Società senza rischio?
La ricostruzione della Valle del Belìce dopo il terremoto del 1968
di Francesco Di Trapani (*)
Introduzione
Cronache post-terremoto: un bilancio sulla ricostruzione della Valle del Belìce fra storia, rischio e progettazione.
14 gennaio 1968 ore 13
<<Da una porta bassa e stretta della piazza di Vita, come una furia dell’inferno esce un uomo gridando: “dentro!dentro, disgraziato! Dentro, che c’è lu terremoto!”. Prende uno dei bambini che giocano acchiappareddu per i polsi come un capretto e si infila in casa: un ferro, due ferri, tre ferri, si asserraglia, lasciando fuori il terremoto.
I vecchi all’occhio del sale, i bambini che giocavano e pure tutti noi guardavamo la porta tappata e poi ci guardavamo in faccia a bocca aperta. Una porta si apre, poi un’altra e un’altra ancora e si vede camminare la parola “terremoto” e più la gente esce dalla tana. Più esce dalla tana e più cammina e si moltiplica la parola terremoto>>.
[Dal capitolo «Il terremoto della terra» in «I ministri dal cielo» di Lorenzo Barbera, Feltrinelli,1980 prima edizione: ripubblicato da duepuntiedizioni, Palermo, 2011]
Un evento naturale come il terremoto è impossibile da prevedere, nel tempo, nel luogo e nella misura. Gli effetti possono essere invece studiati e controllati se la società lo impone, o ignorati e quindi lasciati senza controllo se la società lo permette.
A parte i terremoti scivolati nell’oblio del tempo, noi oggi possiamo sapere quali sono i luoghi a rischio sismico e quali sono le massime forze liberate in occasione delle scosse. Ciò ci permette di controllare e di imporre regole sulle costruzioni, sulle tipologie abitative, sugli insediamenti urbani, sia dove il rischio è più alto sia dove è più basso.
Dopo il terremoto, dopo che l’energia scarica sul suolo tutta la sua forza distruttiva, c’è un attimo di silenzio, i crolli immediati cessano, le lacrime e le urla sono ancora trattenute. Poi urla strazianti, grida di dolore e di richiamo. Si fa la conta.
La macchina dello Stato è fatta di auto, camion, ruspe, sirene che coprono tutto. Eppure la prima regola dopo un sisma dovrebbe essere “silenzio”, sia per rispetto dei morti, sia per cercare di sentire anche i più piccoli segnali di vita di persone ancora da liberare. E invece ecco arrivare un generale, un presidente, un ministro, ne basta solo uno di elicottero, che non ti fa più sentire nulla. Eppoi altra regola: se passa uno di questi generali, presidenti o ministri, mai interrompere le ricerche per salutare, basta un attimo per perdere quella vita.
La popolazione subisce dalla scossa altre scosse, tante, troppe. Gli sfollati vengono trasferiti immediatamente nelle tende, vengono stabiliti turni per tutto, per dormire, mangiare, lavare. Non ci si può fermare in tre a parlare, non si possono fare assemblee, non si può fare nulla, si deve fare il “terremotato”. Da qui in poi comincia l’inferno.
Dal punto di vista sociale le classi numericamente più numerose sono costituite dal proletariato e dal semi proletariato; esigua la presenza piccolo borghese, mentre totalmente assente è la media e grande borghesia[1]. La Valle del Belìce presenta, agli inizi degli anni Sessanta, caratteristiche del tutto simili a quelle di altre zone sottosviluppate del mezzogiorno italiano: agricoltura povera, industrializzazione inesistente, tenore di vita misero, fortissima emigrazione verso il nord-Italia e verso il nord-Europa.
La prima cosa che è cambiata certamente per la popolazione belicina è il nome Belice. Il mondo intero conosce la Valle del Bèlice, nessuno la Valle del Belìce. I giornalisti dell’epoca, infatti, non conoscendo affatto il Belìce, hanno letto il suo nome per la prima volta ponendo l’accento sulla “e”, anche se proprio il dizionario in dotazione alla RAI, edito nel 1961, poneva l’accento sulla “ì”.
