Signor globale, signora Libertà e signorina Anarchia
«Ci manca(va) un Venerdì» – numero 92 – dove Fabrizio Melodia si muove, stile Carla Fracci ai tempi d’oro, fra Llano, la Treccani, Chomsky, Kronstadt, Bauman, l’ironia di Silvia Ziche, Salvadori e Rifkin, ma forse dimentica alcune «parolacce»
«La globalizzazione è una procedura che permette ai potenti di sfruttare i deboli» scrive il filosofo – e rettore dell’università di Navarra – Alejandro Llano.
Sentiamo spesso questa parola “globalizzazione”: ma è il “deus ex machina” per rilanciare l’economia mondiale ai tempi della Rete Globale o invece un gigantesco meccanismo dove le multinazionali tengono in scacco i Paesi poveri e i miliardi di persone “deboli”?
In origine la globalizzazione nasce in seguito al miglioramento delle comunicazioni e sembra puntare sulla possibilità di un modello equo in cui anche i Paesi più poveri avrebbero potuto uscire dalle condizioni di tradizionale emarginazione, garantendo uno sviluppo a lungo termine, grazie a una politica di mutuo aiuto reciproco.
«La globalizzazione è un processo economico per il quale mercati, produzioni, consumi e anche modi di vivere e di pensare vengono connessi su scala mondiale, grazie ad un continuo flusso di scambi che li rende interdipendenti e tende a unificarli. È frutto di un processo che dura da tempo e negli ultimi trent’anni ha avuto una forte accelerazione in concomitanza con la terza rivoluzione industriale» recita la voce dell’enciclopedia Treccani on line.
La possibilità per i Paesi maggiormente industrializzati di operare sul mercato globalmente abbattendo confini e leggi, permette alla fine una vera e propria rinascita per l’economia, in grado di abbattere i costi di produzione ed espandere i propri mercati ben oltre ogni confine nazionale. Idealmente tutto questo avrebbe pure portato all’annullamento effettivo dei paradisi fiscali, privando alla base la motivazione per cui un’industria trasferisce la propria sede nello Stato dove si paga di meno, garantendo quindi un forte incentivo per il progresso dell’economia interna.
Jeremy Rifkin, economista e divulgatore ottimista, la riporta a un ottica iperglobale: «La civiltà dell’empatia è alle porte. Stiamo rapidamente estendendo il nostro abbraccio empatico all’intera umanità e a tutte le forme di vita che abitano il pianeta. Ma la nostra corsa verso una connessione empatica universale è anche una corsa contro un rullo compressore entropico in progressiva accelerazione, sotto forma di cambiamento climatico e proliferazione delle armi di distruzione di massa. Riusciremo ad acquisire una coscienza biosferica e un’empatia globale in tempo utile per evitare il collasso planetario?».
A tale domanda, sembra rispondere il filosofo Zygmunt Bauman: «Possiamo profetizzare che, a meno di essere imbrigliata e addomesticata, la nostra globalizzazione negativa, che oscilla tra il togliere la sicurezza a chi è libero e offrire sicurezza sotto forma di illibertà, renderà la catastrofe ineluttabile. Se non si formula questa profezia, e se non la si prende sul serio, l’umanità ha poche speranza di renderla evitabile. L’unico modo davvero promettente di iniziare una terapia contro la crescente paura che finisce per renderci invalidi è reciderne le radici: poiché l’unico modo davvero promettente di continuarla richiede che si affronti il compito di recidere quelle radici. Il secolo che viene può essere un’epoca di catastrofe definitiva. O può essere un’epoca in cui si stringerà e si darà vita a un nuovo patto tra intellettuali e popolo, inteso ormai come umanità. Speriamo di poter ancora scegliere tra questi due futuri.
Quale di questi sceglierà l’umanità? Cederà alla tentazione dell’ipercontrollo economico o punterà su un progresso culturale globale, in un’epoca in cui l’individualismo, l’arrivismo, la guerra tra poveri per un tozzo di pane raffermo e l’agonismo economico come unico modello di vita sembrano farla da padroni?
