senza dimenticare i palestinesi della Striscia di Gaza e la Palestina
di Francesco Masala (*)
Le mille e una ragione per l’aggressione israeliana a Gaza – Angela Lano
Perché Israele continua a bombardare la Striscia di Gaza da ormai quasi due mesi? Perché nessuna la ferma?
Proviamo a elencare alcune ragioni…
1) controllo delle fonti energetiche (giacimenti di gas al largo delle coste gazawi) e finanziarie palestinesi da parte di Israele e della trasversale (a Occidente e Oriente) Israeli Lobby;
2) attacco al governo di unità nazionale e ai “negoziati di pace” con i sionisti, e al vago progetto di staterello palestinese bantustanizzato;
3) indebolimento di Hamas a favore dell’Anp del collaborazionista Abbas;
4) periodica riduzione demografica palestinese (pulizia etnica “controllata”);
5) distruzione del tessuto sociale gazawi: feriti resi disabili permanenti; malattie portate dall’uso di armi non convenzionali – tumori, leucemie, danni genetici e altro-; patologie psicologiche e psichiatriche da stress e shock post-traumatici; distruzione di scuole, università, moschee, centri sociali e sportivi – danni al settore educativo-accademico-sociale-sportivo-culturale;
6) utilizzo dello stoccaggio di armi rifornite dagli Usa e Europa e nuovi acquisti bellici (business bellico);
7) business israelo-arabo-occidentale delle miliardarie opere di ricostruzione;
8) destabilizzazione di Vicino e Medio Oriente – focolaio permanente di conflitti -, fitna intra-islamica;
9) Israele è nata da atti di terrorismo: è nella sua natura essere violenta e omicida;
10) ragioni politiche interne israeliane e del governo Netanyahu;
11) aspetto esoterico: il Male agisce sulla Terra, e si serve di robo-killer de-umanizzati ed emissari (e qui le fedi religiose e culture di appartenenza c’entrano ben poco), e per i progetti di cui sopra;
e 12), 13), 14)….
Il figlio della morte – Uri Avnery (razzi telecomandati?)
La guerra era finita. Le famiglie erano ritornate ai loro kibbutz presso Gaza. I parchi giochi erano di nuovo aperti. Un cessate-il-fuoco era stato siglato ed esteso più volte. Entrambi gli schieramenti erano allo sfinimento.
Ma improvvisamente ecco che la guerra riprende.
Cos’era successo? Hamas aveva lanciato alcuni missili su Bir Sheva nel bel mezzo della tregua. Perché? Beh, non c’è un motivo preciso. Lo sai come sono fatti i terroristi: sempre assetati di sangue. Non possono farci nulla, sono come scorpioni.
Forse però la questione non è così semplice.
I negoziati svoltisi al Cairo sembravano ormai prossimi al successo. Il problema era che Benjamin Netanyahu era finito nei guai: aveva infatti tenuto nascosti i dettagli dell’accordo persino ai membri del suo stesso gabinetto, che infatti ne vennero a conoscenza solamente attraverso i media, i quali a loro volta li avevano ottenuti da fonti palestinesi.
L’accordo stabiliva che l’assedio di Gaza venisse notevolmente ridimensionato, anche se non ufficialmente smantellato. Entro un mese era inoltre previsto l’inizio di nuovi negoziati riguardo la costruzione di un porto e di un aeroporto.
Che cosa? Come era possibile che Israele si ritirasse in quel modo dopo tutte le battaglie combattute, i 64 soldati rimasti uccisi, dopo tutti quei discorsi altisonanti sull’ormai prossimo trionfo? Beh, chiaro che Netanyahu abbia cercato di tenere nascosto il documento.
La delegazione israeliana è stata quindi richiamata in patria senza che l’accordo venisse siglato. Agli esasperati mediatori egiziani non rimase altro che un prolungamento di 24 ore del cessate-il-fuoco che avrebbe dunque dovuto terminare a mezzanotte di martedì. Nonostante ciò, l’auspicio di entrambi gli schieramenti era che la tregua venisse comunque prolungata ad oltranza. Ma non avvenne.
Verso le sedici tre missili vennero lanciati su Bir Sheva, esplodendo in zone aperte senza che le sirene anti-bombardamento avvertissero della minaccia.
La cosa curiosa è che Hamas, così come ogni altra organizzazione palestinese, abbia negato di aver lanciato tali razzi. C’era evidentemente qualcosa di strano in tutto quello che era avvenuto, anche perché in occasione di tutti i precedenti lanci di missili, le organizzazioni palestinesi avevano sempre, ed orgogliosamente, rivendicato le proprie responsabilità.
Come da prassi, i caccia israeliani sono prontamente decollati per andare a bombardare edifici nella Striscia di Gaza, scatenando la prevedibile controffensiva missilistica avversaria (ho avuto notizia dell’intercettazione di alcuni razzi lanciati su Tel Aviv).
La solita storia? Non proprio.
Innanzitutto è trapelato che un’ora prima che i presunti tre razzi palestinesi esplodessero a Bir Sheva, la popolazione israeliana residente a ridosso della Striscia era stata avvertita affinché si recasse presso i propri rifugi e “zone di sicurezza”.
Poi si è venuto a sapere che la prima abitazione colpita dalla rappresaglia israeliana era quella in cui viveva la famiglia di un comandante di Hamas. Tre persone sono rimaste uccise: fra esse una madre con il suo bambino.
Poco dopo ecco la conferma: si trattava della famiglia di Mohammed Deif, comandante delle brigate Izz al-Din al-Qassam, braccio armato di Hamas (Qassam era un eroe palestinese, il primo a ribellarsi al potere britannico in Palestina negli anni trenta. Dopo essere stato catturato, fu ucciso dalle forze inglesi). Il bambino e la madre prima citati risultarono proprio essere il figlio e la moglie di Deif, il quale pare non fosse in casa al momento dell’attacco.
Deif è già scampato ad almeno quattro attentati a causa dei quali ha perduto un occhio ed alcuni arti. Moltissimi suoi pari e subordinati, nel corso degli anni, non sono invece riusciti a sfuggire alla morte.
Le vicissitudini da lui affrontate hanno fatto della sua vita una sorta di leggenda, guadagnandogli però al contempo il vertice nella lista nera israeliana. A Tel Aviv egli è il principale “figlio della morte”, un appellativo biblico utilizzato per indicare gli assassini.
Così come molti abitanti della Striscia di Gaza, Deif è figlio di rifugiati da Israele. La sua famiglia è originaria del villaggio di Kawkaba , oggi in territorio israeliano, non distante dalla città di Gaza. Io ebbi modo di camminare per le vie di quel villaggio durante la guerra del 1948, prima che venisse raso al suolo.
Per i servizi di sicurezza israeliani Deif è un motivo sufficiente anche per interrompere una tregua e riprendere le ostilità.
Per molti servizi di sicurezza del mondo, compresi quelli russi e americani, l’omicidio è uno sport ed una forma d’arte.
A quanto pare, Israele sta puntando alla medaglia d’oro.
Commettere un omicidio è tutt’altro che semplice: richiede tempo, esperienza, pazienza e fortuna. L’assassino deve assoldare informatori che stiano a contatto con la vittima, deve essere in grado di installare appositi dispositivi elettronici, deve sempre avere accesso ai dettagli di ogni movimento dell’obiettivo ed infine deve essere all’altezza di portare a termine l’operazione in pochissimi minuti quando si presenta l’occasione giusta.
A causa di ciò spesso non c’è tempo per conferme dall’alto. E’ possibile che i servizi segreti israeliani (chiamati Shin Bet) abbiano avuto l’avallo di Netanyahu (in linea teorica il loro diretto ed unico referente) così come è possibile il contrario.
E’ certo che il Shin Bet fosse stato informato che Deif avrebbe fatto visita alla sua famiglia: un’occasione da non perdere. Per mesi o forse persino per anni Deif è stato costretto a vivere letteralmente sepolto, nascosto nella rete di tunnel che i suoi uomini hanno scavato sotto la Striscia.
Dall’inizio dell’ultimo conflitto anche tutti gli altri leader di Hamas si sono rifugiati sotto terra senza mai più riemergere, scelta quanto mai opportuna considerato l’assoluto dominio israeliano dei cieli e l’assenza di armamenti anti-aerei nelle disponibilità di Hamas.
Sembra alquanto improbabile che Deif abbia potuto prendersi un rischio simile solo per fare visita alla propria famiglia ma evidentemente lo Shin Bet ha ritenuto valida la soffiata e quei tre missili esplosi a Bir Sheva hanno fornito il pretesto per la ripresa delle ostilità.
I veri appassionati dell’arte di uccidere non si preoccupano molto delle conseguenze politiche o militari che possono scaturire dalle loro azioni. Del resto è famoso il detto: “arte per il piacere di fare arte”.
E’ curioso notare come anche la guerra di due anni fa venne scatenata in circostanze estremamente simili. L’esercito israeliano, infatti, aveva assassinato il (di-fatto) comandante delle brigate al-Qassam Ahmed Jaabari. I centinaia di morti causati dal conflitto che ne derivò furono solo un effetto collaterale. All’epoca Jaabari stava sostituendo proprio Deif, in convalescenza al Cairo.