Fedele al nome Belìce è stato sempre il senatore Ludovico Corrao il quale, quando gli si chiedeva il motivo per cui la ricostruzione delle città era incompleta a distanza di anni, rispondeva che “una città non si fa in trent’anni”. Secondo lui, le città del Belìce saranno città con la loro identità quando saranno pronte per esserlo, anche se qualche perplessità sorge nello stesso momento in cui si pensa che i paesi distrutti dal terremoto avevano già una storia e una loro identità da secoli.
Le città costruite nei secoli in Italia hanno vissuto esperienze continue di costruzione, distruzione e ricostruzione, sia per cause naturali, sia per cause umane.
La città è legata alla sua storia, la città è la storia stessa dei luoghi.
L’esperienza italiana di ricostruire in luogo altro da quello originario in occasione di terremoti come quello del 1693 nella Val di Noto si ripropone per il terremoto del Belice del 15 gennaio 1968. Cinque comuni rasi al suolo, quattro danneggiati in modo forte, e poi case lesionate negli altri paesi limitrofi. Il bilancio è di 370 morti, la maggior parte erano di Gibellina, Salaparuta e Montevago. Siamo in Sicilia, in piccoli centri dell’entroterra poverissimo, dimenticato e abbandonato a se stesso, dove si accendono per la prima volta i riflettori dello Stato. Si agisce dopo alcuni giorni, con l’esercito che organizza la tendopoli sulla neve appena caduta. Le tendopoli rimarranno montate per tanto tempo, il tempo necessario per uccidere la gente per il freddo e gli stenti, sei mesi i più fortunati, un anno e nove mesi quelli meno fortunati. Quelli che non uccide il terremoto, li uccide il freddo di quei giorni. Le tendopoli vengono organizzate come veri e propri campi militari, sveglia alla stessa ora, colazione e pasti tutti in fila, anche gli anziani. L’intimità è ormai dimenticata, si vive insieme, più famiglie nella stessa tenda. Sono mesi di angoscia. I politici arrivano sul luogo in elicottero, osservano le condizioni dei terremotati, promettono loro case e lavoro, e poi tornano indietro. I sindaci non hanno più poteri, sono anche loro relegati a fare i terremotati, ma nessuno nel Belìce vuole fare il terremotato. I capitani e i colonnelli delle tendopoli impongono il rispetto di regole eccessive. È vietato fare di testa propria, non ci si può radunare in gruppo per parlare del futuro, c’è già chi ci sta pensando per loro, questa la risposta delle istituzioni. Anche un dialogo fra tre o più persone può diventare una riunione sediziosa e in quanto tale deve essere sciolta per evitare la possibilità di ribellioni da parte dei cittadini.
A Partanna in occasione di una di queste riunioni spontanee c’è una inaspettata rivolta, che ha come risultato la nascita dei Comitati di tendopoli, che hanno il ruolo di evidenziare le esigenze della popolazione sui due fronti: la vita nelle tende e la ricostruzione delle case. Questi comitati, che si formano nel frattempo in ogni tendopoli, hanno la capacità di ridare la speranza a chi ha la sensazione di vivere in “lager”[2].
E’ una Italia diversa quella del 1968, lo Stato da una parte, il popolo dall’altro. Quando a Roma “i terremotati” del Belìce vanno a chiedere al Parlamento Italiano una legge sulla ricostruzione, incontrano sulla loro strada gli studenti, i dissidenti, i contestatori, è un colpo di fulmine. Finalmente dopo tre mesi, si fa la prima legge. Si decide qualcosa. Ma di fatto la certezza è che lo Stato non ha ancora deciso. Istituito l’ISES, a cui viene affidata la pianificazione e la progettazione di tutta la ricostruzione, si comincia ad aspettare i progetti. Città giardino di nordica memoria, case a schiera e villette anch’esse anglosassoni più che mediterranee, queste le case nuove e soprattutto le città nuove. È anche il periodo in cui si vogliono sperimentare tutte le teorie sulla città, sul sociale e soprattutto anni di raccolta di progetti, che vengono tirati fuori per l’occasione. Come se non avesse alcuna importanza il fatto che il terremoto fosse accaduto in Sicilia. La verità sconcertante è che poteva accadere in tutt’altro posto e la ricostruzione sarebbe stata la stessa.
