Se ti fai prete, ti pago la pensione (e se “ti spreti”, pure)
di Pietro Ratto (*)
Come funziona esattamente quel Fondo per il Clero a proposito del quale in questi giorni (moderatamente, per carità) si discute? Quando è nato e con quali “privilegi”? E, soprattutto, quali sono gli effettivi costi per il nostro “laico” Stato?
Ebbene sì, dal 1961 i contribuenti italiani pagano ai sacerdoti anche la pensione di invalidità e di anzianità. E ciò, nonostante la vecchia congrua e il successivo, diabolico meccanismo dell’8 per mille1. Non tutti sanno infatti che da quella data, e fino a tutto il 1973, il fondo per i sacerdoti cattolici e quello per i religiosi di altre confessioni erano attivi e ben distinti, istituiti da due diverse leggi: la 579 e la 580, entrambe del 5 luglio 1961. Tali fondi vennero unificati con la legge 903 del 22 12.1973.
La legge 579 del 1961 prevedeva che i requisiti per poter accedere alla pensione di anzianità fossero un minimo di dieci anni di contributi (180 mila lire all’anno, mentre per l’invalidità ne bastavano 30.320) ed il raggiungimento dei 70 anni di età. Il sacerdote iscritto al fondo che, però, compiva settant’anni prima del decennio di contributi (e prima del quinquennio, per la pensione di invalidità), poteva comunque ottenere una minima di 180 mila lire annue. La pensione era costituita da un assegno di 180 mila lire all’anno più altre 12 mila per ogni anno di contribuzione oltre il decimo. La cifra massima prevista era di lire 480 mila annue (tanto per intenderci, lo stipendio mensile medio di un operaio era a quel tempo di circa 45 mila lire). La legge stabiliva che lo Stato concorresse al Fondo con complessivi 1 miliardo e 250 milioni di lire annui.
La legge 580 del 1961, destinata ai sacerdoti non cattolici, prevedeva le stesse condizioni, a parte una drastica riduzione del contributo dello Stato al fondo, previsto in complessivi 12 milioni e mezzo. Esattamente un centesimo di quanto stanziato per il clero cattolico. La solita disparità alquanto imbarazzante per uno Stato che si definiva aconfessionale.
La legge 903 del 1973, invece, unificava le condizioni per i due tipi di clero e abbassava l’età pensionabile a 65 anni. Aumentava il contributo annuale a quota 416 mila lire per l’anzianità e a quota 75.600 lire per l’invalidità, riconoscendo quest’ultima con un minimo di cinque anni di contribuzione e mantenendo l’obbligo dei dieci contributi per la pensione di anzianità. Prevedeva una “minima” di anzianità di 416 mila lire – e di invalidità di 455 mila lire – annue.
La pensione era costituita da un assegno di 455 mila lire all’anno (per l’invalidità) e di lire 416 mila annue (per l’anzianità), più altre 18.200 lire per ogni anno di contribuzione oltre il decimo, in entrambi i casi. Non erano previste soglie massime (e, sempre per capirci, teniamo conto che lo stipendio mensile medio di un operaio era a quel tempo di circa 150 mila lire). La legge stabiliva che lo Stato concorresse al Fondo con complessivi 3 miliardi e 224,5 milioni di lire annui. Ma le vere novità riguardavano la reversibilità, riconosciuta ai “superstiti” (?), e il versamento delle suddette pensioni anche ai sacerdoti ridotti allo stato laicale.
La legge 488 del 23.12.1999, poi, integrava di ulteriori 800 mila lire i contributi annuali e prevedeva per la pensione di vecchiaia un minimo di 20 anni di contributi e il raggiungimento dei 68 anni di età (65 anni per i sacerdoti che vantassero 40 o più contributi annuali). Estendeva il fondo a sacerdoti senza cittadinanza italiana presenti in Italia al servizio di diocesi del nostro Paese. Stabiliva infine che, dal 1 gennaio 2000, tale fondo fosse ordinato con il sistema tecnico-finanziario a ripartizione.
Con Decreto 28 luglio 2014 il Governo ha recentemente fissato ad euro 1699,92 il contributo annuale dovuto dai sacerdoti.
Che dire ancora? La gestione, dal 1961 ad oggi, è sempre stata in crescente passivo. Attualmente (dati 2015), lo squilibrio tra i contributi versati e le prestazioni riconosciute dallo Stato è di 1 a 3. Il disavanzo attuale, a carico dello Stato, è di circa 2,2 miliardi di euro nonostante i 7 milioni e 924 mila euro che i fondi pubblici iniettano annualmente nel Fondo.
Il Ministro del Lavoro Poletti, in questi giorni, ha ammesso il “buco”.
Sostenendo però di non voler apporre alcuna modifica a questa situazione “tutta all’italiana”.
1 Cfr. P. Ratto, Una Chiesa a tutti i costi: il meccanismo dell’8 per mille, su IN-CONTRO/STORIA
(*) Liberamente tratto da P. Ratto, Una Chiesa a tutti i costi – Il Fondo Pensione per il Clero, un buco da 2,2 miliardi di euro, IN-CONTRO/STORIA, 20 marzo 2016