Tutto questo chiaramente apparve fin troppo complicato agli occhi dell’Europa e degli Stati Uniti: è noto infatti che essi prediligano storie molto più lineari. In effetti la Casa Bianca reagì prontamente, affrettandosi a condannare Hamas per il lancio di missili e rivendicando il diritto di Tel Aviv alla propria autodifesa. I mezzi di comunicazione occidentali sostennero tale versione.
Dal punto di vista di Netanyahu, l’esplosione del conflitto rappresentò la soluzione di un angoscioso dilemma personale, indipendentemente dal fatto che sapesse o meno del tentativo di assassinio perpetrato dai suoi servizi segreti. Chi scatena una guerra, infatti, finisce quasi sempre per non sapere come uscirne.
In tempo di guerra i leader sono soliti declamare grandiosi discorsi che promettono vittoria e futuri benefìci. Tali promesse, però, raramente si tramutano in realtà (ed anche qualora lo facessero, come a Versailles nel 1919, gli effetti sarebbero persino peggiori)…
Il mio appello al popolo di Israele: liberate voi stessi liberando la Palestina – Desmond Tutu
Le scorse settimane hanno visto una mobilitazione senza precedenti della società civile di tutto il mondo contro l’ingiustizia e la brutalità della sproporzionata risposta israeliana al lancio di razzi dalla Palestina.
Se si contano tutte le persone che si sono radunate lo scorso fine settimana a Città del Capo, a Washington DC, a New York, a Nuova Delhi, a Londra, a Dublino, a Sidney ed in tutte le altre città del mondo per chiedere giustizia in Israele e Palestina, ci si rende subito conto che si tratta senza dubbio della più grande ondata di protesta di sempre dell’opinione pubblica riguardo ad una singola causa.
Circa venticinque anni fa, ho partecipato a diverse grandi manifestazioni contro l’apartheid. Non avrei mai immaginato che avremmo rivisto manifestazioni tanto numerose, ma sabato scorso a Città del Capo l’affluenza è stata uguale se non addirittura maggiore. C’erano giovani e anziani, musulmani, cristiani, ebrei, indù, buddisti, agnostici, atei, neri, bianchi, rossi e verdi… come ci si aspetterebbe da una nazione viva, tollerante e multiculturale.
Ho chiesto alla gente in piazza di unirsi al mio coro: “Noi ci opponiamo all’ingiustizia dell’occupazione illegale della Palestina. Noi ci opponiamo alle uccisioni indiscriminate a Gaza. Noi ci opponiamo all’indegno trattamento dei palestinesi ai checkpoint e ai posti di blocco. Noi ci opponiamo alla violenza da chiunque sia perpetrata. Ma non ci opponiamo agli ebrei.”
Pochi giorni fa, ho chiesto all’Unione Internazionale degli Architetti, che teneva il proprio convegno in Sud Africa, di sospendere Israele dalla qualità di Paese membro.
Ho pregato le sorelle e i fratelli Israeliani presenti alla conferenza di prendere le distanze, sia personalmente che nel loro lavoro, da progetti e infrastrutture usati per perpetuare un’ingiustizia. Infrastrutture come il muro, i terminal di sicurezza, i posti di blocco e gli insediamenti costruiti sui territori Palestinesi occupati.
Ho detto loro: “Quando tornate a casa portate questo messaggio: invertite la marea di violenza e di odio unendovi al movimento nonviolento, per portare giustizia a tutti gli abitanti della regione”.
In poche settimane, più di 1 milione e 600mila persone in tutto il mondo hanno aderito alla campagna lanciata da Avaaz chiedendo alle multinazionali che traggono i propri profitti dall’occupazione della Palestina da parte di Israele e/o che sono coinvolte nell’azione di violenza e repressione dei Palestinesi, di ritirarsi da questa attività. La campagna è rivolta nello specifico a ABP (fondi pensionistici olandesi); a Barclays Bank; alla fornitura di sistemi di sicurezza (G4S), alla francese Veolia (trasporti); alla Hewlwtt-Packard (computer) e alla Caterpillar (fornitrice di Bulldozer).
Il mese scorso 17 governi della UE hanno raccomandato ai loro cittadini di astenersi dal fare affari o investimenti negli insediamenti illegali israeliani.
Abbiamo recentemente assistito al ritiro da banche israeliane di decine di milioni di euro da parte del fondo pensione olandese PGGM e al ritiro da G4S della Fondazione Bill e Melinda Gates; e la Chiesa presbiteriana degli Stati Uniti ha ritirato una cifra stimata in 21 milioni dollari da HP, Motorola Solutions e Caterpillar.
Questo movimento sta prendendo piede.
La violenza genera solo violenza ed odio, che generano ancora più violenza e più odio.
Noi sudafricani conosciamo la violenza e l’odio. Conosciamo la pena che comporta l’essere considerati la puzzola del mondo, quando sembra che nessuno ti comprenda o sia minimamente interessato ad ascoltare il tuo punto di vista. È da qui che veniamo.
Ma conosciamo anche bene i benefici che sono derivati dal dialogo tra i nostri leader, quando organizzazioni etichettate come “terroriste” furono reintegrate ed i loro capi, tra cui Nelson Mandela, liberati dalla prigione, dal bando e dall’esilio.
Sappiamo che, quando i nostri leader cominciarono a parlarsi, la logica della violenza che aveva distrutto la nostra società si è dissipata ed è scomparsa. Gli atti di terrorismo iniziati con i negoziati, quali attachi ad una chiesa o ad un pub, furono quasi universalmente condannati ed i partiti responsabili furono snobbati alle elezioni.
L’euforia che seguì il nostro votare assieme per la prima volta non fu solo dei sudafricani neri. Il vero trionfo della riappacificazione fu che tutti si sentirono inclusi. E dopo, quando approvammo una costituzione così tollerante, compassionevole e inclusiva che avrebbe reso orgoglioso anche Dio, tutti ci siamo sentiti liberati.
Certo, avere un gruppo di leader straordinari ha aiutato.
Ma ciò che alla fine costrinse questi leader a sedersi attorno al tavolo delle trattative fu l’insieme di strumenti persuasivi e non violenti messi in pratica per isolare il Sudafrica economicamente, accademicamente, culturalmente e psicologicamente.
A un certo punto – il punto di svolta – il governo di allora si rese conto che preservare l’apartheid aveva un costo superiore ai suoi benefici.
L’interruzione, negli anni ’80, degli scambi commerciali con il Sud Africa da parte di aziende multinazionali dotate di coscienza, è stata alla fine una delle azioni chiave che ha messo in ginocchio l’apartheid, senza spargimenti di sangue. Quelle multinazionali avevano compreso che, sostenendo l’economia del Sud Africa, stavano contribuendo al mantenimento di uno status quo ingiusto.
Quelli che continuano a fare affari con Israele, che contribuiscono a sostenere un certo senso di “normalità” nella società Israeliana, stanno arrecando un danno sia agli israeliani che ai palestinesi. Stanno contribuendo a uno stato delle cose profondamente ingiusto.
Quanti contribuiscono al temporaneo isolamento di Israele, dichiarano così che Israeliani e Palestinesi in eguale misura hanno diritto a dignità e pace.
In sostanza, gli eventi accaduti a Gaza nell’ultimo mese circa stanno mettendo alla prova chi crede nel valore degli esseri umani.
È sempre più evidente il fallimento dei politici e dei diplomatici nel fornire risposte e che la responsabilità di negoziare una soluzione sostenibile alla crisi in Terra Santa ricade sulla società civile e sugli stessi abitanti di Israele e Palestina.
Oltre che per le recenti devastazioni a Gaza, tante bellissime persone in tutto il pianeta – compresi molti Israeliani – sono profondamente disturbate dalle quotidiane violazioni della dignità umana e della libertà di movimento cui i Palestinesi sono soggetti a causa dei checkpoint e dei posti di blocco. Inoltre, la politica Israeliana di occupazione illegale e di costruzione di insediamenti cuscinetto in una terra occupata aggrava la difficoltà di raggiungere in futuro un accordo che sia accettabile per tutti.
Lo stato di Israele si sta comportando come se non ci fosse un domani. Il suo popolo non potrà avere la vita tranquilla e sicura che vuole – e a cui ha diritto – finché i suoi leader continueranno a mantenere le condizioni che provocano il conflitto.
Io ho condannato quanti in Palestina sono responsabili dei lanci di missili e razzi contro Israele. Soffiano sulle fiamme dell’odio. Io sono contrario ad ogni manifestazione di violenza.
Ma dobbiamo essere chiari che il popolo palestinese ha ogni diritto di lottare per la sua dignità e libertà. È una lotta che ha il sostegno di molte persone in tutto il mondo.
Nessuno dei problemi creato dagli esseri umani è irrisolvibile, quando gli esseri umani stessi si impegnano a risolverlo con il desiderio sincero di volerlo superare. Nessuna pace è impossibile quando la gente è determinata a raggiungerla.
La Pace richiede che israeliani e palestinesi riconoscano l’essere umano in loro stessi e nell’altro, che riconoscano la reciproca interdipendenza.
Missili, bombe e insulti non sono parte della soluzione. Non esiste una soluzione militare.
È più probabile che la soluzione arrivi dallo strumento nonviolento che abbiamo sviluppato in Sud Africa negli anni ’80, per persuadere il governo della necessità di modificare la propria linea politica.