Sempre Jeremy Rifkin butta un bel sasso pesante nello stagno: «La coscienza empatica si fonda sulla consapevolezza che gli altri, come noi, sono esseri unici e mortali. Se empatizziamo con un altro è perché riconosciamo la sua natura fragile e finita, la sua vulnerabilità e la sua sola e unica vita; proviamo la sua solitudine esistenziale, la sua sofferenza personale e la sua lotta per esistere e svilupparsi come se fossero le nostre. Il nostro abbraccio empatico è il nostro modo di solidarizzare con l’altro e celebrare la sua vita».
L’empatia dunque salverà il mondo? Lo storico italiano Massimo L. Salvadori sembra essere piuttosto pessimista a tale proposito, soprattutto sui sistemi che dovrebbero garantire la rappresentatività di tale sentimento d’empatia e di democratico mutuo aiuto: «Vi è oggi da domandarsi se nei sistemi che continuiamo a chiamare democratici non siano intervenuti mutamenti tali da richiedere l’elaborazione di nuove categorie atte a definirli. A tal fine occorre fare riferimento a tre tipi di sistemi […] Il primo è il sistema liberale in senso proprio, che […] è stato contraddistinto da un suffragio fortemente ristretto e dal fatto che le istituzioni parlamentari poggiavano su partiti di notabili i quali si attivavano soprattutto in occasione delle tornate elettorali. Il secondo è il sistema liberaldemocratico basato su un suffragio notevolmente allargato o universale, sulla competizione tra partiti […] a carattere di massa, divenuti i principali artefici tanto della formazione e dell’orientamento dell’opinione pubblica quanto dell’azione politica e dei processi parlamentari. Il terzo è il sistema liberaldemocratico di ultima evoluzione […] nel quale i partiti restano sì i principali soggetti della competizione elettorale […] ma la loro struttura risulta profondamente mutata, insieme con le tecniche attinenti all’organizzazione del rapporto con le rispettive basi di massa e alla formazione dell’opinione politica».
Una buona via da seguire sembra venirci dal poeta menestrello Fabrizio De Andrè: «Aspetterò domani, dopodomani e magari cent’anni ancora finché la signora Libertà e la signorina Anarchia verranno considerate dalla maggioranza dei miei simili come la migliore forma possibile di convivenza civile, non dimenticando che in Europa, ancora verso la metà del Settecento, le istituzioni repubblicane erano considerate utopie. E ricordandomi con orgoglio e rammarico la felice e così breve esperienza libertaria di Kronstadt, un episodio di fratellanza e di egalitarismo repentinamente preso a cannonate dal signor Trotzkij».
L’anarchia sarà infine la meta, come sognava il buon Marx, dove il comunismo è il «movimento reale che abbatte lo stato delle cose presenti» avrebbe inevitabilmente condotto dopo una lunga, dura lotta?
Il filosofo Noam Chomsky però intravede una trappola: che l’anarchia sia la falsificazione popperiana con la quale le istituzioni mostreranno in modo scevro da ogni dubbio la propria validità, ovvero dimostreranno che le Istituzioni Economiche e Politiche hanno la propria ragione d’essere in quanto verrà dimostrato che è falso il loro contrario: «L’anarchia, a mio modo di vedere, esprime l’idea che la “prova di validità” debba ricadere sempre su quelli che argomentano che il dominio e l’autorità sono necessari. Debbono dimostrare, con argomenti reali, solidi e consistenti, che la loro affermazione è corretta. Se non possono farlo, allora vuol dire che le istituzioni che difendono debbono essere considerate illegittime. Dipende poi dalle circostanze e dalle condizioni la reazione all’autorità illegittima: non ci sono formule».
POSSO FARE UNA PICCOLA OBIEZIONE?
Come sempre Melodia raccoglie e “macina” citazioni, idee e notizie interessanti ma senza tacere l’essenziale, cioè che sovvertire l’ingiusto presente è necessario. Con ogni evidenza Salvadori ciurla nel manico e De Andrè, al solito, la dice giusta. Però, ragionando di globalizzazione, mi sembra che oggi FM abbia dimenticato alcune vecchie, utili parolacce: classi, sfruttamento, imperialismo, scambi iniqui, rapporti di produzione… Mi obietterà qualcuno: ma FM è un astro-filosofo, non un astro-economista o un astro-politico. Veeero, ma quel Marx, che anche FM giustamente ama, non ci ha insegnato che…Attendo, senza fretta, replica in forma di «Cmuv» o anche no. [db]