramo e Mosè forse non esistono
Abramo, il patriarca ebreo, probabilmente non è mai esistito. E neppure Mosè. L’ intera storia dell’ Esodo, come viene raccontata nella Bibbia, quasi sicuramente non avvenne. La stessa cosa vale per il crollo delle mura di Gerico. Anche Davide, invece di essere l’ impavido re che trasformò Gerusalemme in una potente capitale, è molto più probabile che fosse un capo di provincia, la cui fama fu esagerata molti anni dopo per dare un nucleo di convergenza a una nazione agli albori della sua storia. Queste sbalorditive affermazioni, risultato di scoperte effettuate dagli archeologi che hanno scavato in Israele e dintorni negli ultimi 25 anni, sono condivise anche dai rabbini non ortodossi. Ma finora non c’ è era stato nessun tentativo di diffondere queste idee o di discuterne con i laici. Ora invece la “United Synagogue of Conservative Judaism”, che rappresenta un milione e mezzo di ebrei tradizionalisti degli Stati Uniti, ha appena pubblicato una nuova Torah commentata, la prima per i tradizionalisti in oltre 60 anni. Intitolata “Etz Hayim” (“L’ albero della Vita” in ebraico), il libro offre un’ interpretazione dei testi sacri che tiene conto delle più recenti scoperte archeologiche, filologiche, e antropologiche, e degli studi sulle culture antiche. Nelle intenzioni degli autori che hanno lavorato alla sua compilazione, il libro rappresenta uno dei più considerevoli sforzi mai effettuati per introdurre in ambito religioso il concetto di Bibbia prodotta dell’ uomo invece che documento divino. Accanto al normale testo in ebraico, c’ è in parallelo la traduzione in inglese (a cura dello scrittore Chaim Potok). Inoltre ci sono un’ esegesi pagina per pagina, note esplicative sulle usanze ebraiche e, alla fine, 41 saggi di eminenti rabbini e studiosi su argomenti vari, che vanno dai manoscritti della Torah alle prescrizioni alimentari, dall’ ecologia all’ escatologia. Questi saggi, letti durante le prediche nelle funzioni del Sabbath, senza alcun dubbio coglieranno di sorpresa molti fedeli. Per esempio, il saggio sulla “Mitologia nell’ antico Medio Oriente” di Robert Wexler, rettore dell’ University of Judaism di Los Angeles, riporta che sulla base dei moderni studi, sembra improbabile che la storia della Genesi si svolse realmente in Palestina. Più probabilmente, continua Wexler, ebbe luogo in Mesopotamia, l’ influenza della quale è molto evidente nel racconto del Diluvio Universale. Quest’ ultimo probabilmente non fu altro se non un’ eccezionale piena dei periodici allagamenti creati dal Tigri e dall’ Eufrate. E per quanto riguarda Noè, il racconto dovette ispirarsi all’ epica di Gilgamesh in Mesopotamia. Altrettanto stupefacente sarà per molti leggere il saggio “Archeologia Biblica”, del professor Lee Levine presso la Hebrew University di Gerusalemme. «Nella storia egiziana non esiste riferimento alcuno a un soggiorno del popolo di Israele nel loro paese. Le scarne testimonianze sono del tutto trascurabili e indirette». Queste ultime, come per esempio la diffusione di nomi ebraici, «sono lungi dal rappresentare un’ adeguata conferma del racconto biblico». Altrettanto ambigua, scrive Levine, è la testimonianza della conquista e dell’ insediamento di Caana, l’ antico nome con il quale si designava l’ area comprendente Israele. Gli scavi archeologici, che hanno provato senza ombra di dubbio che la città di Gerico non era circondata di mura ed era disabitata, «chiaramente sembrano contraddire la violenta e totale conquista raccontata nel Libro di Giosué. Ma quello che più conta è che siamo in assenza di prove archeologiche» che confermino le grandiosi descrizioni bibliche della città di Davide e di Salomone. Il concetto che il contenuto della Bibbia non sia vero e non vada preso in senso letterale «è più o meno chiaro e condiviso dalla maggior parte dei rabbini tradizionalisti», ha osservato David Wolpe, un rabbino del “Sinai Temple” di Los Angeles e uno dei collaboratori di “Etz Hayim”. «Ma alcuni fedeli potrebbero non voler conoscere la realtà nuda e cruda che ne deriva», ha proseguito. La scorsa Pasqua ebraica, durante una predica agli oltre duemila fedeli riuniti nella sua sinagoga, Wolpe disse molto esplicitamente che «quasi tutti gli archeologi moderni concordano sul fatto che il modo