Il motivo per cui questi strumenti – boicottaggio, sanzioni e disinvestimenti – si rivelarono efficaci, sta nel fatto che avevano una massa critica a loro sostegno, sia dentro che fuori dal Paese. Lo stesso tipo di sostegno di cui siamo stati testimoni, nelle ultime settimane, a favore della Palestina.
Il mio appello al popolo di Israele è di guardare oltre il momento, di guardare oltre la rabbia nel sentirsi perennemente sotto assedio, nel vedere un mondo nel quale Israele e Palestina possano coesistere – un mondo nel quale regnino dignità e rispetto reciproci.
Ciò richiede un cambio di prospettiva. Un cambio di mentalità che riconosca come tentare di perpetuare l’attuale status quo equivalga a condannare le generazioni future alla violenza e all’insicurezza. Un cambio di mentalità che ponga fine al considerare ogni legittima critica alle politiche dello Stato come un attacco al Giudaismo. Un cambio di mentalità che cominci in casa e trabocchi fuori di essa, nelle comunità, nelle nazioni e nelle regioni che la Diaspora ha toccato in tutto il mondo. L’unico mondo che abbiamo e condividiamo.
Le persone unite nel perseguimento di una causa giusta sono inarrestabili. Dio non interferisce nelle faccende della gente, ha fiducia nel fatto che noi cresceremo ed impareremo risolvendo le nostre difficoltà e superando le nostre divergenze da soli. Ma Dio non dorme. Le Scritture Ebraiche ci dicono che Dio è schierato dalla parte del debole, dalla parte di chi è senza casa, della vedova, dell’orfano, dalla parte dello straniero che libera gli schiavi nell’esodo verso la Terra Promessa. Fu il profeta Amos che disse che dobbiamo lasciar scorrere la giustizia come un fiume.
La giustizia prevarrà alla fine. L’obiettivo della libertà del popolo palestinese dall’umiliazione e dalle politiche di Israele è una causa giusta. È una causa che lo stesso popolo di Israele dovrebbe sostenere.
Nelson Mandela disse che i Sudafricani non si sarebbero potuti sentire liberi finché anche i Palestinesi non lo fossero stati.
Avrebbe potuto aggiungere che la liberazione della Palestina libererà anche Israele.
Bauman: “Gaza è diventata un ghetto, Israele con l’apartheid non costruirà mai la pace”
L’amarezza dell’intellettuale polacco di origini ebraiche. Sfuggito all’Olocausto, non risparmia critiche ad Hamas e a Netanyahu: “Pensano alla vendetta, non alla coabitazione. Purtroppo sta accadendo ciò che era ampiamente previsto. La Shoah è la prova di quel che gli uomini sono capaci di fare ad altri esseri umani in nome dei loro interessi. Una lezione mai seriamente presa in considerazione”
di ANTONELLO GUERRERA
“CIÒ A cui stiamo assistendo oggi è uno spettacolo triste: i discendenti delle vittime dei ghetti nazisti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un altro ghetto “. A dirlo non è un palestinese furioso, ma Zygmunt Bauman, uno dei massimi intellettuali contemporanei, di famiglia ebraica e sfuggito all’Olocausto ordito da Hitler grazie a una tempestiva fuga in Urss nel 1939.
Bauman ha 88 anni, suo padre era un granitico sionista e negli anni ha sviscerato come pochi l’aberrazione e le conseguenze della Shoah. Sinora il grande studioso polacco non si era voluto esprimere pubblicamente sulla recrudescenza dell’abissale conflitto israelo-palestinese. Ora però, dopo aver accennato alla questione qualche giorno fa al Futura Festival di Civitanova Marche in un incontro organizzato da Massimo Arcangeli, Bauman confessa la sua amarezza in quest’intervista a Repubblica.
Professor Bauman, lei è uno dei più grandi intellettuali contemporanei ed è di origini ebraiche. Qual è stata la sua reazione all’offensiva israeliana a Gaza, che sinora ha provocato quasi 2mila morti, molti dei quali civili?
“Che non rappresenta niente di nuovo. Sta succedendo ciò che era stato ampiamente previsto. Per molti anni israeliani e palestinesi hanno vissuto su un campo minato, in procinto di esplodere, anche se non sappiamo mai quando. Nel caso del conflitto israelo-palestinese è stata la pratica dell’apartheid – nei termini di separazione territoriale esacerbata dal rifiuto al dialogo, sostituito dalle armi – che ha sedimentato e attizzato questa situazione esplosiva. Come ha scritto lo studioso Göran Rosenberg sul quotidiano svedese Expressen l’8 luglio, prima dell’invasione di Gaza, Israele pratica l’apartheid ricorrendo a “due sistemi giudiziari palesemente differenti: uno per i coloni israeliani illegali e un altro per i palestinesi ‘fuorilegge’. Del resto, quando l’esercito israeliano ha creduto di aver identificato alcuni sospetti palestinesi (nella caccia ai responsabili dell’omicidio dei tre adolescenti israeliani rapiti in Cisgiordania il giugno scorso, ndr), ha messo a ferro e fuoco le case dei loro genitori. Invece, quando i sospettati erano ebrei (per il susseguente caso del ragazzino palestinese arso vivo, ndr) non è successo nulla di tutto questo. Questa è apartheid: una giustizia che cambia in base alle persone. Per non parlare dei territori e delle strade riservate solo a pochi”. E io aggiungo: i governanti israeliani insistono, giustamente, sul diritto del proprio paese di vivere in sicurezza. Ma il loro tragico errore risiede nel fatto che concedono quel diritto solo a una parte della popolazione del territorio che controllano, negandolo agli altri”.
Come anche lei sottolinea, tuttavia, Israele deve difendere la sua esistenza minacciata da Hamas. C’è chi, come gli Usa, dice che la reazione dello Stato ebraico su Gaza è dura ma necessaria. Chi la giudica eccessiva e “sproporzionata”. Lei che ne pensa?
“E come sarebbe una reazione violenta “proporzionata”? La violenza frena la violenza come la benzina sul fuoco. Chi commette violenza, da entrambe le parti, condivide l’impegno di non spegnere l’incendio. Eppure, la saggezza popolare (quando non è accecata dalle passioni) ci ricorda: “Chi semina vento raccoglie tempesta”. Questa è la logica della vendetta, non della coabitazione. Delle armi, non del dialogo. In maniera più o meno esplicita, a entrambe le parti del conflitto fa comodo la violenza dell’avversario per rinvigorire le proprie posizioni. E il risultato è: sia Hamas sia il governo israeliano, avendo concordato che la violenza è il solo rimedio alla violenza, sostengono che il dialogo sia inutile. Ironicamente, ma anche drammaticamente, potrebbero avere entrambi ragione”.
Cosa pensa, nello specifico, del premier israeliano Netanyahu e del suo governo? Ha commesso errori?
“Netanyahu e i suoi sodali, e ancor più gli israeliani che bramano il loro posto, si sforzano di fomentare il desiderio di vendetta nei loro avversari. Spargono semi di odio perché temono che l’odio del passato scemi. Alla luce della loro strategia, questi non sono “errori”. I governanti israeliani hanno più paura della pace che della guerra. Del resto, non hanno mai imparato l’arte di governare in contesti pacifici. E, negli anni, sono riusciti a contaminare gran parte di Israele con il loro approccio. L’insicurezza è il loro migliore, e forse unico, vantaggio politico. E magari vinceranno facilmente le prossime elezioni facendo leva sulle paure degli israeliani e sull’odio dei vicini, che hanno fatto di tutto per irrobustire”.
Lei in passato è stato critico nei confronti del sionismo e dell’uso che Israele fa della tragedia dell’Olocausto per giustificare le sue offensive militari. La pensa ancora così?
“Raramente la vittimizzazione nobilita le sue vittime. Anzi, quasi mai. Troppo spesso, invece, provoca un’unica arte, che è quella del sentirsi perseguitati. Israele, nato dopo lo sterminio nazista contro gli ebrei, non è un’eccezione. Quello a cui siamo di fronte oggi è un triste spettacolo: i discendenti delle vittime nei ghetti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un ghetto che sfiora la perfezione (accesso bloccato in entrata e uscita, povertà, limitazioni). Facendo sì che qualcuno prenda il loro testimone in futuro”.
A questo proposito, cosa pensa del silenzio di politici e intellettuali europei sul conflitto riesploso a Gaza?
“Innanzitutto, non esiste la “comunità internazionale” di cui parlano americani ed europei. In gioco, ci sono soltanto coalizioni estemporanee, dettate da interessi particolari. In secondo luogo, come ha osservato Ivan Krastev celebrando il centenario dell’inizio della Grande Guerra, noi europei abbiamo ben in mente che “un’eccessiva” reazione come quella all’omicidio di Francesco Ferdinando ha portato alla catastrofe “che nessuno voleva o si aspettava””.
Lei ha scritto in passato che la società moderna non ha imparato l’agghiacciante lezione dell’Olocausto. Questo concetto si può applicare anche al conflitto israelopalestinese?