Nel territorio del Belìce già dagli anni ’50 Danilo Dolci rileva le condizioni di vita della popolazione, la povertà delle case e la convivenza di bestie e uomini sotto lo stesso tetto. Ciò però non giustifica il fatto che in nome della modernità si dimentichi ciò che l’uomo ha creato in centinaia di anni. Basta pensare a luoghi oggi vivi e meta di turisti come Trastevere a Roma, dove le condizioni igienico sanitarie fino a un recente passato non erano certo delle migliori, ma che oggi rappresenta uno dei simboli della città.
Qui nel Belìce la ricostruzione porta di fatto a compimento il processo di distruzione dell’identità storico-culturale iniziato dal terremoto. Ma lo fa con lentezza. E lentezza significa impossibilità per migliaia di cittadini di tornare nelle loro case per lunghi anni.
Già nel 1969 il Centro Studi della Valle del Belìce [3] al “Convegno per la ricostruzione e lo sviluppo” presenta una relazione sui tempi della ricostruzione: «sono state presentate 80.000 domande di ricostruzione o riparazione che interessano 240.000 vani inutili». Allora lo Stato deve ancora scegliere dove fondare le nuove città e i nuovi quartieri. Poi ci sono i tempi della progettazione, l’iter delle pratiche, che dall’ufficio del comune passano al Genio Civile, poi all’ispettorato, alla Ragioneria generale dello Stato, alla Corte dei Conti, fino ad arrivare all’ufficio del Tesoro. Per rifare poi tutti questi passaggi a ritroso fino a tornare al cittadino, che comunque riceve solo «il 40% dell’intero ammontare». Sempre che non ci siano intoppi lungo questi passaggi burocratici. Fatti i conti, secondo Lorenzo Barbera, ci sarebbero voluti più di 500 anni per concludere i lavori con il meccanismo creato dallo Stato. La relazione si conclude invocando la galera per i responsabili dei ritardi.
Il popolo belicino diventa così protagonista di lotte e di manifestazioni contro chi causa ritardi nella costruzione delle città e contro chi non mette in atto le leggi approvate dal Parlamento, ovvero lo Stato italiano. La popolazione si scontra anche contro la mafia, che decide di accaparrarsi i soldi della ricostruzione a qualsiasi costo: da un lato creando innumerevoli società legate all’edilizia, dall’altro imponendo le proprie regole a chiunque è impegnato nelle opere di ricostruzione.
A tre anni dalla sciagura, dopo avere sentito tutti i politici di turno fare promesse impossibili da mantenere, dopo almeno sei mesi passati in tenda e due anni trascorsi in baracche progettate per avere un isolamento termico adeguato solo per un periodo di un anno, la gente è stanca di lamentarsi. L’esigenza di far sentire la voce di una popolazione che sembra fino al 1968 in letargo, deriva dal fatto che le case non vengono costruite. Il passaggio delle autorità fa notizia sui giornali ma in concreto non porta a nessun risultato. La politica lambisce le popolazioni ma rimane estranea alla loro sofferenza nei «lager fetidi, ghiacciati e umidi d’inverno e forni d’estate». Dal ’68 al ’76 è così un susseguirsi di manifestazioni contro chi non permette la ricostruzione delle case. Vengono organizzate tutte nei luoghi di potere o nei luoghi della memoria, per non dimenticare la sciagura e soprattutto i morti. Tutti i comitati dei comuni, assieme al Centro di Danilo Dolci, o al Centro Studi della Valle del Belìce, decidono di volta in volta, in caso di ritardo o di mancata promulgazione di leggi in favore dei terremotati, di marciare verso Palermo o verso Roma. La marcia più importante, che fa esplodere il caso a livello nazionale, è quella del dicembre del 1969, quando 1.500 terremotati si accampano in piazza Montecitorio fino a quando non viene approvata la legge dei primi finanziamenti.
