Sette suggestioni sulle opere di Yerka – 5: Amore
di Mauro Antonio Miglieruolo
L’amore suo lontano, partito dicendo torno presto, gli aveva fatto credere al massimo un’assenza di due settimane, poi torno. Erano venti anni che mancava. Che le mancava il suo odore, il corpo, la possibilità di avvinghiarglisi dietro, la profonda intonazione che dava al saluto della buonanotte, notte dopo notte…
Non era tornato, Odisseo traditore. Che probabilmente si considerava innocente, al riparo dei suoi incomprensibili paradossi einsteiniani. Si era fermato dove? Con chi? Quale Circe, quale Sirena, quale Nausica, quale meraviglia ne aveva rubato l’attenzione? Poneva quelle domande a chiunque gli capitasse a tiro “sapete qualcosa di mio marito?”; e loro, i tutti loro distratti, donne e uomini che mai avevano attraversato l’uguale sua condizione, snocciolavano con disinvoltura nomi, nomi meno poetici di quelli presenti nei suoi sospetti, uno più assurdo dell’altro. È partito per Alpha Centauri, dicendo; come fa a non saperlo? Ma altri: no la destinazione era Andromeda, si è unito alla spedizione per la nube di Oort… nomi incomprensibili, nomi improbabili, nomi inappropriati, nomi bugiardi. A lei pareva bisognasse piuttosto confessare è fuggito con Alessia, si sta scapricciando con Antonia, ha preso una sbandata per Ornella… ecco, allora sì avrebbero dimostrato di non parlare con eccessiva leggerezza!
Torno subito, aveva detto il perfido sleale compagno della vita, che forse non aveva capito nemmeno lui quello cui andava incontro. Neppure te ne accorgi che sono stato assente. Quasi si trattasse di una delle solite missioni, comandato di qua e di là, Iraq Libia Afghanistan, per ultimo il lungo periodo di addestramento in Cina. Cina? O invece si era trattato di Stati Uniti?
Si era lasciato dietro, oltre una moglie, due figli piccoli che nell’attesa erano diventati grandi. Se n’erano andati anche loro, dicendo perché perdere tempo a aspettare? La vita non aspetta. Dicendo torneremo a breve. Torneremo a trovarti. Invece no, non li aveva più visti, né sentiti. Salvo una cartolina a Natale e una a Pasqua. Poi, con il passare del tempo, neppure quelle, cartoline non s’usava inviarne più, e però neanche messaggi, telefonate, contatti video. Eppure, con grande sacrificio, si era adattata a prendere familiarità con gli aggeggini per il quale sembravano andare matti. Accenderli. Spegnerli. Leggere le e-mail. Consultare Skype. Whatsapp. Messanger. Mio dio, Saverio! Che confusione! Saverio zitto. La figlia invece meglio che ti abitui. Ti lasciano mica scelta, ti lasciano…
Non che fosse in quell’età in cui sarebbe crudele pretendere l’adattamento, a malapena superava i quaranta, ancora bella, piacente, piena di vita, voglia di ridere e razzolare ne aveva in quantità; epperò, poverina, faticava a star dietro alle novità. Non aveva alcuna voglia di star dietro alle novità. Aveva ben altro a cui pensare. Per altro qualche difficoltà psicologica con la tecnologia l’aveva. Non riteneva di averne bisogno. Neppure il resto del mondo ne aveva bisogno. Se ne era fatto a meno per migliaia di anni, non si poteva continuare per qualche altro decennio e dare un po’ di respiro ai poveretti che ne erano investiti? Una innovazione alla volta, permettere alla gente si abituasse e poi la seguente. Ecco come si sarebbe dovuto fare!
C’erano però cose alle quali era impossibile abituarsi (altro che tecnologia)! Cose che l’avevano bloccata al minuto lungo del commiato; in quel minuto si era fermato il mondo il cielo e la terra i pianeti tutti (mica vero che giravano); la vita pure, dopo per lei non c’era più stata vita, non vera vita. Era stata abbandonata, tale si sentiva, gettata via come un abito vecchio, una straccio. Dalla data fatale voglia di insistere non ne aveva più avuta. Lasciata andare, non s’era lasciata andare, per dignità, per la flebile speranza che ancora nutriva, vederlo un giorno tornare, glorioso e astuto guerriero, uccidendo tutti i Proci. Sospinta da quel filo di speranza, unico argine alla disperazione, s’era adattata a aspettare, ad uscire per guardare il cielo, oppure restandosene a letto, guardare dall’interno dell’essenza sua di persona congelata.