“Le lezioni dell’Olocausto sono tante. Ma pochissime di loro sono state seriamente prese in considerazione. E ancor meno sono state apprese – per non parlare di quelle messe realmente in pratica. La più importante di queste lezioni è: l’Olocausto è la prova inquietante di ciò che gli umani sono capaci di fare ad altri umani in nome dei propri interessi. Un’altra lezione è: non mettere un freno a questa capacità degli umani provoca tragedie, fisiche e/o morali. Questa lezione, nel nostro mondo veloce, globalizzato e irreversibilmente multicentrico, ricopre ancora un’importanza universale, applicabile a ogni antagonismo locale. Ma non c’è una soluzione a breve termine per lo stallo attuale. Coloro che pensano solo ad armarsi non hanno ancora imparato che dietro alle due categorie di “aggressori” e “vittime” della violenza c’è un’umanità condivisa. Né si accorgono che la prima vittima di chi esercita violenza è la propria umanità. Come ha scritto Asher Schechter su Haaretz, l’ultima ondata di violenza nell’area “ha fatto compiere a Israele un ulteriore passo verso quel torpore emotivo che si rifiuta di vedere ogni sofferenza che non sia la propria. E questo è dimostrato da una nuova, violenta retorica pubblica”.
da qui
Più di 225 ebrei sopravvissuti al genocidio nazista condannano massacro di Palestinesi a Gaza
Come ebrei sopravvissuti al genocidio nazista e i nostri discendenti condanniamo inequivocabilmente il massacro di Palestinesi a Gaza e l’occupazione e colonizzazione della Palestina storica. Condanniamo anche gli Stati Uniti perchè provvede a Israele i fondi per portare avanti l’attacco, e gli Stati occidentali in modo generale per usare le sue strutture diplomatiche per proteggere Israele dall’essere condannato. Il genocidio inizia con il silenzio del mondo.
Siamo allarmati per la estrema e razzista disumanizzazione dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto l’apice. In Israele i politici e gli opinionisti del ‘Times of Israel’ e del ‘Jerusalem Post’ chiamano apertamente al genocidio del palestinesi e gli israeliani di destra adottano gli emblemi neo-nazisti.
Inoltre, siamo disgustati ed indignati per gli abusi della nostra storia a mano di Elie Wiesel nelle pagine che promuovono palesemente delle falsità per giustificare l’ingiustificabile: lo sforzo totale d’Israele per distruggere Gaza e l’assassinio di circa 2000 palestinesi, tra cui centinaia di bambini. Niente può giustificare il bombardamento dei rifugi ONU, di case private, di ospedali ed università. Niente può giustificare il privare le persone di elettricità ed acqua.
Dobbiamo alzare la nostra voce collettivamente ed usare il nostro potere collettivo per finire ogni forma di razzismo, compreso l’attuale genocidio del popolo palestinese. Chiediamo la fine immediata dell’assedio e del blocco contro Gaza. Chiamiamo al totale boicotto economico, culturale ed accademico di Israele. ‘Mai più’ dev’essere MAI PIÙ PER TUTTI!
Sopravvisuti (per alcuni ho messo dei link per conoscerli meglio)
Hajo Meyer, survivor of Auschwitz, The Netherlands.
http://frammentivocalimo.blogspot.it/2009/10/hajo-g-meyer-la-fine-del-giudaismo.html
http://andreacarancini.blogspot.it/2009/06/intervista-hajo-meyer-ebreo.html
Henri Wajnblum, survivor and son of victim of Nazi genocide, Belgium.
http://www.forumpalestina.org/news/2009/Marzo09/31-03-09LetteraAperta.htm
Renate Bridenthal, child refugee from Hitler, granddaughter of Auschwitz victim, United States.
Marianka Ehrlich Ross, survivor of Nazi ethnic cleansing in Vienna, Austria. Now lives in United States.
Annette Herskovits, survived in hiding in France and daughter of parents who were murdered in Auschwitz, United States.
http://frammentivocalimo.blogspot.it/2012/06/annette-herskovits-nazismo-sionismo-e.html
Irena Klepfisz, child survivor from the Warsaw Ghetto, Poland. Now lives in United States.
Karen Pomer, granddaughter of member of Dutch resistance and survivor of Bergen Belsen. Now lives in the United States.
Hedy Epstein, her parents & other family members were deported to Camp de Gurs & subsequently all perished in Auschwitz. Now lives in United States.
http://unfilorosso.wordpress.com/2014/08/20/hedy-epstein-il-coraggio-della-coerenza/
http://andreacarancini.blogspot.it/2010/04/hedy-epstein-ebrea-antisionista-e.html
http://www.silviacattori.net/article488.html
Lillian Rosengarten, survivor of the Nazi Holocaust, United States.
http://freeyourmindfym.wordpress.com/2011/04/24/140/
http://rete-eco.it/2012/home/incontri/20-gruppi-ebraici/dissidenza-ebraica/24195-israels-nightmare-jew-against-jew.html
Suzanne Weiss, survived in hiding in France, and daughter of a mother who was murdered in Auschwitz. Now lives in Canada.
http://frammentivocalimo.blogspot.it/2013/12/la-solidarieta-mi-ha-salvato-dai.html
Richard Leuchtag, survivor, United States.
Ervin Somogyi, survivor and daughter of survivors, United States.
Ilse Hadda, survivor on Kindertransport to England. Now lives in United States.
Jacques Glaser, survivor, France.
Norbert Hirschhorn, refugee of Nazi genocide and grandson of three grandparents who died in the Shoah, London.
Eva Naylor, survivor, New Zealand.
Suzanne Ross, child refugee from Nazi occupation in Belgium, two thirds of family perished in the Lodz Ghetto, in Auschwitz, and other Camps, United States.
Bernard Swierszcz, Polish survivor, lost relatives in Majdanek concentration camp. Now lives in the United States.
Joseph Klinkov, hidden child in Poland, still lives in Poland.
Nicole Milner, survivor from Belgium. Now lives in United States.
Hedi Saraf, child survivor and daughter of survivor of Dachau, United States.
Barbara Roose, survivor from Germany, half-sister killed in Auschwitz, United States.
Sonia Herzbrun, survivor of Nazi genocide, France.
Ivan Huber, survivor with my parents, but 3 of 4 grandparents murdered, United States.
Altman Janina, survivor of Janowski concentration camp, Lvov. Lives in Israel.
Leibu Strul Zalman, survivor from Vaslui Romania. Lives in Jerusalem, Palestine.
Miriam Almeleh, survivor, United States.
George Bartenieff, child survivor from Germany and son of survivors, United States.
Margarete Liebstaedter, survivor, hidden by Christian people in Holland. Lives in Belgium.
Edith Bell, survivor of Westerbork, Theresienstadt, Auschwitz and Kurzbach. Lives in United States.
Janine Euvrard, survivor, France.
Harry Halbreich, survivor, German.
Arrestata a Ferguson Hedy Epstein
Sulla maglietta nera ha la frase Stay Human, «restiamo umani», quella con cui il reporter Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza nel 2011 dagli jihadisti, terminava ogni suo articolo. È tranquilla, Hedy Epstein, mentre viene portata via, le mani dietro la schiena. Piccola, tra due poliziotte, fragile nei suoi 90 anni.
Protestava davanti all’ufficio del governatore del Missouri Jay Nixon, contro la presenza della Guardia Nazionale nelle strade di Ferguson, dove è stato ucciso dalla polizia Michael Brown, un teenager nero disarmato. Ed è finita in manette.
Hedy Epstein vive a Saint Louis, è sopravvissuta alla Shoah, ed è un’attivista politica instancabile. Sostiene il Free Gaza Movement, la coalizione di operatori umanitari e organizzazioni che sostengono la Palestina libera.
A scioperi della fame, picchetti e arresti, è abituata: «Lo faccio da quando ero adolescente, non credevo che avrei continuato fino a 90 anni. Dobbiamo farci sentire oggi, così che le persone non debbano farlo quando saranno novantenni». Il 21 ottobre comparirà in tribunale.
Ha novant’anni, un passato da sopravvissuta all’Olocausto e un presente fatto di costante militanza a favore dei più deboli e contro le discriminazioni: Hedy Epstein è finita in manette ieri, insieme ad altri trenta manifestanti negli scontri di piazza di Ferguson. Come gli altri stava protestando a suon di slogan e di “mani in alto, non sparate” contro l’impiego della Guardia Nazionale nei moti della capitale del Missouri, intensificatisi dopo l’uccisione ingiustificata da parte della polizia di Michael Brown, diciottenne di colore incensurato e disarmato, e presto diventati simbolo della ribellione ‘nera’ a una delle più gravi condizioni di discriminazione razziale.
Alla causa pacifica degli afroamericani che chiedono uguaglianza e parità di trattamento davanti alla legge, la Epstein aveva aderito per solidarietà. La donna di origini tedesche ha, infatti, un lungo passato di devozione alle cause civili, iniziato forse quando riuscì a scappare dalla Germania nazista grazie al Kindertransport – treno che portò 10 mila bambini ebrei in Inghilterra- e proseguito poi nella militanza tra le fila della resistenza francese, in America per cause come il pacifismo –erano gli anni del Vietnam- l’aborto, il diritto alla casa e durante i suoi lunghi viaggi, dal Nicaragua alla Cambogia, sempre accanto agli ultimi. Solo qualche giorno fa aveva fatto ritorno dal Cairo dove, da sempre sensibile alla questione palestinese e sostenitrice del Free Gaza Movement, aveva protestato contro la campagna militare di Israele sulla Striscia.