in cui la Bibbia descrive l’ Esodo non è il modo in cui si verificò. Se davvero si verificò». Il rabbino fornì quella che egli definisce «la litania delle disillusioni» sulle discrepanze narrative e cronologiche, le contraddizioni, le improbabilità, e infine sull’ assenza di testimonianze certe. Inoltre, aggiunse che «scavando nella penisola del Sinai gli archeologi non avevano trovato alcuna traccia delle tribù di Israele, nemmeno un coccio di vasellame». Tra i fedeli la reazione al suo sermone andò dall’ ammirazione per il suo coraggio, allo sgomento, alla vera e propria rabbia per la sua spudoratezza. Pubblicato su una rivista ebraica diffusa in tutto il mondo, il suo lungo discorso gli attirò una valanga di lettere che lo accusavano di minare i più fondamentali precetti dell’ ebraismo. Ma ricevette anche molti messaggi a favore. «Un’ infinità di rabbini mi ha telefonato, mandato email e mi ha scritto dicendomi: “Dio ti benedica per aver detto quello che tutti noi crediamo”», ha detto Wolpe. Che attribuisce l’ “esplosione” provocata dal suo sermone alla riluttanza dei rabbini a dire ciò che realmente pensano. (Copyright New York Times – la Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti)
Israele, l’apartheid digitale che controlla e silenzia i palestinesi – Nadim Nashif
[Traduzione a cura di Gaia Bugamelli dell’articolo originale pubblicato su openDemocracy]
Negli ultimi giorni, Instagram, Facebook e Twitter sono stati oggetto di pressanti critiche, accusati di aver rimosso centinaia di account e post che documentavano le manifestazioni di protesta avvenute nel quartiere di Sheikh Jarrah, dove 8 famiglie palestinesi sono state minacciate di sfratto, e nei pressi della moschea di al-Aqsa, dove l’8 maggio le forze armate israeliane hanno aperto il fuoco sui musulmani in preghiera.
Storie e post che riportavano l’hashtag #SaveSheikhJarrah sono stati cancellati, e account che documentavano dal vivo con foto e immagini quello che stava accadendo sono stati sospesi. In seguito, Instagram ha dichiarato che il contenuto era stato rimosso a causa di un diffuso problema tecnico.
Nonostante ciò, noi di 7amleh, l’Arab Center for Social Media Advancement, consideriamo queste censure come parte di un più ampio tentativo, ormai di lunga data, di silenziare i palestinesi online.
Sono specifici input impartiti al sistema algoritmico di questi social che individuano “contenuti inappropriati”, nonché la mancata trasparenza nelle politiche di moderazione dei contenuti di queste piattaforme, a permettere questa censura di massa indiscriminata. A ciò va aggiungendosi il fatto che spesso e volentieri gli algoritmi di questi network tendono a decontestualizzare i contenuti in arabo che interpretano, e ciò non fa che potenziare il sistema di silenziamento, dal momento che ancora molti contenuti vengono rimossi senza che vi sia alcun presupposto legittimo.
Tali episodi esemplificano gli ostacoli con cui i palestinesi devono fare i conti nell’universo digitale, e non possono essere considerati separatamente dal più ampio contesto di apartheid imposto da Israele. Anzi, spesso sono proprio queste difficoltà a riflettere il sistema di discriminazione e confinamento di cui sono vittime i palestinesi.
Recentemente, diverse organizzazioni israeliane e internazionali per i diritti umani, in particolare Human Rights Watch, hanno pubblicato rapporti che confermano come quello istituito da Israele possa essere definito un sistema di apartheid secondo tutti gli standard riconosciuti. Si tratta, di fatto, di quello che molte organizzazioni palestinesi sostengono da anni ormai, trattandosi di un sistema di oppressione che presuppone il dominio di un gruppo di persone su altre che vengono ripetutamente discriminate e nei confronti delle quali continuano a verificarsi atti inumani.
È da anni che le organizzazioni palestinesi per i diritti umani documentano e denunciano queste violazioni, sia a livello locale che internazionale. Da oltre 70 anni, i palestinesi sono soggetti alle più atroci violazioni dei loro diritti, tra cui la privazione del diritto alla libertà di movimento e del diritto all’istruzione, nonché la demolizione delle proprie case e l’imprigionamento di oltre 1 milione di palestinesi nell’arco di 40 anni, tra cui donne e bambini.