L’anno più importante per la molteplicità dei livelli di lotta è però il 1970 che viene chiamato «l’anno dei tre chiodi»: 1° chiodo, governo fuorilegge; 2° chiodo, non si pagano più tasse; 3° chiodo, il cosiddetto «Piano di sopravvivenza della popolazione della Valle del Belìce», che ha come scopo quello di promuovere l’autonomia dallo Stato, e di ottenere in tempi ragionevoli le case.
La vicenda si svolge in modo del tutto naturale e nasce dal basso: infatti è proprio il popolo ad asserire che uno Stato che non rispetta le leggi è uno Stato fuorilegge. Si decide così di non pagare più le tasse, le bollette non pagate vengono consegnate ai comitati di tendopoli che le inviano al ministero del Tesoro, che in prima battuta le rimanda indietro immediatamente. Ma la scelta della popolazione è quella di non demordere e di continuare. Il problema della ricostruzione non può essere rimandato, mentre lo Stato di contro non può permettersi di staccare la luce, l’acqua o di fare multe a chi vive nelle tende o nelle baracche.
La situazione viene inasprita dall’arrivo delle cartelle esattoriali relative alle case che sono però crollate o diventate inabitabili: una vera beffa. Dopo una serie interminabile di invii e rinvii di queste bollette, viene alla fine deciso in sede politica che il popolo belicino non dovrà più pagare le tasse. In tal modo il popolo vince la sua battaglia mentre lo Stato ne ottiene il consenso privandolo di fatto di una delle sue armi per ottenere il diritto a una ricostruzione rapida per tutti.
L’architetto Olindo Terrana sostiene che «la pianificazione comprensoriale viene teorizzata da Giuseppe Samonà verso la metà degli anni ’50 nel testo “L’urbanistica e l’avvenire della città negli Stati europei” del 1959. Dopo il ’68, in occasione della ricostruzione della Valle del Belìce, ne abbiamo la sua prima applicazione, comprensiva di tutti i ragionamenti fatti in ambito di piano comprensoriale». E aggiunge: «Il livello di sperimentazione dal punto di vista pianificatorio è di grande spessore culturale, anche se la capacità operativa di questi strumenti non era adeguata alle reali necessità del post-terremoto. L’applicazione di tutta la gerarchia dei piani in alcuni momenti storici può essere positiva, qui invece la natura occasionale della progettazione organica ha solo rallentato o reso impossibile la gestione del territorio».
Il professore e architetto Nicola Giuliano Leone ha definito la ricostruzione di Gibellina come «un progetto, per così dire, capovolto»: le tipologie urbanistiche e architettoniche usate dai progettisti dello Stato – gra cui l’ingegner Fabbris che ne era il supervisore – appartengono a culture più vicine alla Danimarca, all’Olanda, all’Inghilterra o alla Svezia, piuttosto che alla cultura mediterranea. Vero è che questi piani vengono corretti dai progettisti italiani che cambiano la disposizione della zona carrabile, della zona pedonale e di quella comune, conseguendo tuttavia un risultato anomalo: il prospetto delle abitazioni diventa il retro e il retro, viceversa, diventa prospetto. In termini concreti, i prospetti dei progetti originali danno oggi sulle vie pedonali interne, che di fatto non vengono utilizzate, mentre i box che si affacciano sulle strade carrabili fungono da facciata delle abitazioni.
«Dal punto di vista della progettazione architettonica, i manufatti pensati in quei piani sono stati ancora più dannosi – afferma Olindo Terrana – perché non tennero conto del clima e soprattutto della presenza dell’edilizia di pregio, che scompare da tutti i centri, per lasciare il posto a case a schiera pressoché uguali in ogni città ricostruita, e a case anonime per quanto riguarda le abitazioni costruite dai privati con contributo».
La ricostruzione del Belìce assume inoltre un particolare rilievo poiché rappresenta l’unica esperienza di fondazione di città nuove nel Novecento in Italia, dopo quella di alcuni piccoli centri calabresi trasferitisi dalle montagne sulle coste, a causa di frane che ne hanno impossibilitato la vivibilità.