Al momento dell’arresto, tranquilla e sicura delle sue azioni, indossava una maglia nera compagna di molte sue lotte: “stay human” in ricordo del reporter Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza nel 2011 dagli jihadisti e quasi a sottolineare un altro sacrificio, quello a cui le forze dell’ordine del Missouri sembrano costringere moltissimi professionisti dell’informazione, poco tollerati e per questo minacciati, deliberatamente esposti a lacrimogeni e misure antisommossa della polizia. Hedy Epstein, dopo una notte in carcere, è attesa ora davanti alla Corte ma non per questo ha perso la voglia di far sentire la sua voce, come ha dichiarato, infatti, “faccio questo da quando ero una teenager e non avrei mai pensato che avrei continuato anche a 90 anni. Dobbiamo svegliarci, e fare a modo che la gente di oggi non sia costretta a scendere in piazza quando avrà la mia età“.
ricordando Simone Camilli
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Ecco perchè bisogna mostrare le foto dei bambini palestinesi uccisi da Israele – Alessandro Aramu
Il giornalismo è raccontare, svelare, mostrare. Il contrario del giornalismo è occultare, nascondere, censurare. Indro Montanelli diceva che non esiste la verità ma una verità, ovvero quella che gli occhi del giornalismo possono vedere. Lo sguardo arriva fino a un certo punto e il dovere del cronista è raccontare ciò che vede. Oltre quello sguardo ci può essere un’altra verità che qualcun altro può raccontare o meno.
Il giornalismo è dunque mostrare e mi hanno insegnato che quando si ha a che fare con la guerra ci sono cose che si possono mostrare e altre che non si possono mostrare per non urtare la sensibilità delle persone più deboli, a partire dai bambini.
E proprio di loro che voglio parlare. Oggi decido che la mia rivista non deve avere paura di mostrare la foto di un bambino morto sotto i bombardamenti israeliani a Gaza. Decido che del giornale che dirigo faccio ciò che voglio, piegandomi a una sola regola: quella della mia coscienza di giornalista e di uomo. Mostro le foto che l’informazione mainstream non vuole e non può mostrare, perché ogni giorno è piegata alle logiche della politica e della menzogna. I bambini italiani devono sapere che ci sono altri bambini che hanno visto morire i propri genitori, fratelli, parenti e amici. Devono sapere che ci sono altri bambini morti, sepolti sotto le macerie distrutte dalle bombe di Israele. Devono sapere che c’è una logica nazista nell’informazione: 1 bambino ebreo ucciso vale 10 bambini palestinesi morti. Che ci sono morti di serie A e morti di serie B. Morti che nessuno ha il coraggio di mostrare perché c’è il diritto di perseguitare il popolo palestinese senza che nessun organismo internazionale possa reagire.
In questi anni ho criticato Hamas più di una volta. Ritengo che sia un movimento che non ha prospettiva politica e che la Resistenza, legittima davanti alle continue violazioni di Israele nei confronti della Palestina e del suo popolo, a un certo punto debba trovare un punto di svolta. Quel punto di svolta è arrivato con il consenso di tutti: il governo di unità nazionale con al Fatah. Un punto di svolta che non è piaciuto a Israele e al suo premier. Netanyahu, fin dall’inizio, ha deciso che quello storico accordo doveva fallire e ha lavorato affinché si arrivasse a questo punto. Serviva un pretesto. E l’ha trovato: il rapimento e la morte di tre giovani coloni ebrei. Un crimine orrendo. Nessuno può gioire per quello che è successo. La verità è che non c’è nessuna prova che il responsabile di quell’azione sia Hamas. L’unica rivendicazione, taciuta da tutti, è arrivata da un movimento jihadista palestinese. Il governo di Israele ha avuto il pretesto che voleva e ha risposto con una repressione che vìola tutte le regole del diritto internazionale.
In Cisgiordania abbiamo assistito per giorni a un rastrellamento che ricorda purtroppo le azioni peggiori degli eserciti occupanti nelle guerre di mezzo mondo. Qui, inoltre, c’è un fattore etnico e religioso che aggrava la situazione. Un esercito occupante di uno Stato che continua a costruire insediamenti e colonie al di fuori di qualunque regola. Ma il diritto internazionale è carta straccia. Il diritto è soltanto la piega con la quale il più forte impone una condotta al più debole. Distruggere le case dei palestinesi e occupare le loro terre, anche quando non arrivano missili e non ci sono azioni armate, è diventato il contrappeso di una difesa alla sicurezza dello Stato di Israele che nessuno può contrastare. Il mondo resta a guardare. L’informazione si piega a quel mondo assente e distratto.
I raid di Israele non c’entrano nulla con i missili di Hamas. Le bombe su Gaza non c’entrano nulla con il rapimento e l’uccisione dei tre giovani coloni ebrei. No, questo nuovo “Piombo Fuso” è la reazione di Israele, dei suoi falchi, della destra ultraconservatrice razzista e nazista, al governo di unità, a quell’esecutivo che anche gli Stati Uniti hanno riconosciuto e sostenuto. Il premier Netanyahu, così come è accaduto con l’Iran, è rimasto solo, con le spalle al muro. Aveva un solo modo per uscire dall’angolo: bombardare Gaza e cercare di annientare con la violenza Hamas. Per fare questo ha voluto passare attraverso i corpi dei civili. E quei corpi, che piaccia o meno, sono spesso quelli dei bambini che l’informazione mainstream non vuole mostrare. Non si mostrano perché l’opinione pubblica non deve sapere.
Noi quei corpi li mostriamo. Perché un bambino ebreo vale quanto un bambino palestinese. Abbiamo mostrato la foto dei tre coloni ebrei come quello del giovane palestinese bruciato vivo da “ultrà” israeliani. La morte bisogna guardarla in faccia. Anche quando è deforme e procura orrore. I numeri non sono cifre. I numeri non sono altro che sentimenti di persone che si spezzano, di storie e drammi che uno scatto a volte racconta meglio di qualunque scritto.
Io non sono contro Israele. Io sono contro la politica di Israele. Sono contro Netanyahu e la sua politica fascista. Lui è il vero nemico di Israele e di quei tanti ragazzi ebrei che negli ultimi mesi si sono rifiutati di fare la guerra ai palestinesi e di arruolarsi sotto l’insegna della stella di David. In Israele c’è tanta gente che non ne può più di questo governo. Gente che ritiene il proprio premier più pericoloso dei missili di Hamas. Pochi giornalisti hanno il coraggio di raccontare questa parte di Israele. Gli altri sono piegati alla logica della politica e della disinformazione.
C’è una regola nel diritto, anche internazionale: la proporzione tra azione e reazione. L’offesa di Hamas, se c’è stata, non è comparabile con l’assurda reazione di Israele. I numeri in questo caso, solo in questo, sono cifre: da una parte zero morti, dall’altra un numero crescente di vittime e feriti. È chiaro: Israele non vuole fermare Hamas, vuole annientare il popolo palestinese. Lo ha fatto in silenzio con i nuovi insediamenti. Lo fa oggi con il fragore delle bombe.
Quelle bombe hanno un volto. Tanti volti. Quelli dei bambini uccisi da Netanyahu.
Ecco perché li mostro.
Mio dio, l’antisemitismo – Gideon Levy
Oggi Israele è il posto più pericoloso del mondo per gli ebrei. Dalla sua fondazione sono morti più ebrei in guerre e attacchi terroristici avvenuti in Israele che altrove. La guerra a Gaza però ha ridotto le differenze: più di ogni altra guerra, ha messo in pericolo gli ebrei anche nel resto del mondo.
La casa degli ebrei, il rifugio della nazione, non solo non offre alcun rifugio, ma addirittura minaccia gli ebrei ovunque. Nel calcolare gli effetti della guerra bisogna includere anche questo tra le perdite.
Un’ondata di rabbia sta investendo l’opinione pubblica mondiale. In contrasto con la miopia e l’autocompiacimento dell’opinione pubblica israeliana, all’estero la gente ha visto le foto di Gaza ed è rimasta sconvolta. Per chiunque avesse una coscienza era impossibile fare finta di niente.
Lo shock si è trasformato in odio verso lo stato che ha fatto tutto ciò, e in alcuni casi l’odio ha finito per risvegliare l’antisemitismo dalla sua tana. Sì, nel ventunesimo secolo c’è ancora antisemitismo nel mondo, ed è stato Israele ad alimentarlo. Israele ha fornito all’odio scuse in abbondanza.
Ma non tutti i sentimenti anti-israeliani sono antisemiti. Semmai è vero il contrario: la maggior parte delle critiche a Israele sono fondate e moralmente giustificabili. L’antisemitismo, razzista come tutti gli odi nazionali, è spuntato ai margini di queste critiche, e Israele è direttamente responsabile della sua comparsa.
Ma Israele e l’establishment della diaspora ebraica etichettano automaticamente ogni critica come antisemita. Il trucco è vecchio: il peso della colpa viene trasferito da quelli che hanno commesso gli orrori di Gaza a quelli che si macchiano di cosiddetto antisemitismo. Non è colpa nostra, è colpa tua, mondo antisemita. Qualunque cosa faccia, Israele ha sempre tutto il mondo contro.
