«Senza Chiesa e senza Dio»
«Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano»: intervista di Pietro Tavernari a Brunetto Salvarani (*)
Professor Salvarani, lei è autore del libro Senza Chiesa e senza Dio. Presente e futuro dell’Occidente post-cristiano, edito da Laterza: il cristianesimo sta per morire?
La domanda, innanzitutto, è legittima. Forse mai come oggi, guardando i duemila anni di storia del cristianesimo: anche se non sono mancati di certo momenti gravi e segnati da estreme difficoltà. Attualmente, la sensazione generale è che quello che era un paesaggio religioso conosciuto e abitato per secoli abbia negli ultimi decenni subìto dei mutamenti così sensibili, al punto da divenire irriconoscibile. Il punto di partenza di qualsiasi ipotesi sul futuro delle chiese è così, inevitabilmente, la constatazione acclarata della fine di un mondo. Del mondo cattolico, perlomeno, nonché della cristianità che ebbe origine nel quarto secolo, in conseguenza delle scelte politiche dell’imperatore Costantino (e poi Teodosio) e dei grandi concili dogmatici, da Nicea (325) a Costantinopoli (381). Certo, non esiste una data precisa per un simile evento (che infatti non è un evento, bensì un processo che ha registrato più tappe lungo i secoli, ma soprattutto lo sfrangiamento progressivo di un universo di senso). Sta di fatto che oggi quel microcosmo compatto e all’apparenza inscalfibile, capace di imporre in un territorio assai vasto, per secoli, il proprio sguardo sicuro sulla realtà sociale e sul dopo-vita, nonché di tener testa fieramente ai ripetuti attacchi dei suoi nemici di turno – atei, laicisti, materialisti, e via dicendo – ma anche di superare senza fiatare ogni refolo di contestazione interna – cosiddetti eretici, modernisti, reazionari, cristiani del dissenso, anticonciliari e via dicendo – non esiste più. Si è dissolto nel vento, o sta ormai per dissolversi, e a nulla valgono le (sempre più flebili, a mio parere) nostalgie dei sopravvissuti, i rimpianti amari del bel tempo che fu, i richiami a una mitica età aurea, a “quando le cattedrali erano bianche” e il popolo delle città europee si ingegnava con ogni mezzo a coinvolgere architetti, artisti e maestranze varie per costruire chiese ed edicole, santuari, conventi e monasteri che segnassero il territorio. Uno scenario, in ogni caso, consegnato alla storia. Si badi, non si tratta – per chi voglia darsi da fare per ricostruire dalle macerie – di ripartire da zero, ma di rendersi conto, in primo luogo, che non c’è solo da rimboccarsi le maniche, ma anche e soprattutto il pensiero. Per capire cosa sia successo, nonché come e perché è successo.
Che forme assume la religiosità contemporanea?
Diversamente rispetto a un passato recente, oggi, persino una rapida istantanea sulle varie credenze non può che fotografarle come un processo in costante divenire: ed è possibile senza problema alcuno scegliere di essere atei o agnostici, seguire un’ortodossia religiosa, cambiare confessione, ritagliarsi un proprio specifico percorso all’interno delle religioni. Tutto ci appare più frastagliato e fluido, meno assodato e assertivo, e i credenti rimasti, in genere, si sentono più liberi, pur se meno sicuri della bontà della loro direzione spirituale. Mentre le grandi istituzioni religiose appaiono più vulnerabili, la ventilata assolutezza del messaggio religioso viene di regola messa in discussione della pluralità delle scelte possibili che ci troviamo davanti. Il mosaico della fede si sta complicando giorno dopo giorno, creando perplessità, dubbi e solo talvolta anche speranze di un mondo più armonico. Peraltro, è curioso, se misuriamo il peso specifico del religioso nelle nostre società, riandare alla stagione – era appena il tornante fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento – in cui campeggiavano senza se e senza ma nella cultura occidentale le teorie sociologiche della secolarizzazione, accompagnate appunto da quelle, sul versante teologico, della cosiddetta morte di Dio. Che prendevano le mosse da due principali constatazioni: a monte, la sempre minore incidenza, un dato oggettivo, del cristianesimo nelle sue varie declinazioni sulla società, sulla politica, persino sul vissuto quotidiano dei fedeli; e a valle, l’ipotesi che anche le religioni altre – di cui ancora poco si sapeva e ritenute non di rado un relitto del passato di stampo medievale – erano destinate a scomparire, prima o poi, e comunque quando fossero venute a contatto con la modernità nei suoi aspetti più dinamici, l’avanzare impetuoso della scienza e la tecnologia su tutti. Senza dimenticare che le teorie della secolarizzazione incorporavano almeno tre significati, prossimi ma distinti: il declino della religione tout-court; la crescente differenziazione fra le cosiddette sfere del sacro e del profano; e infine, la privatizzazione del rapporto con la fede.
Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti, fino a renderci consapevoli che, a dispetto dell’ormai avvenuta secolarizzazione di costumi e stili di vita, la postmodernità in cui siamo immersi è ancora chiamata a fare i conti con le religioni. Spesso, purtroppo, a caro prezzo. Tanto che ormai appare legittimo – e, per quel che mi riguarda, doveroso – riprendere in mano l’interrogativo del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, il quale, dal carcere nazista in cui fu rinchiuso dal 1943 al 1945, si domandava per nulla retoricamente se sia possibile vivere, dopo duemila anni della sua storia, il cristianesimo “etsi Deus non daretur”. Fino a immaginare un “cristianesimo non religioso”.
Ottant’anni dopo, stiamo appurando che è perfettamente possibile vivere “come se Dio non ci fosse”, come capita oggi alla maggioranza dei cittadini europei, i quali in qualche misura ancora si dicono sì cristiani – qualunque cosa ciò significhi per loro – ma che alla questione di cosa o chi sia Dio, o ai dubbi relativi alla sua esistenza o alla sua inesistenza, non dedicano alcun interesse. Senza problemi, rimpianti o rimorsi. Perché un gran numero di persone, in concreto, ha smesso di credere in Dio e le chiese non sembrano più in grado di affrontare tale situazione, di testimoniare e comunicare la buona notizia di Dio. Si tratta di un disincanto diffuso, rispetto a un discorso che è stato – e per certi versi è ancora – troppo sicuro di sé… Johann Baptist Metz, uno dei maggiori teologi del postconcilio ideatore fra l’altro della teologia politica, pur ritenendo – naturalmente – la decadenza strutturale e la debolezza diffusa nella Chiesa una questione dirimente, ripetutamente sottolinea che ancor più rilevanza sta oggi acquisendo la crisi di Dio. Con un ulteriore paradosso: tale crisi non si manifesta facilmente, perché a sua volta essa si collega spesso a un’evidenza religiosa. Fino a far dire allo stesso Metz che si tratta di una crisi di Dio in un’epoca religiosamente entusiasta…
Che contorni assumono, nella religiosità contemporanea, la figura di Gesù e il ruolo della Bibbia?