È un po’ tocca, si diceva volentieri della poveretta e la diceria s’andava diffondendo. Pazza, inguaribilmente pazza. Non però a causa delle stranezze che commetteva. Tipo sdraiarsi nuda su un albero e lasciarsi carezzare dai raggi della luna. Quasi avesse di fronte un interlocutore pazzo come lei disposto a conoscerla. Astro di conforto, Luna di consolazione. Luna, Luna mia, dimmi di me, quel che non so e il dolore che mi aspetta. Si sentiva bella sotto lo sguardo vigile della Luna. In quel chiarore dorato, che mostrava e nascondeva nello stesso tempo, chiaroscuri e penombre, esaltata la sua declinante bellezza. Che era ancora tanta, tanta da commuovere la Luna, la quale s’espandeva tutta come ad abbracciarla, riempiendo il cielo, ed era, madre sorella amica. Amante persino. In quell’abbraccio tornava a essere donna, provando emozioni e brividi di sensualità che l’ammorbidivano. La Luna non gli parlava del suo dolore, ne di qualsiasi altra possibilità. Gli parlava con sussurri quasi inaudibili che comunque avevano il potere di rasserenarla. Il dolore attenuava. Il passato era passato, contava solo il presente, non lasciarsi sfuggire la vita dalle mani. Tornava in casa sollevata, pensando che un domani per attendere ci sarebbe stato ancora e poi ancora e ancora uno. Mille domani e diecimila. Paziente, fedele, fiduciosa. Finché lui non fosse tornato.
Comunque non erano le apparizioni solitarie con relativi bagni di Luna all’origine della sentenza emesso a suo carico. La consideravano matta per l’ostinazione con cui perseverava in una attesa priva di possibili esiti positivi. Attesa di, si sapeva, tutti sapevano, di qualcuno che non sarebbe mai riapparso. Non dopo venti, né quaranta, né cinquanta anni. Mai, mai più…
Provavano a farla rinsavire, ma non c’era modo. Macchetiguardi? mica è partito per la Luna, fosse andato sulla Luna da mo’ che sarebbe tornato! Tentativi vani. Se pure fosse stato possibile superare la corazza di sordità con la quale si difendeva dal mondo, il quale da parte sua sembrava non aspirasse ad altro che farla tornare alla irrealtà sua di donna sola e indisponibile, restava il fatto che informazioni circostanziate sul destino dl marito, nessuno sembrava averne (segreto di stato). Per quale stella, pianeta, città, con quale saggia o perversa intenzione fosse partito… se solo o in compagnia…
La donna non era matta. Non certo pervasa dalla pazzia che inquina il discernimento. Illusioni sulla meta del marito non se ne faceva. Non era al seguito di illusioni che notte dopo notte, salvo in quelle più gelide, si disponeva all’aperto, o al chiuso, sul balcone di casa, per mostrarsi all’unico amante che ritenesse accettabile. La Luna là in alto, luna consolatrice, era troppo vicina per poter rubare un marito per tanto lungo spazio di tempo. Il viaggio intrapreso dal marito era certamente più impegnativo di una semplice passeggiata sul satellite. Non con quelle missioni si rubano i mariti! Sono le faticose e dolenti notti frutto di affanni, gemiti e sudori, notti di illusioni, notti e giorni di ripensamenti, a far la conta del più e del meno. Notti e giorni ai quali non è possibile porre riparo. L’avvilimento che sopraggiunge il mattino seguente, con il carico di obblighi ai quali per un momento si ritiene di essersi sottratti, impedisce si trovi la via del ritorno. Ora il viaggio del marito era certamente più lungo di quello necessario per consumare una notte di veglia. O l’ansia di una trasvolata planetaria. Importava minimo che la missione riguardasse Plutone e l’oltre. Antares forse. Andromeda. I confini medesimi dell’Universo. Il limite della vita. La vertigine che arresta i pensieri. Un viaggio senza ritorno. Con però l’obbligo di tornare. E un uomo che è un uomo non disattende ai propri obblighi.
Sapeva dunque che si trattava di un viaggio strano, un viaggio senza altra definizione: IL VIAGGIO. Gli effetti einsteiniani escludevano potesse tornare nel tempo breve di vita che le restava da patire. Guardava per guardare in effetti, per fare qualcosa che desse senso all’angoscia. O casomai si realizzasse il miracolo di veder tracciato il suo nome sulla superfice delle Luna; e subito di seguito il messaggio prosaico in grado di proiettarla nell’empireo di una felicità senza limiti. Subito dopo il nome, seconda e terza riga, sto arrivando/butta la pasta.
Ridacchiava per quei pensieri, considerazioni che veleggiavano leggere dentro la testa. Li trovava divertenti. Il ridacchiare a volte, nelle notti in cui solo una falce illuminava le nubi, saliva di tono, trasformandosi, più che una minaccia, in risata selvaggia. Risata folle, risata in grado di avallare ciò che tutti le attribuivano. La pazzia, appunto. Appurava con lo scomposto del ridere il suo essere completamente e irrimediabilmente folle. Perciò, volendo evitare, si tratteneva. Ingoiava grido e divertimento, rimandava nel fondo buio dell’inconscio il dolore. Lo seppelliva. Costretto dalla necessità di non profanare un ricordo, il più bello, che era tutto ciò che le restava del passato. La complicità della luna, alla quale si erano affidati, la loro prima volta. Era al chiaro di luna che si erano conosciuti e s’erano scambiati il giuramento solito, il per sempre canonico. Il chiaro di Luna era bello, era seducente, era complice, sororale. Fedele soprattutto. Non se ne andava dicendo tornerò per poi non tornare. Tornava invece. Si nascondeva per alcuni giorni e ritornava immancabilmente a far capolino in cielo, diventando grande, sempre più grande e generosa.
Notte dopo notte. Non nell’inconsistenza solita della parola d’uomo. La Luna tornava.
Era donna la Luna. Manteneva sempre le promesse.
Eheee! su un pezzo del genere come fate a non accorrere numerosi?