Naturalmente questo non ha senso. Così come un poliziotto che fa una multa a un automobilista ebreo non è necessariamente antisemita, come vorrebbero far credere alcune organizzazioni ebraiche, e una rapina a un rabbino non è necessariamente motivata dall’odio razziale, le critiche a Israele non sono necessariamente motivate dall’odio per gli ebrei.
Queste organizzazioni sono diventate un parafulmine per le critiche a Israele, e se la sono cercata. Questo è il prezzo del loro cieco sostegno a Israele, della loro chiassosa propaganda in nome di Israele, del fatto di aver trasformato ogni comunità ebraica in un ufficio di pubbliche relazioni per Israele e della loro unanime approvazione di qualunque cosa faccia Israele. Siamo un solo popolo, dicono. In questo caso, se ogni ebreo che osa criticare Israele, anche quando è coinvolto in un conflitto brutale, è un ebreo che odia sé stesso, allora tutti sono responsabili.
Numerosi ebrei che vivono all’estero mi hanno scritto in preda al panico durante la guerra, chiedendomi di non scrivere più i miei articoli e di smetterla con le critiche, perché gli antisemiti le usavano a loro favore. Ho risposto loro che ciascun aggiornamento da Gaza faceva più danni all’immagine di Israele di tutti i miei articoli messi insieme. Conosco anche molte persone che hanno ancora simpatia per Israele proprio perché c’è ancora qualche resto di una società libera che ammette le critiche.
In ogni caso, gli ebrei dovrebbero esprimere i propri timori allo stato di Israele. Oggi molti ebrei hanno paura. In parte queste paure sono forse esagerate, in parte sono giustificate. A mio parere in Europa essere musulmano è tuttora più difficile che essere ebreo. Ma a Parigi gli ebrei non hanno più il coraggio di portare la kippa, in Belgio a una donna è stato impedito di entrare in un negozio perché era ebrea e un giornalista francese mi ha detto recentemente che in Francia l’odio per Israele e gli ebrei non è mai stato così forte.
Queste lamentele vanno indirizzate a Israele, perché è Israele che ha la responsabilità di Gaza.
Chiunque abbia a cuore la sorte degli ebrei, chiunque sia sconvolto dagli episodi di antisemitismo, avrebbe dovuto pensarci prima di condurre Israele in un’altra guerra senza senso. Il mondo non è sempre contro Israele. Basta ricordare il periodo degli accordi di Oslo, quando tutto il mondo era dalla sua parte, compresa una parte del mondo arabo. Il mondo sarebbe ben contento di riabbracciare Israele, se la smettesse di comportarsi come un bullo e un oppressore.
Mio dio, l’antisemitismo è tornato. Forse è vero. Ma è Israele che ha acceso la miccia.
Lettera aperta al popolo di Gaza (dalla rivista “The Lancet”, pubblicata il 22 luglio 2014)
Siamo medici e scienziati, passiamo la vita a sviluppare metodi per curare e proteggere la salute e le vite. Siamo anche persone informate: assieme alla teoria e alla pratica della nostra professione ne insegniamo l’etica. Tutti, per anni, abbiamo lavorato a Gaza, e conosciamo la situazione.
Sulla base della nostra etica e pratica professionale, vogliamo denunciare ciò a cui stiamo assistendo nell’aggressione a Gaza da parte di Israele.
Chiediamo ai nostri colleghi, vecchi e giovani professionisti, di denunciare questa aggressione israeliana.
Ci opponiamo alla perversione di una propaganda che giustifica la creazione di un’emergenza per mascherare un massacro, una cosiddetta “aggressione difensiva”. Nella realtà, si tratta di una spietata aggressione senza limiti di durata, estensione o intensità. Vogliamo riportare i fatti come li vediamo e le loro implicazioni per le vite delle persone.
Siamo sgomenti per il macello di civili inermi fatto dai militari fingendo di combattere i terroristi. Questo è il terzo attacco militare su larga scala su Gaza dal 2008. Ogni volta il pegno di morte è quasi tutto pagato dagli innocenti, specialmente donne e bambini, con l’inaccettabile pretesto di sradicare i partiti politici e la resistenza all’occupazione e all’assedio imposto da Israele.
Questa azione terrorizza anche quelli che non ne sono colpiti direttamente, e ferisce l’anima, la mente, e la capacità di ripresa dei giovani. La nostra condanna e il nostro disgusto sono aggravati dalla negazione di aiuti e dalla proibizione per Gaza di ricevere aiuti e soccorsi esterni per alleviare questa terribile situazione…
qui sulla rivista “The Lancet”, pubblicata il 22 luglio 2014
“Il pregiudizio anti-Israele ai suoi massimi livelli”, “Un giornale peer-reviewed antisemitico”[2], ”Un giornale fazioso e vergognoso”. Questi sono soltanto alcuni degli appellativi riservati a una delle riviste mediche più importanti a livello mondiale, The Lancet. La sua colpa sarebbe di essere “palestinizzata”, ossia di dare voce ai problemi di salute e assenza di diritti umani dei palestinesi. IlZionist Central Council of Greater Manchester ha addirittura lanciato una vera e propria campagna per mettere fine al pregiudizio anti-Israele della rivista medica The Lancet.
Nel 2009 il suo direttore, Richard Horton, ha accettato l’invito della comunità accademica e scientifica palestinese di fornire sostegno per diffondere ricerche e pubblicazioni sulla situazione sanitaria del territorio palestinese occupato. È nata così la Lancet Palestinian Health Alliance che ogni anno organizza una conferenza i cui abstract vengono ospitati sulla rivista. Nel contesto palestinese di sofferenza quotidiana fatta di occupazione militare, espropriazione di terra, difficoltà al movimento, oppressione e violazioni quotidiane di diritti fondamentali, è comprensibile come la salute sia profondamente dipendente da tali predominanti determinanti sociali e politici. Le ricerche scientifiche che mostrano questa associazione diventano facile bersaglio da parte chi propugna il mito della neutralità della scienza.
In questi giorni Richard Horton è ancora una volta preso di mira per avere pubblicato la “Lettera aperta al popolo di Gaza”.La lettera, pubblicata online il 22 luglio e firmata da ventiquattro medici e scienziati britannici e italiani accumunati dalla conoscenza diretta della situazione della Striscia, denuncia in modo esplicito e severo la violenza di Israele sulla popolazione civile di Gaza come grave violazione del diritto internazionale e crimine contro l’umanità. Alcuni media hanno intuito la valenza dirompente di una tale accusa a Israele da parte di personalità scientifiche internazionali ben informate non soltanto delle violenze di questi giorni, ma soprattutto del contesto di assedio e crudele punizione collettiva a cui il popolo di Gaza è sottoposto da diversi anni. La risposta alla lettera ha superato le aspettative e in pochi giorni è prossima a raggiungere la quota di 15.000 adesioni…
…La Palestina è un grido di dolore dell’umanità. Pubblicare la “Lettera aperta al popolo di Gaza” su una rivista come il Lancet è segno di grande coraggio che indica come essere fedeli alla responsabilità sociale del professionista della salute comporti scelte difficili come schierarsi con il popolo di Gaza. Coloro che sostengono la neutralità in mezzo a questa catastrofe devono chiedersi come sia possibile essere neutrali davanti a case demolite, neonati crivellati di proiettili, ospedali e scuole devastate, intere famiglie di civili innocenti distrutte. Non fare nulla per impedire tutto questo equivale, in effetti, a schierarsi con il più forte.
Angelo Stefanini, Centro Salute Internazionale, Università di Bologna
Amira Hass: Mentre infuria la guerra a Gaza, nella West Bank routine di violenze e arresti senza sosta
Mercoledì scorso, un’ora e mezza dopo la mezzanotte, un gruppo di uomini armati in uniforme ha fatto irruzione nella casa, nella città di Ramallah, di Khalida Jarrar, membro del Consiglio legislativo palestinese, che rappresenta il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina . Uno del gruppo ha cercato di consegnarle un documento scritto in ebraico. Lei ha rifiutato di accettare il pezzo di carta.Un poliziotto ha tradotto in arabo. Jarrar non ha prestato attenzione a tutti i dettagli, ma piuttosto all’essenziale: Le Forze di Difesa Israeliane la stava espellendo nella città cisgiordana di Gerico e lei doveva andarsene entro 24 ore. Ha rifiutato di firmare il documento. E ‘ancora a casa sua. Sotto la firma del comandante dell’IDF in Cisgiordania, Maj Gen. Nitzan Alon, l’ordine è datato 15 agosto e riporta la dicitura “Ordine per le direttive di sicurezza Giudea e Samaria (n ° 1651) 5770 2009 . ” E sotto c’è un’altra voce: “Ordine speciale di vigilanza.”
Il testo del provvedimento riporta quanto segue: “Dopo l’accurata documentazione dell’ intelligence per quanto riguarda Khalida Jarrar Kana’an Muhammed (prosieguo: l ‘argomento’) e per gravi motivi di sicurezza , si ordina che il soggetto sia posto sotto sorveglianza speciale. Finché questo ordine rimane in vigore, il soggetto non deve lasciare il quartiere di Jericho senza il mio permesso o di qualcuno autorizzato da me. L’ordine resta in vigore fino al 29 Febbraio 2015 alle 11:59 PM ”
Jarrar ha dichiarato che lei non avrebbe obbedito all’ordine di espulsione.
