Sotto la maschera (collettiva?)
«Ci manca(va) un Venerdì», puntata 110: con un mucchio di tizi – Alan Moore, Cioran, Jung, Gramsci e Nietzsche, per dirne 5 – che si travestono da Fabrizio “Astrofilosofo” Melodia
« – Chi sei?
– Chi… “Chi” è soltanto la forma conseguente alla funzione, ma ciò che sono è un uomo in maschera.
– Ah, questo lo vedo!
– Certo, non metto in dubbio le tue capacità di osservazione. Sto semplicemente sottolineando il paradosso costituito dal chiedere a un uomo mascherato chi egli sia».
Così afferma, con filosofica ironia, il protagonista del fumetto «V per vendetta», del mostro sacro del fumetto britannico Alan Moore, in un’opera che presenta un “supereroe” ribelle al governo totalitario e fascista nato ipoteticamente dopo l’avvento di Margareth Tatcher.
Dopo la mia esperienza alla fiera del fumetto di Roma, andata oltre le più rosee aspettative, ho avuto modo d’incontrare e fotografare molte persone in maschera, i cosiddetti “cosplayer”, neologismo nato dalla fusione delle parole “costume” e “player”, ovvero colui che indossa un costume interpreta un ruolo.
Moltissimi giovani e non più giovani hanno animato la fiera del Romics con sgargianti costumi – molti realizzati totalmente a mano con passione e fantasia – tratti dai fumetti, dai film, dai cartoni animati e da tutto ciò che costituisce mitologia, o per dirla meglio immaginario collettivo, un termine assai caro allo psicologo svizzero Carl Gustav Jung, il quale affermava: «Quando analizziamo la persona le strappiamo la maschera e scopriamo che quello che sembrava individuale alla base è collettivo».
In effetti a Romics sembrava di essere immersi in un caso di follia di massa collettiva, forse aiutata dal fatto che i cosplayer entrano gratis in fiera; oppure è vero che la fantasia in tempi bui e violenti come questi sembra essere l’unica valvola di sfogo per non diventare definitivamente pazzi.
Essere sani in un mondo folle è dunque una pazzia? Il filosofo Emil Cioran sembra non nutrire dubbi: «Devo fabbricarmi un sorriso, munirmene, mettermi sotto la sua protezione, frapporre qualcosa tra il mondo e me, camuffare le mie ferite, imparare insomma a usare la maschera».
La maschera sembra conferire un potere immenso: l’impossibilità di essere identificati come persona ma solo attraverso un archetipo pare rendere potenti e invincibili, anche quando ci si maschera dietro a un sorriso e alle parole. In quei momenti si ripete un gioco eterno, dove il mondo appare ribaltato e tutto sembra perdere consistenza: un senso di libertà pressoché totale, dove persino Sorella Morte – che in fiera distribuiva abbracci gratuiti (una delle maschere più belle, a parer mio) – e la mano lunga del Sistema non arrivano.
Potrebbe anche essere altro: non una maschera per occultare e vivere, o per fare “giustizia” come ogni superuomo di massa – termine caro a Gramsci – ma per essere altro da sé. Maschere che permettano di costruire un nuovo mondo nelle molteplici possibilità, per modellare l’Utopia che noi (tutti? tanti?) vorremmo.
La fantasia e la maschera come metodo filosofico per trovare la strada d’uscita? Il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche scandisce: «Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l’immagine e l’allegoria perfino dell’odio. Non dovrebbe essere soprattutto l’antitesi il giusto travestimento con cui incede il pudore di un dio?».
Ecco dunque come la domanda posta al protagonista di V per Vendetta assume un ironico non senso: essendo la maschera la forma stessa dell’antitesi come puoi chiederle un’identità nella sua indeterminazione?
Nella danza dell’indeterminazione di persone determinate a dar corpo alla fantasia, a rendere tangibili le idee per un mondo diverso, ci aiuta il poeta irlandese William Butler Yeats: «Se non sappiamo immaginarci diversi da come siamo e assumere questo secondo io, non possiamo imporci una disciplina, nonostante che ne possiamo accettare una da altri. La virtù attiva, in quanto distinta dall’accettazione passiva della regola vigente, è perciò teatrale, consapevolmente drammatica, la capacità di indossare una maschera. È la condizione di una vita strenua, piena».
PS: l’immagine è una mia foto ai cosplayer scattata al Romics. Un grazie grande quanto i nove sesti dell’universo a Silvia e Alberto che, con la loro meravigliosa ospitalità e le belle chiacchierate serali, hanno reso possibile questo CMU-venerdì.