Apartheid digitale
Nell’era digitale, le relazioni di potere esistenti non possono che riflettersi anche online. Ciò si verifica in tre diversi modi, il primo dei quali riguarda il controllo da parte di Israele delle infrastrutture del sistema di telecomunicazione palestinese. Dal 1967, e nonostante gli accordi di Oslo e di Parigi, Israele impedisce al settore delle telecomunicazioni palestinese di controllare autonomamente le proprie infrastrutture, ostacolandone lo sviluppo in modo sistematico. Tutto ciò comporta la scarsa qualità e l’alto costo dei servizi di telecomunicazione disponibili oggi in Palestina.
Così, mentre il mondo va convertendosi al 5G, i palestinesi nella West Bank rimangono vincolati al 3G, mentre quelli nella striscia di Gaza devono accontentarsi di una connessione 2G. Questo perché l’Autorità palestinese dipende completamente dall’approvazione di Israele per importare certi pezzi e attrezzature dall’estero, approvazione che non viene quasi mai concessa. Allo stesso modo, erigere una torre cellulare o installare attrezzature sul terreno richiede l’autorizzazione di Israele. Come se ciò non bastasse, tutte le fibre e le linee di comunicazione in Palestina sono collegate all’infrastruttura esistente in Israele da cui dipendono.
Anche i cittadini palestinesi di Israele non hanno uguale accesso ai servizi e alle infrastrutture online. I villaggi beduini non riconosciuti nel Negev non hanno alcuna rete internet o elettrica, mentre il resto della comunità palestinese in Israele risente di un’infrastruttura di comunicazione meno sviluppata rispetto a quella dei villaggi e delle città a maggioranza ebraica.
Silenziamento e censura
Un’altra strategia adottata da Israele per limitare la libertà di espressione dei palestinesi e di molti attivisti per i diritti umani consiste nel censurare i contenuti e le narrazioni palestinesi online: una tattica complementare alla criminalizzazione e diffamazione di coloro che sostengono la causa palestinese. Ciò viene reso possibile dalla costante implementazione di leggi civili e ordini militari, che Israele mira a consolidare con una nuova legislazione alla quale sta attualmente lavorando.
A partire dal 2015, Israele ha arrestato centinaia di palestinesi ogni anno per motivi legati alla libertà di espressione, adottando definizioni vaghe di incitamento all’odio e violenza, servendosi di queste accuse per reprimere chiunque violi le politiche dell’occupazione o ne chieda la fine.
Non è un mistero che Israele si coordini anche con organizzazioni esterne per diffondere disinformazione online, dispiegando troll e bot che lavorano sistematicamente per censurare i palestinesi online attraverso la segnalazione coordinata e indiscriminata di post che includono contenuti palestinesi, senza nemmeno leggerli. Ciò fa luce sui diversi modi in cui Governi autoritari e repressivi investono le proprie risorse nell’assoldare un numero spropositato di persone per corrompere i sistemi di segnalazione online con lo scopo di beneficiarne.
Ciò che spaventa davvero però, è la tacita cooperazione delle grandi piattaforme di social media, nonché la loro collaborazione con il Governo israeliano nella rimozione di decine di migliaia di post palestinesi in risposta alle denunce della Cyber Unit israeliana. In molti casi infatti, Facebook elimina post e contenuti su richiesta della Cyber Unit israeliana, senza ordini del tribunale, il che lascia i palestinesi incapaci di appellarsi alla decisione. Come se non bastasse, il ministero israeliano degli Affari Strategici collabora con istituzioni quasi-governative finanziate per mezzo di campagne che screditano i sostenitori palestinesi e le istituzioni per i diritti umani, e che diffondono notizie inesatte e fuorvianti su Internet, soprattutto su siti come Wikipedia.
Sorveglianza
Negli ultimi anni, è diventato evidente come l’apparato di sicurezza israeliano abbia trasformato i palestinesi e i territori occupati in un grande esperimento per le industrie di sorveglianza e le unità militari digitali. L’intelligence militare è stata anche utilizzata per sviluppare le industrie israeliane di high-tech, esportando la produzione e la vendita di tecnologie di sorveglianza e spionaggio militari in tutto il mondo – anche in altri regimi repressivi. Nello sviluppare queste tecnologie e nel testarle sui palestinesi, Israele non solo rafforza il suo controllo sulla Palestina ma permette allo Stato e al settore privato di trarre profitto da questo controllo illegale.