Quando lo Stato progetta la ricostruzione a seguito di un evento catastrofico, non fa altro che un proiezione scientifica della società e della città del futuro.
Le città nuove portano con sé il rischio di snaturare la vita delle città con abbandono dei luoghi (altro sito) e abbandono delle regole urbanistiche e architettoniche (stile e linguaggio) originari.
Il pericolo della ricostruzione è che crolli ciò che è stato fatto. I tipi di crolli sono vari: può essere il crollo di un tetto di un edificio in costruzione, come la chiesa madre di Gibellina, il cui tetto è crollato nel 1997 per errori fatti durante la realizzazione della copertura; possono essere anche i crolli della società, ovvero errori progettuali e di pianificazione e quindi errori politici che disgregano il tessuto connettivo della città con la realizzazione di nuove strutture abitative che di fatto lo condannano a morte.
L’esempio del Belìce in tal senso è di straordinaria importanza: tutti i paesi vengono ricostruiti secondo questo principio, città nuove, quartieri nuovi, abitazioni nuove, modelli nuovi. Una società dell’entroterra siciliano si ritrova a convivere con problematiche sconosciute, con scelte imposte.
Tutti i centri nuovi hanno le scuole, un centro sociale, una chiesa, la sede del comune, strade e autostrade, viadotti, dimensionate per gli abitanti da trasferire, ma l’effetto è estraniante. Grandi strade, case a schiera tutte uguali, palazzine in fila ordinata, scuole moderne, uffici moderni, viali moderni (senza alberi), e poi il nulla. Case abitate e case disabitate. Città senza centri, centri senza città. La ricostruzione ha trasformato i paesi del Belìce in agglomerati periferici senza identità, in grossi, squallidi e assolati quartieri dormitorio con quell’edilizia minimale tipica degli anni Sessanta che può ritrovarsi in tante periferie anonime e desolate di altre città italiane.
Un bilancio della ricostruzione dopo un terremoto può essere fatto dove tutte le previsioni di piano e tutte le promesse politiche sono state realizzate. Per esempio è possibile fare un bilancio della ricostruzione sia del Friuli, che delle Marche e dell’Umbria, in quanto le opere sono state ultimate, completate e la società si è ritrovata in una condizione migliore di quella in cui si trovano prima del terremoto. Per quanto concerne invece gli altri esempi, vedi il Belìce, la Campania, il Molise e ora L’Aquila, il bilancio provvisorio non può che essere negativo sul fronte della ricostruzione di case, strade e scuole. Nessuno di questi ultimi esempi ha migliorato la condizione di vita della popolazione. Forse in Sicilia nel Belìce c’è chi oggi ha una casa più grande e spazi più ariosi, che si traducono però in giornate di scirocco nel centro della Sicilia lungo strade torride, non percorribili né a piedi nè in bici. Ma soprattutto c’è una ricostruzione che a distanza di ben 45 anni dal terremoto non è stata nemmeno completata. Mancano ancora 390 milioni di euro per completarla. Intanto complice la crisi la disoccupazione giovanile tocca il 50%, mentre quelle case ricostruite valgono davvero poco, dai 300 ai 600 euro al metro quadro: il valore più basso d’Italia. Qui avranno pure ricostruito le case ma la società ne è uscita con le ossa rotte e senza alcuna prospettiva di sviluppo.
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[1] «Gli agrari, i dirigenti statali, i medici, gli insegnanti universitari, i grandi avvocati nati qui, abitano a Palermo, a Roma, a Trapani. Nei loro paesi di origine tornano raramente, per “occasioni” particolari; riuniscono i loro “rappresentanti” locali… e danno loro direttive»; tratto da F. Cagnoni, Valle del Belìce: terremoto di stato, Contemporanea Edizioni, Milano,1976, p. 29.
[2] Il senatore Ludovico Corrao cita in una discussione Leonardo Sciascia.
[3] Barbera L., I ministri dal cielo, Feltrinelli, Milano 1980.
(*) Ripreso dalla rivista «Leussein». Qui in blog trovate una mia lunga recensione-riflessione sulla nuova edizione de «I ministri dal cielo» che colgo l’occasione per ri-consigliare. (db)