«Sguardi che contano. Il cinema al tempo della visibilità lesbica»
Uno stralcio dal libro di Federica Fabbiani
L’editore Iacobelli ha pubblicato «Sguardi che contano. Il cinema al tempo della visibilità lesbica». Qui in “bottega” lo giudichiamo un libro importante. Così in attesa della più classica recensione ecco uno stralcio delle «conclusioni».
Conclusioni
Il lesbismo ha assunto in questi anni una rilevanza senza precedenti sugli schermi mainstream occidentali. Non più semplicemente fantasma, vampira, pazza, personaggia di supporto utile solo a confermare l’eterosessualità della protagonista, la lesbica ha raggiunto nuovi regni del visibile difficili da immaginare fino a dieci/venti anni fa. L’analisi del cinema lesbico si è espansa notevolmente oltre l’analisi semplicistica delle immagini, della rappresentabilità positiva, del lieto fine.
Ho dovuto operare una scelta non facile sui titoli da inserire in questo libro; molte le trame, tante le storie, numerosi gli intrecci che popolano gli schermi cinematografici e televisivi con protagoniste lesbiche.
Mi sono anche chiesta se adottare il termine lesbica oppure se passare in modo più deciso al sostantivo queer per inserirmi nella scia di una teorizzazione non essenzialista delle identità. Tuttavia, per quanto molte delle personagge virino a volte verso un posizionamento non identitario, è la visibilità lesbica il focus su cui ho concentrato la mia attenzione nella multiforme varietà delle odierne rappresentazioni.
Gli approcci teorici alla rappresentazione cinematografica del lesbismo costituiscono un’area particolarmente complessa e feconda della critica cinematografica femminista e molte hanno lavorato sulla definizione di film lesbico, sul posizionamento della spettatrice, sull’adozione di categorie interpretative psicoanalitiche, sul controverso ampliamento alle varie forme di legame femminile, le amicizie, il rapporto madre-figlia, la sorellanza. Se la personaggia lesbica prima è invisibile, poi è violenta, infine è normalizzata. La tirannia del lieto fine infesta l’immaginario collettivo e si estende alla lesbica, non più eccedente, portatrice di una storia, soprattutto d’amore, che è sempre più spesso considerata universale.
Si trasforma la personaggia lesbica; diventa affascinante, si pensi a Carol, e lo diventa anche e sorprendentemente nella versione mascolina, si pensi a Gentleman Jack, tanto che ormai le attrici (eterosessuali) non ne temono più lo stigma. Sono lontani i tempi della pessima reputazione della butch, che tanto sdegnò il pubblico, soprattutto lesbico, quando assunse le sembianze di Sister George, la lesbicona sguaiata in cui nessuna mai volle riconoscersi.
La sessualità lesbica, precedentemente relegata alla visione pornografica, ha assunto massima rilevanza visuale nel mainstream, enfatizzando spesso proprio la rappresentazione dell’atto sessuale, che a volte è condizionato dallo sguardo maschile, si pensi a La vita di Adele, altre volte è liberato dallo sguardo queer, si pensi di nuovo a Carol, Disobedience o alla serie tv Vida. La personaggia, sullo schermo, è lesbica se fa sesso con una donna. Oggi, come ieri.
Proliferano i biopic, i film biografici sulle personagge storiche, come Anne Lister (il già citato Gentleman Jack), Colette, La favorita. In alcuni casi, poi, si cancellano o si oscurano gli aspetti spiacevoli, per offrirne una diversa, più gioiosa, rappresentazione, si pensi a Emily Dickinson (in Wild Nights with Emily) e, in modo molto meno riuscito, a Vita & Virginia. Oppure, si inventano le storie lesbiche, come in Ammonite con la presunzione di lesbismo della paleontologa dell’Ottocento Mary Anning. La lesbica, qualche volta nella sua figurazione singolare, sempre più spesso in coppia (con moglie e prole), sembra ormai essere stata fagocitata dal sistema neoliberista, che ha disinnescato la miccia dell’eccedenza sessuale e l’ha trasformata in merce, in bella e controllata vista posizionata.
Eppure ogni tanto qualcuna ritorna a rimescolare le carte, a questionare la rappresentabilità della lesbica pulita e ben educata, a far sentire nuovamente una voce dissidente. Penso a Copia originale (Can You Ever Forgive Me?), il film di Marielle Heller (2018) sulla (vera) scrittrice e falsaria Lee Israel (Melissa McCarthy). Nel freddo inverno di una New York degli anni Novanta, Lee Israel è una butch, una sorta di versione moderna, miserabile ma non ridicolizzata, di June Buckridge (la già citata Sister George): sovrappeso, poco incline alla pulizia, asociale, ubriacona, che preferisce i gatti agli umani. È l’identità lesbica al suo grado di rappresentabilità minima, qualcuna di cui ci eravamo quasi dimenticate, tanto da non ricordare quanto ci stesse mancando. Fallisce spesso Lee Israel, lei che ha un libro nella classifica dei best seller del New York Times, rimane un’outsider del mondo letterario americano; non sa conformarsi alle regole della società dei consumi, dove gli scrittori (il maschile è voluto) sono brand e i libri solo merce. Fallisce con arte, Lee Israel, mai vittima del sistema che mette, anche se per un breve periodo, sotto scacco. Lei, lesbica, e l’amico Jack Hock (Richard E. Grant), gay e malato di aids, i loro incontri, le chiacchierate, le bevute nel mitico bar gay Julius di New York. Una personaggia lesbica, un’ambientazione queer, dove non è la coppia di donne – anche se incontriamo la ex di Lee e sappiamo così che ha avuto una relazione stabile in passato – il centro della narrazione, ma le infinite possibilità delle relazioni di affetto e condivisione, la kinship, nella forma che supera la famiglia nucleare, che sempre darà linfa vitale al sistema eterosessista. Non salva l’amore, ma salva l’amore di sé.
Oggi, sugli schermi mainstream, la lesbica esiste e detiene intenzionalmente lo status di chi guarda e chiede di essere guardata (Carol) perché il suo desiderio, attraverso il suo/nostro sguardo, conta. Quindi stiamo tutte bene? Abbandonato lo status di oppresse, almeno in alcune parti del mondo, dove rintracciare un nuovo e vivificante elemento di coesione e identificazione?