Rispetto alle uccisioni e alle distruzioni che questo stesso esercito sta svolgendo a Gaza, l’emissione di un ordine di espulsione di un attivista politico è una questione insignificante. La violenza nel caso di Jarrar è più burocratica , meno fisico (senza contare l’invasione di una casa privata). Questo è vero anche rispetto alla violenza di routine che le forze di difesa impiegano contro i cittadini palestinesi della Cisgiordania. Dal momento che questa violenza è un ormai routine quotidiana, è data per scontata per cui nè il cancelliere tedesco Angela Merkel nè Barack Obama si sentono in dovere di rilasciare qualsiasi tipo di dichiarazione che dichiari il diritto all’ auto-difesa. del popolo palestinese
Lo scorso Venerdì, come ogni Venerdì, soldati dell’IDF hanno tentato di reprimere le manifestazioni in Cisgiordania contro il furto delle loro terre e l’uccisione di massa a Gaza. Un giovane uomo in Kafr Qaddum è stato colpito alla testa da una bomboletta di gas. Negli altri villaggi – secondo quanto riferito – i manifestanti sono stati soffocati dai gas lacrimogeni. Tra il 12 agosto e il 18, le truppe dell’IDF hanno ferito 139 feriti palestinesi durante le manifestazioni in Cisgiordania. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, 37 di loro, il 27 per cento, sono stati feriti dal fuoco vivo. Gli altri sono stati feriti da proiettili di gas lacrimogeni o di metallo ricoperti di gomma.
Dall’inizio dei combattimenti i soldati e la polizia hanno ferito 2.139 palestinesi in Cisgiordania. Dall’inizio di quest’anno le truppe dell’IDF hanno ferito 3.995 palestinesi in questa parte del territorio occupato. L’ anno scorso i soldati hanno ferito 3.736 palestinesi. Dal 8 luglio soldati israeliani hanno ucciso due bambini in Cisgiordania e 15 adulti, la maggior parte in manifestazioni a sostegno di Gaza. Una questione insignificante.
L’ordine di espulsione non può essere di routine, ma le incursioni dell’esercito nelle case lo sono . I bambini si svegliano in preda al panico nelle loro case quando invadono le loro abitazioni soldati con fucili spianati e dal viso nascosto o ricoperto di nero…
dice Wallace Shawn
Le grandi linee della terribile storia del popolo ebraico nel corso dei secoli è relativamente ben noto a molti di noi. Ma, purtroppo, molti membri della comunità show business non sono molto a conoscenza della tragica storia del popolo palestinese. Eppure il popolo palestinese è stato espulso dalla propria terra e sottoposto a incessante e ingiustificabile tormento come una occupazione brutale e, a Gaza costretto a una dieta da fame.
Chiunque viene a sapere su quanto è successo non può fare a meno di rendersi conto che la rabbia dei palestinesi non può essere repressa uccidendo i loro figli. Questa è una fantasia. Gli esseri umani semplicemente non sono fatti in questo modo.
Assenza (dedicato alle donne di Gaza) – Ibrahim Nasrallah
Non trovò la porta della casa, la donna
Non trovò la finestra
Né la terrazza
Né la corda del bucato.
Con mani sanguinanti scavava.
O Dio
La soglia
Almeno la soglia!
Per sedermi e raccontare alla notte
La storia della casa.
(traduzione di Wasim Dahmash)
Lo striscione di Livorno – una lettera degli ‘Ebrei contro l’occupazione’
Sullo sfondo dei drammatici eventi a Gaza, si sono rivelate nelle ultime settimane forti tensioni tra dirigenti della Comunità Ebraica livornese ed esponenti della Sinistra cittadina. Pur non essendo livornesi, abbiamo seguito questa vicenda, il cui eco ha raggiunto anche la stampa nazionale, perché purtroppo riflette sentimenti presenti anche in altre località. Come membri di un’associazione di ebrei italiani che si mobilitano per il rispetto dei diritti dei palestinesi, vorremmo proporre alcune riflessioni al riguardo.
Com’è noto, uno striscione dalle parole forti (“genocidio a Gaza”; “Israele terrorista”) ha spinto alcuni dirigenti della Comunità Ebraica livornese a richiederne la rimozione in quanto da essi ritenuto antisemita, cioè razzista. Questo striscione rivolgeva dure parole contro lo Stato d’Israele, impegnato in una campagna militare a Gaza, ma non parlava di ebrei, né evocava generalizzazioni nei loro confronti, né è stato esposto davanti alla Sinagoga in modo da lasciar intendere che gli ebrei, in quanto tali, fossero corresponsabili delle azioni del governo israeliano. E sebbene le espressioni “genocidio” e “terrorista” in questo contesto possano essere discutibili per qualcuno o urtarne le sensibilità, né l’eventuale non correttezza né la mancanza di riguardo sono da considerare razzismo.
Paradossalmente, chi ritiene che contestare Israele sia un atto antisemita, e cioè di ostilità nei confronti degli ebrei in quanto tali: 1) attribuisce a tutti gli ebrei un’unica posizione politica, cosa non solo inconcepibile ma anche palesemente infondata – v. i numerosi intellettuali ebrei e le tante organizzazioni ebraiche che si oppongono alle politiche israeliane; e 2) suggerisce che gli ebrei, ovunque, sarebbero da ritenere responsabili delle politiche di un paese di cui non sono neanche cittadini. Per assurdo, quindi, proprio coloro che tacciano di antisemitismo chi critica Israele, fanno generalizzazioni ingiuste nei confronti degli ebrei.
Ciò non significa che la critica a Israele non possa sfociare in antisemitismo. Un recente manifesto fascista, per esempio, invitava a “non comprare dagli ebrei [romani, descritti anche come “infami”] per fermare il massacro a Gaza”. Questo è sì un manifesto antisemita, ed è stato prontamente condannato dai principali movimenti romani di solidarietà alla Palestina: una lotta per i diritti non può macchiarsi di razzismo.
Purtroppo, però, accuse infondate di antisemitismo (o di “odio di sé”, se chi dissente è ebreo) vengono spesso utilizzate in maniera strumentale per silenziare il dissenso e impedire un serio dibattito sulle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele. Questa pratica mina pericolosamente anche il fondamentale principio democratico della libertà di parola, e rischia di banalizzare il razzismo rendendolo più difficile da combattere. L’unica lotta possibile all’antisemitismo è la più ampia lotta contro il razzismo, ovunque.
Shmuel Gertel
Simona Sermoneta
membri di Rete Ebrei Contro l’Occupazione
www.rete-eco.it
(*) «Nella prefazione a “Le folgori d’agosto” (edizione Vallecchi 1973) alla domanda sul perché scrive Jorge Ibargüengoitia ha confessato che scrive un libro ogni qual volta desidera leggere un libro di Ibargüengoitia, che è il suo scrittore preferito. Quella lettura fu una folgorazione, da allora ogni volta che voglio leggere qualcosa di veramente bello e interessante che non riesco a leggere da nessuna parte, me la scrivo da me, anche perché non è mica facile per gli scrittori sapere quello che voglio leggere io». Francesco Masala si presenta così. Aggiungo solo che una delle sue frasi preferite è «La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta» di Theodor W. Adorno. (db)
Il mio appello al popolo d’Israele: liberate voi stessi liberando la Palestina
L’Arcivescovo Emerito Desmond Tutu, in un articolo in esclusiva per Haaretz, ha lanciato un appello per un boicottaggio globale d’Israele, chiedendo con urgenza a Israeliani e Palestinesi di essere migliori dei loro leader, nel cercare una soluzione sostenibile alla crisi in Terra Santa.
Le scorse settimane hanno visto una mobilitazione senza precedenti della società civile di tutto il mondo contro l’ingiustizia e la brutalità della sproporzionata risposta israeliana al lancio di razzi dalla Palestina.
Se si contano tutte le persone che si sono radunate lo scorso fine settimana a Città del Capo, a Washington D.C., a Nuova York, a Nuova Delhi, a Londra, a Dublino, a Sidney e in tutte le altre città del mondo per chiedere giustizia in Israele e Palestina, ci si rende subito conto che si tratta senza dubbio della piú grande ondata di protesta di sempre dell’opinione pubblica riguardo a una singola causa.
Circa venticinque anni fa, ho partecipato a diverse grandi manifestazioni contro l’apartheid. Non avrei mai immaginato che avremmo rivisto manifestazioni tanto numerose, ma sabato scorso a Città del Capo l’affluenza è stata uguale se non addirittura maggiore. C’erano giovani e anziani, Mussulmani, Cristiani, Giudei, Indú, Buddisti, agnostici, atei, neri, bianchi, rossi e verdi…come ci si aspetterebbe da una nazione viva, tollerante e multiculturale.
Ho chiesto alla gente in piazza di unirsi al mio coro: “Noi ci opponiamo all’ingiustizia dell’occupazione illegale della Palestina. Noi ci opponiamo alle uccisioni indiscriminate a Gaza. Noi ci opponiamo all’indegno trattamento dei palestinesi ai posti di controllo e ai posti di blocco. Noi ci opponiamo alla violenza da chiunque sia perpetrata. Ma non ci opponiamo agli Ebrei”.
