Sos Laribiancos (monologo)
adattamento teatrale di Pierpaolo Piludu dal romanzo «Quelli dalle labbra bianche» di Francesco Masala; musica di Paolo Fresu.
Una volta all’anno, ad Arasolé, sempre lo stesso giorno, sempre alla stessa ora, proprio qualche minuto prima del sorgere del sole, un omine pitticheddu, sempre vestito in velluto, estate-inverno, si arrampicava su 110 scalini di una scala a chiocciola e come arrivava su in alto, di nuovo all’aria aperta, prima di dare la sveglia a tutto il paese… si fermava; aspettava alcuni minuti, da solo.
Si sporgeva dalla balaustra, osservava i tetti di Arasolé sotto di lui, e riconosceva, una per una, sas domos, le abitazioni di alcuni ragazzi della sua stessa età che, proprio quello stesso giorno, tanti anni prima, erano partiti per andare alla guerra. Come un uccello pronto a spiccare il volo, osservava oltre i tetti, quei campi sterminati dove, insieme a quegli stessi ragazzi, aveva trascorso i giorni più belli della sua infanzia; quando le stagioni andavano e venivano e ogni mese aveva il suo nome: il mese del cerchio, il mese degli aquiloni, su mese de sas bardofolas, su mese de sos caddos de canna, su mese de sa murra.
Una volta all’anno, Daniele Mele, noto Culubiancu, campanaro di Arasolé, volava sopra il suo paese, sopra quei campi che erano stati il suo paradiso.
Don, don, don don, don!
Andava avanti, andava avanti per ore e ore. Culubiancu era pagato per suonare. E anche se allora ad Arasolé moriva poca gente, il lavoro non mancava, perché Culubiancu veniva pagato per suonare non soltanto per i morti freschi, i morti di giornata, ma anche per quelli secchi, già sepolti da un mese, tre mesi, tre anni. Pagavano gli eredi. Era un lavoro preciso, regolare: cantu depu sonare? Cantu faghet? Non si sbagliava mai; tot rintocchi, tot lire. Aveva il suo tariffario. Ma il giorno dell’anniversario, il giorno della partenza de sos fedales, Culubiancu non badava ai rintocchi. Non de li importai nudda de su ‘inari. Suonava gratis, suonava per sé, per ognuno dei suoi amici. Po no immentrigare. E quando Culubiancu suonava in quel modo, non si poteva far finta di non sentire. Cuddu sonu che colait in tottue: dal campanile, dai cipressi del cimitero, sino ai fichidindia intorno alla casa delle fontane rosse, ai prati di asfodeli e di ferule di Oddorài dove gracchiano rauche le cornacchie, fino alle querce contorte e sanguinanti dei salti di Ucanéle, finzas a su nuraghe nieddu de Orvenza, fino ai salti lontani di Soliàna, dove saltabeccano le capre dal piede nero e gli occhi gialli come lo zolfo.
Da bambino, se c’era un suono che mi dava fastidio… fut su toccu passadu, il suono delle campane quando suonano a morto. Dogni orta chi intendia sonare sas campanas a cussa manera, fut comente un’iscattulada, cuddu sonu propriu mi ch’intrada a intro. E così mi sono immaginato un intero paese, al confine con le foreste del Goceano, un intero paese che una volta all’anno si ferma per ascoltare un suono che fa male, che parla di un gruppo di ragazzi che un pomeriggio di sole del 1940 sono partiti per il fronte.
Volevo capire un po’ meglio. E assora soe andadu a chilcare Franziscu Masala, Cicitu Masala, il nostro poeta che purtroppo è morto tre anni fa; lui li aveva conosciuti tutti i richiamati, sos fedales della classe di ferro di Arasolé: unu riccu, unu mattimannu, Don Adamo d’Orvenza e tutti gli altri poveri, laribiancos.
Li chiamavano così, in modo dispregiativo, laribiancos, quelli dalle labbra bianche. Si riconoscevano subito: mangiavano poche proteine, poca carne, pochi carboidrati… mangiavano troppo poco.
A quei tempi dire “buon appetito”, ohi ite dannu it’arrore!, era una bestemmia; appetito era meglio averne sempre poco! C’era questo “problema della fame”. Un bel problema; un problema che lasciava il segno. Un segno inconfondibile, indelebile, che non si poteva nascondere, restava impresso sulla pelle come un marchio di fuoco!