E’ quanto cerco di descrivere, a tentoni, nel libro. Possiamo accettare con calma olimpica che la Bibbia sia ridotta a un libro assente nella cultura media di un cittadino italiano, e che una simile assenza ci impedisca di capire chi siamo stati, chi siamo, da dove veniamo e quali racconti hanno plasmato la sensibilità e le speranze di chi ci ha preceduto? Il che vale anche per la figura di Gesù: che è il cuore, sempre antico e sempre nuovo, di ogni riflessione teologica. Credo che la fede cristiana, oggi e domani, sia chiamata a fare i conti con il fatto che “Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1,18), né “contemplato” (1 Gv 4,12), e che è stato Gesù, con la sua carne (Gv 1,14) che lo ha raccontato (Gv 1,18) all’umanità. Ecco perché, qualunque cosa accada, qualsiasi cambiamento intervenga in un domani più o meno prossimo nella tormentata vicenda delle chiese, si può affermare con tranquillità che è da lui che occorrerà in ogni caso ripartire: dal significato da darsi ai gesti e ai racconti di quel giovane rabbi itinerante di Nazaret che – comunque la si pensi al riguardo – in una manciata di decenni ha scaravoltato la storia mondiale e inaugurato un inedito rapporto con il Dio di Israele e dei suoi padri. E però. Se lungo i secoli della cristianità la sua identità ha rappresentato un dato sicuro, una certezza indubitabile e uno spartiacque epocale (avanti e dopo Cristo, diciamo senza neppure pensare a cosa significhi), ora, che pure la sua storicità non è più messa in dubbio dagli storici seri, abbiamo fatto grandi progressi in funzione di una comprensione più realistica della sua figura, e sappiamo di lui molto più che in passato, quell’identità si è fatta paradossalmente più problematica, per certi versi un mistero e un interrogativo. È come se fosse tornata d’attualità la domanda non certo retorica che lui stesso, stando ai vangeli, avrebbe proposto ai suoi discepoli: “Ma voi chi dite che io sia?” (Mt 16,15; Mc 8,29; Lc 9,20). Così, non risulta strano il fatto che, negli ultimi decenni, abbiano avuto un notevole successo di pubblico romanzi e saggi tesi a indagarne la personalità e l’ambiente in cui viveva, ipotizzando non di rado una verità assai distante dalle narrazioni tradizionali. Fino a dar fiato a quanti ne mettono in dubbio non tanto l’esistenza storica, quanto la coerenza tra la sua azione e il successivo messaggio cristiano. Teorizzando, di volta in volta, l’aperto travisamento che sarebbe stato operato da Paolo di Tarso, o dalle gerarchie ecclesiali, o dall’abbraccio – necessario quanto rischioso – con il pensiero filosofico greco di stampo platonico avviato nei primi secoli dopo Cristo dai Padri della Chiesa, Giustino, Ireneo, Clemente, e così via…
Cosa resterà, della Chiesa di oggi, nei prossimi decenni?
Pur senza possedere la sfera di cristallo, nel libro – che ha l’ambizione di provocare un po’ di dibattito al riguardo – provo a tracciare qualche risposta, ponendomi nella prospettiva della Chiesa di domani, individuandone le tracce già nella situazione odierna. Da tempo mi domando cosa resterà, della Chiesa in frantumi di oggi, nei prossimi decenni e oltre… “Karl Rahner – disse il cardinal Martini nell’ultima sua intervista, nel 2012, al Corriere della sera – usava volentieri l’immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore?”
Ecco ciò che ho inteso esplorare in Senza Chiesa e senza Dio, nella convinzione che si diano due narrazioni fondamentali sul futuro delle chiese (adotto il plurale, non casualmente) e del cristianesimo: una, minoritaria, ottimista, e un’altra, largamente prevalente, pessimista. Secondo la prima, le chiese sarebbero destinate a emergere trionfanti dall’attuale palude stigia: contro ogni probabilità, esse proseguiranno ad adempiere il loro mandato divino di evangelizzare i loro contemporanei; stando all’altra, per contro, il loro declino è inevitabile, a gioco medio-lungo, e il cristianesimo – come ogni altra religione, si presume – è destinato a perdere influenza e a tirare i remi in barca, mestamente. Come ho già detto, per quanti si sentano coinvolti c’è da rimboccarsi le maniche ma ancor più il pensiero, perché da troppo tempo, come chiese, mi pare che abbiamo smesso di pensare. È un appello urgente pur se spesso dissimulato, davanti al quale è quasi naturale che ci si divida, anche all’interno delle comunità dei credenti: è stato così sempre, nella storia ecclesiale, ed è così nell’odierna stagione, nulla di strano!, purché il confronto non si traduca in divisioni preconcette e in un’acrimonia reciproca priva di pietas. Anche per questo, la partita è tutt’altro che chiusa. La posta in gioco, com’è facile intuire, è davvero alta (il che vale anche, ovvio, per l’odierno Cammino Sinodale della chiesa cattolica).