Pochi giorni fa, ho chiesto all’Unione Internazionale degli Architetti, che teneva il proprio convegno in Sudafrica, di sospendere Israele dalla qualità di paese membro.
Ho pregato le sorelle e i fratelli israeliani presenti alla conferenza di prendere le distanze, sia personalmente che nel loro lavoro, da progetti e infrastrutture usati per perpetuare un’ingiustizia. Infrastrutture come il muro, i terminali di sicurezza, i posti di blocco e gl’insediamenti costruiti sui territori palestinesi occupati.
Ho detto loro: “Quando tornate a casa portate questo messaggio: invertite la marea di violenza e di odio unendovi al movimento nonviolento, per portare giustizia a tutti gli abitanti della regione”.
In poche settimane, piú di 1 milione e 600mila persone in tutto il mondo hanno aderito alla campagna lanciata da Avaaz chiedendo alle multinazionali che traggono i propri profitti dall’occupazione della Palestina da parte d’Israele e/o che sono coinvolte nell’azione di violenza e repressione dei Palestinesi, di ritirarsi da quest’attività. La campagna è rivolta nello specifico ad ABP (fondi pensionistici olandesi); a Barclays Bank; alla fornitura di sistemi di sicurezza (G4S); alla francese Veolia (trasporti); alla Hewlett-Packard (computer) e alla Caterpillar (fornitrice di ruspe).
Il mese scorso 17 governi dell’UE hanno raccomandato ai loro cittadini di astenersi dal fare affari o investimenti negl’insediamenti illegali israeliani.
Abbiamo recentemente assistito al ritiro da banche israeliane di decine di milioni di euro da parte del fondo pensione olandese PGGM e al ritiro da G4S della Fondazione Bill e Melinda Gates; e la Chiesa presbiteriana degli Stati Uniti ha ritirato una cifra stimata in 21 milioni dollari da HP, Motorola Solutions e Caterpillar.
Questo movimento sta prendendo piede.
La violenza genera solo violenza e odio, che generano ancora piú violenza e piú odio.
Noi Sudafricani conosciamo la violenza e l’odio. Conosciamo la pena che comporta l’essere considerati la puzzola del mondo, quando sembra che nessuno ti comprenda o sia minimamente interessato ad ascoltare il tuo punto di vista. È da qui che veniamo.
Ma conosciamo anche bene i benefici che sono derivati dal dialogo tra i nostri leader, quando organizzazioni etichettate come “terroriste” furono reintegrate e i loro leader, tra cui Nelson Mandela, liberati dalla prigione, dal bando e dall’esilio.
Sappiamo che, quando i nostri leader cominciarono a parlarsi, la logica della violenza che aveva distrutto la nostra società si è dissipata ed è scomparsa. Gli atti di terrorismo iniziati con i negoziati, quali attacchi a una chiesa o a un bar, furono quasi universalmente condannati e i partiti responsabili furono snobbati all’elezioni.
L’euforia che seguí il nostro votare assieme per la prima volta non fu solo dei Sudafricani neri. Il vero trionfo della riappacificazione fu che tutti si sentirono inclusi. E dopo, quando approvammo una costituzione cosí tollerante, compassionevole e inclusiva che avrebbe reso orgoglioso anche Dio, tutti ci siamo sentiti librerati.
Certo, avere un gruppo di leader straordinari ha aiutato.
Ma ciò che alla fine costrinse questi leader a sedersi attorno al tavolo delle trattative fu l’insieme di strumenti persuasivi e nonviolenti messi in pratica per isolare il Sudafrica economicamente, accademicamente, culturalmente e psicologicamente.
A un certo punto – il punto di svolta – il governo di allora si rese conto che preservare l’apartheid aveva un costo superiore ai suoi benefici.
L’interruzione, negli anni ’80, degli scambi commerciali con il Sudafrica da parte di aziende multinazionali dotate di coscienza, è stata alla fine una delle azioni chiave che ha messo in ginocchio l’apartheid, senza spargimenti di sangue. Quelle multinazionali avevano compreso che, sostenendo l’economia del Sudafrica, stavano contribuendo al mantenimento di uno stato delle cose ingiusto.
Quelli che continuano a fare affari con Israele, che contribuiscono a sostenere un certo senso di “normalità” nella società israeliana, stanno arrecando un danno sia agl’Israeliani che ai Palestinesi. Stanno contribuendo a uno stato delle cose profondamente ingiusto.
Quanti contribuiscono al temporaneo isolamento d’Israele, dichiarano cosí che Israeliani e Palestinesi in eguale misura hanno diritto a dignità e pace.
In sostanza, gli eventi accaduti a Gaza nell’ultimo mese circa stanno mettendo alla prova chi crede nel valore degli esseri umani.
È sempre piú evidente il fallimento dei politici e dei diplomatici nel fornire risposte e che la responsabilità di negoziare una soluzione sostenibile alla crisi in Terra Santa ricade sulla società civile e sugli stessi abitanti d’Israele e Palestina.
Oltre che per le recenti devastazioni a Gaza, tante bellissime persone in tutto il pianeta – compresi molti Israeliani – sono profondamente disturbate dalle quotidiane violazioni della dignità umana e della libertà di movimento cui i Palestinesi sono soggetti a causa dei posti di controllo e dei posti di blocco. Inoltre, la politica israeliana di occupazione illegale e di costruzione di insediamenti cuscinetto in una terra occupata aggrava la difficoltà di raggiungere in futuro un accordo che sia accettabile per tutti.
Lo stato d’Israele si sta comportando come se non ci fosse un domani. Il suo popolo non potrà avere la vita tranquilla e sicura che vuole – e a cui ha diritto – finché i suoi leader continueranno a mantenere le condizioni che provocano il conflitto.
Io ho condannato quanti in Palestina sono responsabili dei lanci di missili e razzi contro Israele. Soffiano sulle fiamme dell’odio. Io sono contrario a ogni manifestazione di violenza.
Ma dobbiamo essere chiari che il popolo palestinese ha ogni diritto di lottare per la sua dignità e libertà. È una lotta che ha il sostegno di molte persone in tutto il mondo.
Nessuno dei problemi creato dagli esseri umani è irrisolvibile, quando gli esseri umani stessi si impegnano a risolverlo con il desiderio sincero di volerlo superare. Nessuna pace è impossibile quando la gente è determinata a raggiungerla.
La pace richiede che Israeliani e Palestinesi riconoscano l’essere umano in loro stessi e nell’altro, che riconoscano la reciproca interdipendenza.
Missili, bombe e insulti non sono parte della soluzione. Non esiste una soluzione militare.
È piú probabile che la soluzione arrivi dallo strumento nonviolento che abbiamo sviluppato in Sudafrica negli anni ’80, per persuadere il governo della necessità di modificare la propria linea politica.
Il motivo per cui questi strumenti – boicottaggio, sanzioni e disinvestimenti – si rivelarono efficaci, sta nel fatto che avevano una massa critica a loro sostegno, sia dentro che fuori dal paese. Lo stesso tipo di sostegno di cui siamo stati testimoni, nelle utlime settimane, a favore della Palestina.
Il mio appello al popolo d’Israele è di guardare oltre il momento, di guardare oltre la rabbia nel sentirsi perennemente sotto assedio, nel vedere un mondo nel quale Israele e Palestina possano coesistere – un mondo nel quale regnino dignità e rispetto reciproci.
Ciò richiede un cambio di prospettiva. Un cambio di mentalità che riconosca come tentare di perpetuare l’attuale stato delle coseo equivalga a condannare le generazioni future alla violenza e all’insicurezza. Un cambio di mentalità che ponga fine al considerare ogni legittima critica alle politiche dello stato come un attacco al Giudaismo. Un cambio di mentalità che cominci in casa e trabocchi fuori di essa, nelle comunità, nelle nazioni e nelle regioni che la Diaspora ha toccato in tutto il mondo. L’unico mondo che abbiamo e condividiamo.
Le persone unite nel perseguimento di una causa giusta sono inarrestabili. Dio non interferisce nelle faccende della gente, ha fiducia nel fatto che noi cresceremo e impareremo risolvendo le nostre difficoltà e superando le nostre divergenze da soli. Ma Dio non dorme. Le scritture ebraiche ci dicono che Dio è schierato dalla parte del debole, dalla parte di chi è senza casa, della vedova, dell’orfano, dalla parte dello straniero che libera gli schiavi nell’esodo verso la Terra Promessa. Fu il profeta Amos che disse che dobbiamo lasciar scorrere la giustizia come un fiume.
La giustizia prevarrà alla fine. L’obbiettivo della libertà del popolo palestinese dall’umiliazione e dalle politiche d’Israele è una causa giusta. È una causa che lo stesso popolo d’Israele dovrebbe sostenere.
Nelson Mandela disse che i Sudafricani non si sarebbero potuti sentire liberi finché anche i Palestinesi non lo fossero stati.
Avrebbe potuto aggiungere che la liberazione della Palestina libererà anche Israele.
ecco un’intervista di ForumPalestina:
http://www.forumpalestina.org/news/2014/Agosto14/25-08-14_Intervista-Giuditta-Brattini.htm
a Giuditta Brattini,che ha scritto diversi report da Gaza per il blog (https://danielebarbieri.wordpress.com/?s=brattini)