Sono morte le notizie, circondate dall’affetto dei loro cari

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di Gianluca Cicinelli (ripreso da diogeneonline.info)

Sul numero che trovate oggi online di Diogene, di venerdì 17 oltretutto, abbiamo dedicato molto spazio alla libertà di stampa. Avviso subito che non apparteniamo alla schiera di coloro che vedono fascismo e dittatura dappertutto, ma è nostro dovere, proprio per la natura del nostro quotidiano e dell’agenzia stampa a esso collegata, denunciare la scomparsa dell’elemento principale del nostro lavoro: le notizie.

Ciò che accade è diverso dalla semplice censura. Censura è quando volontariamente si omettono informazioni. Ne sono protagonisti, ad esempio, i telegiornali nazionali, che hanno un concetto del diritto alla protesta molto preciso: non ne parlano. Anzi, senza timore per il ridicolo, è il governo, il governo non antifascista, per sua stessa definizione, che grida alla censura.

La scomparsa delle notizie è invece un problema culturale, geografico ed economico che va oltre quello politico. E forse è anche più difficile da affrontare. Su Diogene non trovate quasi mai le prime quattro o cinque notizie che hanno tutti i giornali. non avrebbe molto senso, a meno che non decidiamo di offrire una nostra lettura particolare su di un fatto relativo al nostro ambito d’interesse, ovvero la povertà.

In compenso la nostra giornata inizia con la lettura di un centinaio di giornali da tutto il mondo e di una decina di agenzie internazionali. Provate a discutere di premierato in italia sapendo quanto accade in Nuova Caledonia, per esempio. Magari pensando che il colonialismo sia un frutto del novecento, mentre una delle democrazie più avanzate in Europa è in realtà ancora oggi una potenza coloniale.

Che la Nuova Caledonia sia “una proprietà extraterritoriale francese” (“collettività francese d’oltremare sui generis”, la definisce Wikipedia) non è molto chiaro dai giornali. Come non è molto chiaro che in un paese dove vige il semipresidenzialismo, che in qualche modo assomiglia al confuso progetto di Giorgia Meloni e del suo Gran Consiglio, il “capo”, in questo caso il presidente, può inviare sull’isola le forze armate per sedare la ribellione senza consultare il Parlamento. Potrebbe farlo in italia se passasse il progetto Meloni?

Sarebbe uno spunto interessante per parlare di politica. Invece no. Perchè nelle redazioni hanno appreso dell’esistenza della Nuova Caledonia dalle agenzie stampa. Si generalizza naturalmente, e non è giusto, naturalmente, ma aprite i sei quotidiani principali italiani e provate a trovare qualche ragionamento che vada oltre la violenza della protesta.

Soltanto in rete sono reperibili centinaia di giornali da ogni parte del mondo. Di notizie, che renderebbero diversi e caratterizzati i giornali italiani e con un pubblico più largo, che significa soldi, ce ne sono migliaia. Ma passano sotto gli occhi di redattori e caporedattori come se il resto del mondo non esistesse.

Così come per un Assange che finisce dietro le sbarre ci sono altri cento Assange in tutto il mondo che sono abbandonati a se stessi sempre per la pigrizia di non cercare le notizie. Oggi su Diogene parliamo del caso di David McBride finito in una galera australiana per aver rivelato i crimini commessi in Afghanistan dall’esercito di Canberra. Perchè se Assange è il simbolo di una lotta più generale, sono proprio gli Assange che nessuno conosce quelli da far conoscere e tutelare all’opinione pubblica.

Difficile, ad esempio, immaginare che nell’ex democratica Inghilterra diventi reato criticare la sentenza di un processo penale. Ne abbiamo parlato in un articolo dove raccontiamo l’incredibile vicenda del servizio dello statunitense, nonchè prestigioso, New Yorker, che ha sollevato dubbi su un processo recente, con il risultato che quella pagina non è più consultabile dal Regno Unito perchè la legge lo permette. Nella patria di John Locke.

Se queste due notizie, due tra tante, ci ricordano quanto si stia stringendo intorno al collo dei giornalisti il cappio del controllo della politica e della magistratura sul loro lavoro, e non soltanto in Italia come abbiamo visto, dovremmo essere incentivati ancora di più a guardarci intorno e a raccontare ciò che vediamo.

Ma nelle redazioni impera oggi, al di là delle scelte degli editori, una tipologia di stronzetti che confonde il marketing con il giornalismo, e soprattutto confonde la propria limitata conoscenza del condominio in cui vive con il mondo. Il layout è più importante delle notizie. L’articolo deve essere breve. Sulla pagina devono esserci le stesse notizie del quotidiano concorrente. Rapporti confidenziali con le Procure a parte.

La povertà fa tristezza e la omettono, tranne per il barbone che vince la lotteria e fa simpatia, ci redime. L’informazione scientifica viene sempre più usata a scopo terroristico e non di conoscenza. Ma soprattutto, riprendendo il tema portante del ragionamento, cercando di piegare le notizie a un piccolo angolo di terra anzichè rapportarle al mondo.

Te lo insegnano appena entri in una scuola di giornalismo, che un morto occidentale ne vale almeno un centinaio nel sud-est asiatico. Il piccolo problema è che nel sud-est asiatico si sta riorganizzando l’intera produzione mondiale di beni e finanche di servizi, informatici e finanziari, e magari parlarne aiuterebbe a capire anche cosa accade a Corviale o a Tor Bella Monaca o al Giambellino o a Rogoredo.

Soluzioni non ne abbiamo, se non quella di fare ogni giorno Diogene, provando a dare un respiro globale ai problemi locali. Ma sarebbe onesto prima di parlare di censura del potere interrogarsi sull’autocensura dei sudditi, che porta alla mancanza di una dialettica che contrapponga le redazioni alle direzioni sui contenuti.

Il giornalista e partigiano Massimo Rendina, che ebbe nell’Anpi molti ruoli apicali, raccontava sempre che la prima cosa che facevano i partigiani quando entravano nelle città liberate era di aprire un giornale. Era quello secondo lui il segnale culturale di maggiore discontinuità con la dittatura. Oggi invece se ne chiudono sempre di più. Tirate voi le conclusioni.

da qui

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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