Anemia, carenza di ferro, di proteine, ipovitaminosi…
Ad Arasolé invece bastava una sola parola…
Don, don, don don, don!
Per Gavino Malia, noto Tric Trac, venditore ambulante, figlio d’arte però: figlio, nipote, pronipote, se non ricordo male addirittura anche figlioccio, di venditori ambulanti di frutta! Da loro aveva ereditato oltre che sos laribiancos, anche la postura del lavoro: aveva cominciato a tirare il carretto della frutta da bambino… e si vedeva! Di solito lo caricava in Sa Serra,
NOTA (CON DOVEROSE SCURE PER L’INTERRUZIONE)
Forse è una piccola carognata interrompere subito questo testo, quando (lo spero) vi stava “prendendo”. Vi assicuro che è bellissimo sia a leggerlo che nel monologo di Piludu, dunque vi invito a farlo.
Il libro «Quelli dalle labbra bianche» uscì da Feltrinelli, nel 1962 e io lo lessi subito, dunque a 14 anni: mi sconvolse come la «Antologia di Spoon River» di Edgar Lee Masters, alla quale mi parve allora che somigliasse molto e un po’ sbagliavo. Oggi lo potete trovare presso le edizioni de Il Maestrale che lo hanno ristampato (continua a fare l’esaurito) molte volte, l’ultima nel 2008. Ho letto poi altri testi di Franziscu (o Frantziscu, è difficile trovare una grafia che vada bene per tutta l’Isola) Masala ma non ho avuto la fortuna di conoscerlo quando ho vissuto in Sardegna. Però lessi e amai «Lettera della moglie dell’emigrato» (nel 1968) e le poesie «Storie dei vinti» ed è davvero un peccato che oggi siano introvabili (ma se sbaglio, correggetemi).
Poi c’è la versione teatrale di Piludu che ho visto tre volte (una con Paolo Fresu dal vivo). Se in Sardegna lo spettacolo e Piludu sono ben noti, purtroppo restano poco (relativamente… comunque non quanto meriterebbero) conosciuti fuori dall’Isola. Forse il modo migliore di far capire quanto sia bravo Piludu è raccontare questo piccolo episodio. Anni fa a Bologna facevo un corso di giornalismo sociale (per «Piazza Grande») e proposi a un po’ di persone di andare a vedere – e provare poi a recensire – un altro tipo di narrazione, il teatro. Capitò, che fortuna, «Sos larinbiancos». Andammo. Tutte/i – sia chi era già stato a teatro in vita sua, sia chi (il maggior numero) quasi ne ignorava l’esistenza – rimasero sconvolti. So che qualcuna/o ha iniziato ad amare il teatro quel giorno e continua perché incontrandola/o mi rimprovera «perché non sei venuto a vedere Xy…?». Ma soprattutto di quella sera rammento la “tenera ingenuità” di quella che poi è diventata un’amica mentre mi diceva: «perché, capisci, lui racconta tutte quelle storie, ed è da solo, e non cambia neppure il vestito, eppure ogni volta sembra una persona diversa». Sì, una magia. Ma per correttezza devo avvisare che in teatro non tutti e non tutte sono come Pierpaolo Piludu.
Se ne avete l’ opportunita’ andate a vedere questo spettacolo, il. Monologo di Pierpaolo Piludu e’ un capolavoro .mi commuovo ogni volta. Tziu Franziscu in su chelu siat
per conoscerlo o ricordarlo
qui Francesco Masala parla:
http://www.sardegnadigitallibrary.it/index.php?xsl=626&id=187859
Anch’io ho avuto la fortuna di vedere questo monologo di Pierpaolo, e posso confermare che il suo adattamento, recitato da lui, è uno spettacolo estremamente coinvolgente, all’altezza del testo originale. Il che non è certamente poco. A differenza di Daniele ho avuto anche la grande fortuna non solo di conoscere Cicitu di persona, ma mi ha anche onorato della sua amicizia, come si dice. Era un uomo dalla forte personalità, ottimo narratore e eccellente poeta. Putroppo ha pagato lo scotto, in termini di notorietà, della sua scelta, coerente fino in fondo, di essere fedele alla lingua della sua terra
Che bellezza questi uomini che hanno scelto di pagare” lo scotto” di essere se stessi a discapito della notorieta’. Averne di Cicitu sarebbe un paese migliore il nostro .