Quali conseguenze è destinata a produrre, per la società occidentale nel suo complesso, l’eclisse del cristianesimo?
Rispondo a partire da un dato: in realtà, nonostante tutto, l’abbandono delle pratiche e la cosiddetta crisi di Dio non stanno causando la scomparsa dei bisogni di senso, della consolazione e della ritualizzazione che costituivano il fondamento dell’antica domanda religiosa, anche se questi elementi si sono, in buona parte, trasformati e vengono reinvestiti altrove. Occorre prenderne atto, come fa Giuliano Zanchi scrivendo da Bergamo, epicentro italiano della pandemia: “Mai come in questi momenti si può aver consapevolezza di quanto le nostre parole religiose siano consumate, estenuate dall’abuso, depotenziate dal controllo: esse ora scivolano sulla realtà, in questi giorni così brulicante, come acqua su una tela cerata. Non ce siamo presi cura che per blindare la loro immutabilità. Ora non abbiamo che fossili verbali utili solo alla stratigrafia di un mondo scomparso”. Lo ribadisce un teologo ceco assai attento alle trasformazioni del cristianesimo, Tomàš Halík: “Forse è giunto il tempo di abbandonare molte di quelle parole pie che abbiamo continuamente sulle nostre bocche e sui nostri stendardi. Queste parole, a causa di un uso continuo, spesso troppo superficiale, sono consumate, usurate, hanno perso il loro significato e il loro peso, si sono svuotate, diventando leggere e facili. Altre invece sono sovraccariche, rigide e arrugginite; sono diventate troppo pesanti per riuscire a esprimere il messaggio del Vangelo, la buona novella”. Di fronte a questi scenari, dopo duemila anni, mi pare evidente che il cristianesimo, giunto ormai al suo inevitabile appassimento come sistema religioso, sia oggi convocato a radicarsi di nuovo nell’esigente logica della parola evangelica. Investire in formazione rimane l’unico modo possibile per preparare il futuro, per seminare futuro. E la formazione richiede inventiva, risorse economiche e mentali, lungimiranza, e la pazienza dei passi brevi nella coscienza dei tempi lunghi. Certo, nel futuro contesto sempre più secolarizzato e post-secolare, quel che resta del cristianesimo e dei cristiani – non solo in Occidente – si troverà verosimilmente a operare in uno spazio pubblico affollato di proposte etiche, morali, spirituali e teologiche variopinte, non di rado in contrasto fra loro e destinate a confrontarsi con il basso continuo della permanenza di atteggiamenti e stili di vita pienamente secolarizzati. Qui siamo, con le macerie del cristianesimo di ieri ancora fumanti. Ma non servono, e non serviranno, posture passatiste. E non serve a nulla, neppure stavolta, secondo l’immagine di Numeri 11,5, rimpiangere le cipolle egiziane…
(*) una versione leggermente diversa dell’intervista è apparsa su Letture.org
Mi sono chiesto più volte da chi sia stata coniata la definizione di “buona novella”. Pur consapevolmente che la radice è la stessa di “vangelo”, sospetto (nella mia ignoranza teologica) che nasca da quello si potrebbe definire il “paolianesimo”, cioè il travisamento pilotato da Paolo di Tarso che ha trasformato il messaggio empatico ma apocalittico di Gesù di Nazareth in religione.
Sull’evoluzione in corso della “corrente” definitasi “cattolica” e delle altre (molte delle quali finiscono per presentarsi come “sette”) mi ha colpito, qualche anno fa, una frase ascoltata da un sacerdote che conosco: “c’è troppa religione e troppo poca religiosità”