Sia a Gerusalemme Est che nella West Bank sono migliaia le fotocamere con tecnologia di riconoscimento facciale. Recente lo scandalo sulla collaborazione tra Microsoft e AnyVision, una società che fornisce fotocamere all’esercito israeliano. A seguito delle pressioni della società civile, Microsoft ha ritirato il suo investimento nella società. Nel 2016, numerosi furono i rapporti che testimoniavano lo sviluppo di software e algoritmi atti a controllare gli account dei palestinesi sui social media, nonché alla sorveglianza predittiva dei giovani.
Si tratta di episodi esemplificativi dell’abuso di potere che Israele esercita sui palestinesi, un’oppressione che si esplica attraverso il controllo delle infrastrutture e orientata a inasprire il divario tra le parti. L’apartheid israeliano si rende evidente nel cyberspace, dove il regime perpetua continui attacchi alla libertà di pensiero palestinese, arresti illegali a chi organizza campagne di mobilitazione, e atti inumani che consistono nello spionaggio costante degli utenti palestinesi, in ultima analisi privandoli del proprio diritto alla privacy.
Purtroppo, tutte queste tattiche vengono esportate da Israele e dalle società israeliane anche in altri Paesi dove vigono regimi autoritari che opprimono il loro stesso popolo oppure occupano altri territori. Date le strette relazioni tra i giganti della tecnologia, orientati esclusivamente al profitto, e i regimi repressivi il cui obiettivo principale è l’espansione del proprio controllo, le conseguenze potrebbero essere disastrose sia per i diritti umani che per quelli digitali nello specifico.
Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è, dunque, l’istituzione di standard internazionali che regolino, chiariscano e garantiscano i diritti umani: trattati che vincolino nello stesso modo i Governi e le corporation. Si tratta di un passaggio cruciale nell’ottica di garantire uno spazio virtuale libero, giusto e sicuro, per i palestinesi e per tutti i popoli oppressi nel mondo.
1948 – Documentario di Mohammad Bakri
Mentre Jenin, Jenin è il film che ha dato a Bakri la notorietà, non è stato né il primo né l’ultimo documentario che abbia diretto. Pensato per coincidere con il cinquantesimo anniversario della Nakba, il suo esordio come regista, 1948, ha portato sullo schermo memorie che, altrimenti, non erano ancora state registrate dal cinema.
Se, da un lato, la Nakba esiste all’ombra della maggior parte dei film palestinesi, è stata però raramente rappresentata in modo così diretto. Il nucleo di 1948 sono le sue interviste con i sopravvissuti della Nakba, inclusa gente scappata al massacro di Deir Yassin e al-Dawayima e profughi di villaggi distrutti come Saffuriya.
La prima intervista del film è quella ad un’anziana donna, una sopravvissuta di Deir Yassin. Di fronte alla cinepresa, la donna canta una lamentazione, mentre una bandiera israeliana, ironicamente, sventola dietro di lei.
Assieme ai sopravvissuti della Nakba, 1948 presenta anche foto d’archivio, interviste con famosi autori palestinesi (il poeta Taha Muhammad Ali e la scrittrice Liana Badr) e scene dal monologo di Bakri, il Pessoptimist (basato su un romanzo di Emile Habibi)
In occasione della Nakba – che commemora la pulizia etnica della maggior parte degli abitanti arabi della Palestina nel 1948 ad opera delle forze di occupazione sionista – proponiamo questo appuntamento cinematografico soprattutto nel momento in cui la popolazione palestinese sta resistendo all’attacco israeliano.
Il film è sottotitolato in italiano grazie al lavoro dell’associazione Ibriq
* da qui
Ciao, complimenti per questo documento.
Pensate che si potrebbe pubblicare sotto forma di un opuscolo?
è pubblicato e pubblico, potete usarlo, citarlo, riprenderlo, se volete, mettete i link, per noi va bene.
FC Barcelona non ci andrà. Scrivi ora all’Inter perché annulli la partita in Israele:
https://bdsitalia.org/index.php/agisci/newsletter-bds-italia/mailid-142?key=LMnTlAiX&subid=20970-jaVvkP2ZktX8eK&tmpl=component